Di Eliana Rotella
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena.
Un volto stereotipicamente femminile diviso in due: da una parte la foto in bianco e nero, dall’altra il suo negativo. Sopra, urla in rosso la scritta: “Your Body is a Battleground”. È il 1989 quando Barbara Kruger dà vita alla sua opera Untitled (Your body is a battleground), concepita inizialmente in sostegno a una manifestazione per il diritto all’aborto a Washington, nell’aprile del 1989, in risposta all’ondata di movimenti anti-abortisti dell’epoca. Un’epoca lontana, insomma, una necessità oggi anacronistica.
Mettendo da parte il vessillo del sarcasmo, giubbotto di salvataggio nel mare politico contemporaneo, viene da chiedersi come e se quello slogan stampato oggi su una moltitudine di magliette risuoni ancora con la stessa forza. Mi fermo – nello stillicidio che è la redazione di un testo – e rileggo. Mi fermo, rileggo questa scarsa manciata di righe iniziali, frutto di una pluralità di interruzioni, paragrafi eliminati e tab aperte, e passo alla prima persona singolare. Mi chiedo come e se quello slogan mi risuoni oggi nelle scelte che compio, nel lavoro che faccio, che non può che partire dal corpo. Esco dall’impersonale rassicurante, che comunque se lo chiederà sempre un’Altra, chiudo le fonti di saggistica a sostegno di un’analisi storica della rappresentazione della violenza a teatro e sto seduta in tutta la scomodità di una domanda reale, che ho fatto e mi sono fatta innumerevoli volte, soprattutto di notte, come ora che scrivo, quando mi sembra esista l’unico silenzio possibile per articolare i pensieri.
Me lo chiedo: il corpo è davvero un campo di battaglia? Ancora – forse la scena è un campo di battaglia? Ancora – dove sta la linea che demarca il servirsi della rappresentazione della violenza per scuotere chi non l’ha subita e reiterare il trauma per chi invece quella violenza l’ha depositata nella propria memoria epidermica – per chi quella violenza l’ha vissuta davvero? Ancora – dove sta il confine tra buonismo, censura, vergogna, cura, trasformazione, perbenismo intrinseco, spettacolarizzazione del trauma, presa in carico della rabbia, pornografia del dolore, e le mille declinazioni della relazione arcaica tra arte e violenza? Cosa significa parlare di rappresentazione della violenza con un genocidio in atto? Cosa esiste tra il “Fuck Catharsis” di Carolina Bianchi e la prospettiva de “La trama alternativa” di Giusi Palomba? La domanda originaria si è moltiplicata come succede agli organismi che hanno vita propria.
Sono domande dentro cui cado e che partono dalla posizione di un privilegio radicato, dalla comodità del mio essere una persona bianca nata in un contesto di stabilità economica e, come tale, posso rispondere in maniera miope: qualsiasi dissertazione concettualmente ineccepibile crolla, qualsiasi speculazione estetica si accartoccia. Posso solo offrire i miei occhi parziali per rispondere con tutte le storture di un’esistenza contraffatta dal privilegio alla domanda che mi è stata fatta, che mi faccio – quali sono le prospettive evolutive del ruolo della violenza a teatro? Riapro, necessariamente, i volumi di una storia duplice nella sua natura maiuscola e minuscola e riparto da qui.
Ho iniziato a scrivere drammaturgia leggendo la Kane. Ho consumato e sottolineato in ogni formato possibile tutte le pagine di quello che i giornali definirono “un disgustoso banchetto di sporcizia (…)”, questo testo che non sembra conoscere limiti al pudore e che non ha la sua giustificazione nemmeno un messaggio da comunicare. Perché la ventitreenne Sarah Kane abbia deciso di scriverlo sono “fatti suoi” e “pura e semplice brutalità” e “i sostenitori di Miss Kane potrebbero affermare che Shakespeare includesse scene altrettanto esplicite. Sfortunatamente, lei non è una brava scrittrice”. Questi sono solo alcuni dei giudizi che esplosero la notte del 12 gennaio 1995, quando per la prima volta, sul palco del Royal Court Theatre Upstairs di Londra, venne rappresentata Blasted, l’opera prima di una scrittrice ventitreenne proveniente dall’Essex. La pièce venne accolta da una nettissima divisione di opinioni, dando materiale per la maggior parte dei tabloid e addirittura per un notiziario televisivo, in una reazione collettiva “isterica e apoplettica” che neanche il direttivo del Royal Court Theatre, per quanto consapevole della portata visivamente cruda dello spettacolo, riusciva a spiegarsi.
Il puro resoconto dell’azione scenica, così come un esame letterale del testo, hanno portato molti critici a valutare il climax di atrocità nell’opera come ostentazione di una pulp fiction fine a se stessa, un accumulo di cadaveri e violenze solo per la necessità di scioccare gli spettatori e far parlare di sé. Le accuse di volersi fare vessillo di un teatro volto alla semplice provocazione si protrarranno anche riguardo le due opere successive, Phaedra’s love (1996) e Cleansed (1998), tanto da indurre la Kane, come risposta, a pubblicare la pièce successiva Crave (1998) sotto lo pseudonimo di Mary Kelvedon, in parte per gioco, in parte per liberarsi dall’ombra opprimente di essere Sarah Kane, la controversa autrice di Blasted.
Gli anni sono quelli del cosiddetto “In-yer-face theatre”, un contesto che si prestava a un’interpretazione quasi univoca del ruolo delle azioni violente di Blasted: nient’altro che uno strumento formale come un altro per colpire a tutti costi il pubblico, a costo di cadere nella violenza ingiustificata di uno show molto splatter in stile Quentin Tarantino al quale le opere dell’autrice britannica sono state spesso comparate. A questo proposito, mi sembra doveroso riportare il punto di vista della stessa Kane, le cui parole qui riportate si riferiscono a una messa in scena di Blasted del 1996 ad Amburgo, in Germania:
“This man walked on-stage… in a really trendy jacket, greased back hair, sun-glasses wrapped around (…) and I thought, ‘where have I seen this character?’ And it’s Tarantino, and my heart just broke (…) And in some ways that becomes quite insulting – the work is seen as part of a school which I abhor (…) My plays certainly exist within a theatrical tradition (…) but they are not about methods of representation. On the whole they are about love and about survival and about hope, and to me that is extremely different thing. So when I go to see a production of Blasted, in which all the characters are complete shits and I don’t care about them I get upset”.
In una lettera a Graham Saunders, datata tre anni dopo il debutto di Blasted, Sarah Kane si esprime esplicitamente, come farà molte volte in seguito, riguardo alla scelta di comprendere nei suoi testi atti di atrocità esplicita:
“Art isn’t about the shock of something new. It’s about arranging the old in such a way that you see it afresh. The press kept asking why it was necessary to show such acts of violence on stage. I think it was necessary because we normally see war atrocities as documentary or news footage. And Blasted is no documentary. So suddenly all those familiar images were presented in an odd theatrical form which provided no framework within which to locate oneself in relationship to the material. That’s an amoral representation of violence”. A partire da questa posizione, riesce evidente notare come nessuna azione violenta sia mai autoreferenziale, a cominciare dalla concezione di violenza stessa: “We live in a world of rampant cruelty, waste and injustice; we see it in every place, at every level. Yet in theatre, this didn’t stop wealthy, healthy, middle-class folk looking at some inane subject like pensions or architecture or spying or newspapers and finding more rottenness than in any Denmark, more pain in any holocaust, core apocalypse than any Hiroshima. […] The thing that shocks me the most is that they seem to have been more upset by the presentation of violence than by violence itself. I mean, a 15-year-old girl has just been raped in a wood but there’s more space in the tabloids about my play than about this brutal act. That’s the kind of journalism that the play absolutely condemns”.
Il teatro come cassa di risonanza profonda, trasversale, della realtà: la violenza diventa più reale del reale nel momento in cui affronta la sua rappresentazione. È proprio dall’intento mimetico che la Kane stessa si allontana, nella messa in scena dei suoi testi. Durante l’intervista registrata il 3 novembre del 1998 al Royal Holloway, University of London, Sarah Kane, intervistata da Dan Rebellato, ha dichiarato a riguardo:
“About Phaedra’s Love, I had great fun writing because there were so many ridiculous things like ‘cuts off his genitals and thows them to the dog’. And I’d just think: ‘Well, it’s not my problem’ and then suddenly it was because I ended up directing it. That was very interesting because when I watched “Blasted” very often I didn’t see exactly what I’d written and it would really annoy me, but suddenly I was confronted with just how difficult it is to create the images that I write. But I really like doing it. […] And I think the less naturalistically you show those things, the more likely people are to be thinking: ‘What does this mean? What is the meaning of this act?’ rather than: ‘Fucking hell, how did they do that?’. Which is really not that interesting a response to elicit from an audience because you know David Copperfield can do that”.
Ho iniziato a scrivere leggendo le parole atroci intrise di violenza di un’autrice che non le ha mai rese gratuite e quando è toccato a me confrontarmi nei miei testi sulla rappresentazione della violenza, mi sono resa conto di come ci fossero delle contingenze estremamente diverse in cui muovermi. La cornice dentro cui leggere la scelta di rappresentare la violenza è estremamente diversa da trent’anni (netti) fa e da qui si può solo aprire quel delta di scelte artistiche dentro cui ognuno naviga. Quando ho scritto Livido, un testo che tratta di abuso, mi sono ritrovata a scrivere, nella presentazione: “La scena della violenza non sarà mai presente in nessun modo, neanche metaforico, trasfigurato, niente pezzi di teatro-danza sotto brani di musica elettronica e luci strobo, non verrà mai descritto, pronunciato, che sia in forma poetica o allegorica. La violenza sarà definita dal vuoto sotteso del non essere mostrata, del fermarsi sulle soglie di, dal suo perimetro creato proprio dal tentare ogni volta di raccontare, scontrandosi con il fallimento della sua rappresentazione. Si tenta di raccontare per colmare un vuoto di memoria, un vuoto di narrazione, l’afasia davanti alla violenza, all’impronunciabile. Ogni volta, davanti a questo vuoto, si inventa un nuovo sviluppo, un nuovo finale. Ogni volta, si ricomincia da capo”.
Mi sono resa conto che in quel caso la rappresentazione della violenza si sarebbe basata sul reiterare un meccanismo drammaturgico già di per sé traumatico, in quanto il testo si basava sulla riscrittura del mito di Eco e Narciso, secondo la guida di un Ovidio/narratrice.
Il mito greco è latino di per sè è un tipo di narrazione fondante della nostra società occidentale ed è un tipo di racconto basato, nella sua essenza, fin dalla teogonia, sul meccanismo narrativo e culturale dello stupro. La reiterazione spasmodica della violenza come atto costitutivo dello sviluppo della narrazione crea l’orizzonte statico della rappresentazione, del modello, della tradizione. Il tentativo non è solo quello di problematizzare un avvenimento e il fallimento della sua rappresentazione, ma andare a erodere, usando lo stesso meccanismo, almeno per il lasso di tempo permesso, la struttura stessa della mitologia. L’immobilità granitica del mito, la cui fine tragica è inevitabile, viene sgretolata alle basi della narrazione.
Narrare come base di rivolta, come difesa ultima davanti all’avanzata del vuoto, immaginare come risposta alla mancanza dialogica della violenza. Ripetere come riscrivere, come ritornare al ruolo fondante del perché mettere e mettersi in scena, un ripetere come tentativo di liberazione da parte di un soggetto e non il ripetersi oggettificazione di una gabbia senza via d’uscita, disumanizzante, del reiterare il trauma rimanendo in un cerchio chiuso. Il passato incistato di precedenti, le leggi non scritte di una tradizione che pone le sue basi in un millenario immaginario di narrazioni abusive si disfa, lentamente, davanti a nuovi futuri possibili.
Scriveva Mohja Kahf nel 1998:
[…]
My body is not your battleground
My hair is neither sacred nor cheap,
neither the cause of your disarray
nor the path to your liberation
My hair will not bring progress and clean water
if it flies unbraided in the breeze
It will not save us from our attackers
if it is wrapped and shielded from the sun
[…]
In questa poesia c’è una domanda forse che mi risuona ogni volta che scelgo o meno che strada prendere, per capire cosa rappresentare e come: Is it your skin that will tear when the head of the new world emerges?

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