AS-SAGGI DI DANZA #19 – Wim Vandekeybus, a rough collection of dreams and desires

Giu 23, 2018

Ultima Vez in “In Spite of Wishing and Wanting”

Ultima Vez in “In Spite of Wishing and Wanting”

Risale al 2012 quando vidi al Teatro Della Pergola di Firenze lo spettacolo Oedipus/Bêt Noir, e fui letteralmente conquistato da una serie di impressioni, descrivibili poi con quegli aggettivi e sostantivi che vengono da sempre utilizzati per descrivere il lavoro di Wim Vandekeybus: tensione, conflitto, istintivo, passionale, impulsivo, esplosivo…la lista potrebbe continuare a lungo su questa scia.

Vandekeybus, artista belga avvicinatosi al teatro tardivamente e uscito dalla fucina creativa di Jan Fabre, ad oggi è uno degli artisti di punta della danza contemporanea europea, che mantiene ancora strettamente il primato della ricerca sul corpo e un’idea della danza come spettacolo “totale”. Il suo legame con l’Italia e con il pubblico italiano non è mai stato un mistero, e così può capitare di vedere in programmazione – come un faro di speranza nelle tenebre – uno spettacolo della sua compagnia, Ultima Vez. Quest’anno il Teatro Bellini di Napoli, grazie all’accurata programmazione di danza di Manuela Barbato ed Emma Cianchi, ha portato ad un pubblico entusiasta uno spettacolo del 1999 di grande successo, In Spite of Wishing and Wanting. Il titolo dice molto e spesso quando si parla della danza pochi si soffermano sul significato di quelle poche parole. Va riletto alla luce di alcune impressioni.

Lo spettacolo inizia con due performer e una corda tesa, tenuta stretta fra i denti. Tutt’intorno gli altri uomini scalpitano come cavalli in uno stato di inquietudine e una malsana agitazione che va a contagiare anche il pubblico. Vengono utilizzati molti controluce e luci frontali, che rendono lo spazio del teatro come un continuum fra platea e palco, in particolar modo quando i performer agiscono – e succede in tutto lo spettacolo – sul proscenio. La corda tesa è una storia che non è narrazione ma che è esplorazione della natura più intima dell’essere uomo e maschio nella società odierna. Le persone sono in preda alla propria animalità: provano paura, desiderio, panico. Scappano e gridano, scalciano contro la scenografia. Il tutto però è orchestrato da uno stalliere che, come un deus ex machina, sposta, comanda, spaventa, in un crudele e malizioso gioco basato sulla paura. Questa paura esplode come il cuscino in scena, un colpo che libera nell’aria centinaia di piume, che rimarranno a svolazzare in scena fino alla fine dello spettacolo.

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Ogni performer acquista una propria personalità nel corso dello spettacolo: ci sono momenti di lite scherzosa e goliardica, momenti di contrasto e di sfida, momenti di espressione massima dell’istinto al nutrimento e ai bisogni più basici (eccezionale l’interpretazione di Knut Vikström Precht) dell’essere umano: ma soprattutto parti in cui loro si alleano, fanno gruppo, diventano consapevoli dei loro desideri e delle loro aspettative, e delle parole che più li corrispondono. Spesso anche momenti di tenerezza, ricerca di un contatto umano e protettivo, perfettamente incorporato in cui ognuno, con la sua parte di arancia in mano, cerca il partner che ha l’altra esatta metà. Il cibo e la fame, elementi che riconducono alle esigenze basilari dell’essere umano, sono presenti un po’ in tutto lo spettacolo.

Le parole: sono i pilastri fondamentali di questo spettacolo. Le parole non conoscono lingua di trasmissione (si parla in italiano, in inglese, in francese e spagnolo) e sono il filo conduttore di tutto l’atto. Le parole diventano presa di coscienza di ognuno, vengono rubate dallo stalliere e rese una proprietà privata. Il tentativo di descriversi corrisponde al tentativo di ogni uomo che si sta formando di prendere coscienza di sé stesso e di trovare i termini per descriversi e per parlare di ciò che vuole e di ciò che non è riuscito ad ottenere. In un gioco drammaturgico estenuante, che ricorda il tentativo vano del personaggio di Beckett nei suoi Atti senza parole. Lo stalliere possiede le parole di tutti i presenti, ne ha il potere e quindi ha in pugno anche la loro volontà. Vandekeybus innesca su questo tema un meccanismo di continuità fra i diversi piani di lettura dello spettacolo che interagiscono fra di loro: il parlato, la danza, i momenti di attesa e silenzio e il cinema. Ad un certo punto lo spettacolo è interrotto da un estratto di Racconto senza morale di Julius Cortàzar: le parole, i sospiri, le grida sono la merce che un uomo vende ai mendicanti, ai passanti e persino al tiranno.

La danza in questo spettacolo rimane però non sostanziale ma strutturale, risultando spesso chiusa in sequenze giustapposte tra un momento drammatico e l’altro: il vocabolario di Vandekeybus non brilla per varietà di linguaggi e qualità, ma sicuramente si distingue per la capacità immaginifica che le sue danze creano insieme alla musica (originale) di David Byrne e ai costumi larghi, aerei, in contrasto fortissimo con la violenza e poderosità della danza. Moltissima l’energia esplosiva fra salti, acrobazie e movimenti raso terra, sempre però direzionata ad una chiara conclusione verso un passaggio alla scena successiva. Da un lato la tensione del corpo è mantenuta su un filo teso come in una situazione di tregua sul campo di battaglia, dall’altra la danza viene usata nella natura stessa di espressione del mondo maschile, ovvero di essere presente, estemporanea, di non poter essere fermata nel momento in cui si manifesta. In una visione che strizza l’occhio a Schopenhauer, la catarsi che provoca il vedere la danza aiuta l’uomo a liberarsi ma non gli permette né pace né riposo dei sensi.

In questo spettacolo l’uomo “sublima” sé stesso nei desideri e nella sua identità: In spite of wishing and wanting… nel titolo risiede il significato di questa eterna ricerca: nonostante il desiderio e la volontà, questi 11 uomini mostrano che sotto l’energia della superficie tutto il resto nella loro natura è profondo e ancestrale. Come nel finale, anche quando tutti si addormentano sui propri corpi, un cavallo continua a percorre il palcoscenico, senza redini e, stavolta, senza alcun controllo.

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