La guerra è affare che riguarda tutte e tutti, a prescindere da dove sia localizzato il conflitto. La Storia insegna che l’impatto generato dalle rappresaglie militari, quali che siano gli schieramenti e le motivazioni del contendere, ridefinisce gli equilibri geopolitici. E la mutazione di un ordine politico coincide di fatto con la trasformazione degli assetti sociali.
Nell’immaginario collettivo la guerra è una postura maschile. Eppure a combattere e a morire non sono solamente gli uomini.
Già nella prima metà del secolo scorso, l’autrice e femminista britannica Helena Maria Lucy Swanwick conduceva una riflessione sulla guerra e sulla pace, sul ruolo delle donne nel conflitto, sul disarmo e le relazioni internazionali, che resta ancora in gran parte da ricostruire e valorizzare.
Nel 1915 e nel 1916 appaiono due suoi opuscoli: Le donne e la guerra e Le conseguenze della guerra sulle donne. In questi scritti, e in particolare in Le donne e la guerra, un saggio che ebbe risonanza negli ambienti pacifisti a livello internazionale, Helena Swanwick anticipa molti dei temi che svilupperà negli anni successivi e che saranno al centro della riflessione del pacifismo femminista contemporaneo: il nesso tra la pace e la partecipazione politica femminile, tra militarismo e degradazione delle donne.
Nella “mentalità della forza fisica”, Swanwick individuava le radici profonde che alimentavano i conflitti, ostacolavano la democrazia e rafforzavano il dominio sulle donne:
“Noi non muoviamo guerra alle donne e ai bambini!”. Questo è il luogo comune dell’attuale retorica britannica. Ma non è vero. La guerra la fanno solo gli uomini, ma non è possibile farla solo agli uomini. Tutte le guerre colpiscono necessariamente le donne e i bambini, tanto quanto gli uomini. Quando gli aviatori sganciano le bombe, quando i cannoni bombardano città fortificate, non è possibile evitare le donne e i bambini che si trovino nel loro raggio di azione. Le donne devono far fronte ai disastri economici della guerra; fanno i conti con la penuria, lavorano il doppio, pagano le imposte e i prezzi inflazionati di guerra, come gli uomini, ma partendo da redditi inferiori.
Pur rintracciando nelle parole di Swanwick una condizione tutt’oggi ravvisabile, il problema odierno non risiede semplicemente nel definire l’impatto della guerra sulle donne, ma piuttosto che cosa la storia delle donne riveli delle politiche di guerra. Materiali ormai entrati a far parte con pieno diritto di cittadinanza nella storiografia ufficiale – epistolari, autobiografie, memorie – evidenziano discrepanze significative tra storia privata e storia nazionale nell’enfasi diversa posta sulla morte e sulla perdita in contrapposizione agli stereotipi dell’eroismo e del valore.
La “guerra totale” per le sue stesse connotazioni finisce per imporre l’uguaglianza di tutti di fronte all’orrore che minaccia di inghiottire uomini e donne. Nell’interpretazione di storiche e studiose di genere, la necessità di rispondere in quanto singoli e in quanto collettività al pericolo che minaccia il proprio paese ha come conseguenza un’apparente negazione delle antiche formulazioni del maschile e del femminile con la loro tradizionale contrapposizione, cui viene ora a sostituirsi la dicotomia attivo-passivo, in base alla quale viene giudicato l’impegno e la responsabilità che ciascuno decide di prendere su di sé.
Proprio in questo “incavo della responsabilità” pone le sue radici WERRA (Storie di donne e di guerra), spettacolo di e con Altea Chionna, giovane attrice pugliese alla sua prima prova registica, che debutterà il prossimo 20 aprile al Teatro TEX di San Vito dei Normanni (BR). Il lavoro intende raccontare la guerra da un punto di vista femminile, scardinando i criteri contenitivi del recinto di passività in cui le donne sono state confinate.
In tempi bui governati come quelli che ci troviamo tristemente a vivere, un elemento discordante rispetto alle esperienze precedenti ha a che fare proprio con la centralità della donna nel conflitto. Premier donne, soldatesse, inviate di guerra, sono attrici di prim’ordine in un simile teatro degli orrori.
La drammaturgia firmata da Valeria Simone, autrice che si è confrontata a più riprese con la scrittura di storie di donne in condizioni di marginalità, è strutturata in quattro monologhi che diventano altrettanti quadri nella restituzione scenica di Altea Chionna.
L’incipit drammaturgico del lavoro, racconta Simone, si è definito attraverso l’osservazione dello scenario contemporaneo: «nella contemporaneità, le donne rivestono nella guerra un ruolo mai avuto prima nella storia, poiché detengono un potere decisionale».
Infatti, il primo personaggio a solcare la scena di WERRA, ideata da Chionna insieme a Valentino Ligorio, è una premier politica che si prepara a comunicare alla popolazione l’ingresso in guerra della nazione. Fin da subito, emerge la rilevanza del contrasto come fulcro di tutta l’impalcatura spettacolare: la premier guerrafondaia capace di ritenere “la morte un incidente di percorso irrilevante” è innanzitutto una madre che, dolcissima, saluta la figlia al telefono. E se non fosse abbastanza evidente la natura di tale divergenza, i movimenti di Altea Chionna offrono un ulteriore piano di decodifica: la preparazione della premier al discorso alla nazione avviene per mezzo della stilizzazione e reiterazione di una serie di pose che rimandano al training dell’attore. Il reale e il fittizio che si mescolano, nel caso della politica, a manipolare le menti e raccogliere consensi.
La brutalità del discorso politico poco ha da competere con quella espressa nel secondo quadro che vede protagonista una soldatessa appena ventenne. Il suo racconto mostruoso sull’assassinio di una bambina incarna il vero, grande abominio della guerra: lo sterminio di innocenti.
Qui il linguaggio teatrale si trasforma nuovamente per lasciare spazio al teatro danza. Con un’interessante soluzione registica, la soldatessa è imprigionata in una gonna di corde a rappresentare i lacci di una guerra che la disumanizza, che la rende fantoccio, che la manovra, che la condanna al suo essere assassina.
Ma come si fa a raccontare con verità la guerra, smascherando le menzogne dietro cui si barrica il conflitto? Infausto compito della reporter del terzo quadro che, nel condurre la sua terribile narrazione, ci porta sui polverosi campi di battaglia. Un altro espediente scenico che si fa linguaggio è la proiezione in diretta del monologo ripreso con una handycam.
La stessa proiezione che muta per mostrare scenari di guerra e introdurre l’ultimo personaggio, una rifugiata che sotto i missili ha perso tutto e che, nell’esprimere un lancinante dolore dell’anima, prende il pubblico per mano e lo colloca di fronte allo specchio della propria coscienza.
Sarà per rendere possibile questa rifrazione che, in questa scena, Altea Chionna sceglie di rompere la quarta parete e di venirci a cercare per guardarci negli occhi, per chiederci di prendere una posizione.
Perché la sofferenza è un sentimento universale che prescinde dalle motivazioni scatenanti e seppur le nostre notti non sono illuminate da bombe che brillano e sirene che strillano, il dolore non chiede il permesso per entrare nelle nostre vite. Restare umani vuol forse dire questo, non lasciare che la barbarie della violenza ci anestetizzi fino al punto di diventare orbi, di lasciarci pericolosamente indifferenti.
WERRA (Storie di donne e di guerra)
con Altea Chionna
drammaturgia di Valeria Simone
regia di Altea Chionna
direttore di scena e luci Valentino Ligorio
costumi Francesco Ceo
movimento scenico Sergio Nigro
produzione Teatro Menzati / TEX – Teatro dell’Ex Fadda
segreteria di produzione Rita Mariateresa Mascia
Grafica Marika Nacci
Disegno Massimo Fedele

Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.