In uno scritto intitolato Teatro Novecento: ovvietà a firma dello studioso Ferdinando Taviani, si legge: «Il XX secolo è il secolo in cui l’essenza stessa del teatro s’è sentita minacciata. È pertanto un’età d’oro».
Il sentore di minaccia, rilevato e analizzato da Taviani nel teatro del Novecento, è estendibile oltre i confini temporali di un’epoca. L’estinzione – o il suo indebolimento – è connaturata all’esperienza del teatro in quanto tale, palesandosi nell’avvicendamento di ogni nuova fase che lo attraversi, sia essa di ordine poetico, storico o politico. Il suo essere espressione artistica dell’umano determina l’assoggettamento del teatro alle trasformazioni sociali e culturali.
Se la pratica laboratoriale novecentesca ha frantumato i codici preesistenti, intervenendo innanzitutto sulla dimensione relazionale e autoriale dei processi artistici, ci troviamo oggi al cospetto di un ribaltamento – le motivazioni sono innumerevoli, per obbligo di sintesi ci si concentrerà su uno degli aspetti rilevabili – che vede nella distrazione del pubblico il proprio seme. La fruizione, esplosa a fronte della pressoché infinita produzione di contenuti, artistici e non, capace di raggiungerci in ogni dove e in ogni quando, non sempre rappresenta il beneficio di un input.
Più spesso, obbliga alla selezione, alla scelta frenetica – e distratta – di ciò che ci interessa: meglio, che ci attrae. E l’attrazione è un atteggiamento istintuale, conclama ciò che avvicina e repelle senza obbligo di approfondimento. Il teatro, sintesi delle arti, molteplicità di intenti, richiede un’esplorazione che ha i tratti dell’inabissamento: infrangere la superficie, sfidare il buio. Dunque, il teatro è in crisi? Parafrasando Taviani: il XXI secolo è il secolo in cui l’essenza stessa del teatro s’è sentita minacciata. È pertanto un’età d’oro.
Di tramutare l’impasse in possibilità si sta occupando, tra gli altri, un’intera generazione di autrici e autori teatrali che ha beninteso come la drammaturgia non sia la sola arte di scrivere drammi e opere per il teatro. Il dramatos ergon – vale a dire il lavoro, la costruzione dell’azione – etimo della parola drammaturgia, ne risolve l’immediata assimilazione al contesto puramente letterario. Riferirsi alla drammaturgia significa guardare alle caratteristiche narratologiche di un sistema di relazioni, elementi formali, connessioni, codici che plasmano la partitura dell’evento performativo. E significa anche avere tra le mani un metro da sarto, con cui misurare le storture e gli slanci delle porzioni di mondo e dei frammenti di tempo che si abitano. Sta nella capacità di tenere assieme l’impalcatura spettacolare – con le sue plurime, possibili espressioni – e di leggere il presente, l’interesse ineludibile verso la drammaturgia. Ma chi sono le drammaturghe e i drammaturghi oggi?
L’errore è dietro l’angolo: figurarsi l’autore come colui che chino sulla scrivania verga ciò che ha intorno, osservandolo dalla propria torre d’avorio, è obsoleto. Primo, perché tale immagine presupporrebbe un elitarismo della ricerca intellettuale inconciliabile con gli intrecci relazionali di cui si è detto e da cui il drammaturgo, nell’esercizio della professione, non può esimersi; secondo, perché l’avorio è un materiale pregiato. E qui, oltre alla proposta artistica, di pregevole v’è poco.
Basti pensare alle ingerenze produttive e consumistiche del sistema spettacolo che relegano la drammaturgia contemporanea a una minima percentuale da inserire in cartellone, spesso in sala piccola, quando non alla sostanziale impossibilità di incontrare le tavole di un palcoscenico. Senza contare la totale assenza di inquadramento professionale della figura dei drammaturghi all’interno del CCNL, con la conseguente arbitrarietà dei rapporti di lavoro.
E poi il ritardo. L’endemico ritardo dell’emersione dell’autrice o dell’autore teatrale che, fino ai quarant’anni, può giocarsi la partita ed essere l’artista su cui scommettere, per diventare, allo scoccare dei quarantuno, quella, quello che non ce l’ha fatta. O almeno non in tempo.
Allora, per interrogarsi seriamente sullo stato di salute della drammaturgia contemporanea occorre innanzitutto dedicarsi a un’analisi approfondita delle condizioni di lavoro di chi scrive professionalmente per la scena. Perché il malessere di una condizione può risultare osmotico e dunque, influire sul valore della stessa operazione drammaturgica.
Con Omissis – Osservatorio drammaturgico, progetto dell’impresa culturale Theatron 2.0, proponiamo un tentativo collettivo che muove in questa direzione. Omissis trova i suoi presupposti in una ricerca diffusa, allargata, compartecipata da autrici e autori, nella volontà di contrastare l’atomizzazione della categoria, di sottolinearne le urgenze e amplificarne la voce, interrogando e intervenendo sugli aspetti più problematici della questione, secondo una prospettiva artistica e giuslavoristica.
«Chi siamo? Come stiamo? Cosa vorremmo?» si chiedono le drammaturghe e i drammaturghi che ci coadiuvano nel processo. «Per quanto ancora dovrete sgomitare per farvi spazio, barattare l’esistenza col compenso, abbandonare la professione se non diventa tale? Per quanto ancora potremo giustificarci dicendoci distratti?», domandiamo noi.
![Ornella Rosato](https://webzine.theatronduepuntozero.it/wp-content/uploads/2021/08/Ornella.jpg)
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.