Si è svolta a Bologna, dall’1 al 6 luglio, la seconda edizione del Festival Scenario in occasione della nuova finale del premio. Sul palco del DAMSlab si sono esibite dodici compagnie/artisti con il proprio corto di venti minuti destinato a svilupparsi successivamente in spettacolo teatrale concluso.
La giuria, presieduta da Marta Cuscunà, ha assegnato il Premio Scenario a Un vera tragedia, progetto del trevigiano Alessandro Bandini e del genovese Riccardo Favaro.
Abbiamo intervistato Riccaro Favaro e Alessandro Bandini:
Tra le motivazioni del Premio Scenario si legge che Una vera tragedia è “un’originale sperimentazione del dispositivo drammaturgico, in cui il testo incombe sulla scena in forma di proiezione e procede con sorprendente autonomia scardinando il rapporto fra testo e azione drammatica”. Come è nato questo testo e come è entrato in relazione con il lavoro attoriale?
RICCARDO: Personalmente posso parlare con più precisione della genesi del testo. Ho iniziato a scriverlo due anni fa, senza alcuna commissione, senza alcun riferimento definito, solo in modo impulsivo e affrettato. Per questo le prime stesure erano molto diverse da quella attuale, molto emotive. Avevo del rancore nei confronti di una serie di esperienze che mi avevano portato a considerare una certa prosa italiana, esclusivamente legata a temi da salotto, moralistica e inoffensiva. Volevo scrivere un testo che provasse a scardinare, partendo sempre da un piccolo interno borghese, alcune dinamiche narrative che per me oggi sono più nocive che utili. Non so se ci sono riuscito, di certo mi è servito a declinare una rabbia che oggi non ho più.
ALESSANDRO: Con gli attori ho lavorato partendo dall’idea che non ci fosse niente di scontato. Abbiamo assecondato il testo e al tempo stesso riscritto in continuazione le condizioni di partenza di ogni frammento. Ci siamo trovati ad avere a che fare con una famiglia che non è davvero una famiglia, una madre che scopre durante lo spettacolo di essere sorella, poi figlia, poi amante, poi molte altre cose. Così come il padre, come il figlio… Per districarci nel labirinto di tutti questi cambi di identità ho chiesto agli attori di gestire il vuoto tra le relazioni, di indagare gli spazi che stanno tra i ruoli definiti cercando una verità personale in bilico tra l’immedesimazione completa e l’esposizione più neutrale.
La giuria ha paragonato l’interno borghese da voi dipinto all’immaginario lynchiano e alle atmosfere sospese e inquietanti dei dipinti di Hopper. Chi e cosa vi ispira?
RICCARDO: I riferimenti citati sono senza dubbio presenti nel mio immaginario, così come hanno accompagnato tutto il gruppo nel corso del lavoro. Non saprei personalmente indicare chi mi ispira più di ogni altra cosa. Dopo aver visto il lavoro alcune persone hanno avanzato nomi di autori a cui non ho mai pensato e che, in tutta sincerità, ho letto molto poco. Ma mi ha colpito invece il continuo accostamento alla cultura statunitense. Credo ci sia qualcosa che mi collega, una specie di connessione strana con le “cose” americane. Ma lo dico dal basso, perché sono un ragazzo veneto che vive a Milano, sono nato dopo la caduta del Muro di Berlino e non ho mai viaggiato al di fuori dell’Europa. In ogni caso, giusto per fare dei nomi… Mi piacciono molto i ritrattisti, amo John Currin e Lucian Freud, amo i paesaggi di David Hockney, conosco quasi a memoria ogni film di Roman Polanski. Tranne un paio, ad essere sincero.
ALESSANDRO: Nel lavoro, dopo aver condiviso immagini, video, pensieri, musiche, stimoli che fanno parte del progetto e del modo di leggere il testo da cui si parte, cerco ogni volta di lasciarmi ispirare dalla creazione che gli interpreti portano continuamente in scena, soprattutto in fase di ricerca. Non ho modelli di riferimento così forti da vincolarmi a idee pregresse, credo che ogni spettacolo sia profondamente diverso e quindi lascio che intuizioni emergano dall’istinto. Ad esempio, quando Riccardo mi ha parlato di Una Vera Tragedia e di tutti i percorsi nascosti che attraversano la drammaturgia, mi è subito venuta in mente l’irriverenza di Hideous Wo(men) di Suzan Boogaerdt e Bianca Van Der Schoot, spettacolo visto in Biennale Teatro nel 2017.
In una recente intervista pubblicata su Teatro e Critica, Stefano Casi riflette sulla diffusa tendenza “a giudicare i giovani in base a percentuali di novità su parametri pregiudiziali, o ad attendere messianicamente il Nuovo e conseguentemente a criticare tutti coloro che non sono abbastanza nuovi, equivocando platealmente tra nuovo e mai visto”. Cosa significa nuovo per voi?
RICCARDO: Non ne ho idea. Non so bene cosa voglia dire nuovo, non sono nemmeno sicuro di dover per forza avere un giudizio di valore in merito. Quello che penso, però, è che ciò che conta in un lavoro è la sincerità del significato che porta rispetto al proprio tempo. Quando leggo o guardo, cerco di pormi sempre la domanda più adatta. E per me la domanda più adatta è quasi sempre “come funziona?” e quasi mai “di cosa parla?”.
ALESSANDRO: Penso di non avere mai parlato di nuovo, ma, nel caso in cui l’avessi fatto, sicuramente non sarebbe legato a un concetto temporale. Infatti ho molta paura delle mode. Preferisco allargare un po’ l’orizzonte della parola nuovo e avvicinarmi così a complesso, o meglio complessità. Un teatro complesso rappresenta per me l’unico argine ad una scena indifferente e indifferenziata, per renderla incisiva così da raccontare il mondo attraverso la storia della sua violenza. In questo senso per me il teatro deve essere un luogo estremamente pericoloso, mai innocuo. La complessità, quindi, è la capacità di far dialogare le diverse necessità che animano il teatro. Questo è sempre nuovo.
Sempre Casi segnala come punto di contatto tra gli spettacoli del Premio Scenario la necessità di lasciare un segno forte nella società e nella realtà che li circonda, una caparbietà politica che li porta ad affermare la loro voce nella complessità del presente, scegliendo come veicolo principe e strategico di comunicazione il teatro. Quanto vi riconoscete in questa analisi, quale obiettivo vi ponete come artisti e che tipo di rapporto vorreste avete con gli spettatori?
RICCARDO: Io rispondo sempre allo stesso modo. Il mio obiettivo è di mettere in discussione molte certezze nel modo più efficace possibile. Non ho politiche di manifesto per il teatro, non le voglio e comunque non ho abbastanza esperienza. Credo solamente in ciò che voglio fare e che credo di saper fare: mettere in difficoltà il senso comune, le narrazioni e i sistemi narrativi, la patina abitudinaria che ricopre ogni canale comunicativo. Ma sempre partendo dal dettaglio, da piccole vicende, da piccole parole, dal testo. Questo è il mio scopo, e sono convinto si tratti di ironia. Ma è tutto nascosto, è tutto dentro le storie… Quindi è ironia per tutti, adatta a tutti, anche a me. Ed è quanto di più politico io riesca a concepire oggi.
ALESSANDRO: La prima e unica parola che risuona e riverbera in me è sincerità. Questo vorrei che fosse il nostro rapporto con lo spettatore… Per questo spettacolo e per qualsiasi progetto ci sarà in futuro. Spero saranno infiniti, e se non infiniti spero che durino finché avrò la determinazione per tenere fede a questo patto.