Un pettirosso addenta un verme. Se la violenza è fuori scena

Mar 20, 2025

Di Flavia Dalila D’Amico
L’articolo fa parte del secondo numero della rivista “LO SCANDAGLIO” dedicato alla violenza in scena

16 Gennaio 2025, ci lascia David Lynch. Penso alla sequenza iniziale di Lost Highway (1997): una soggettiva su una strada da una macchina in corsa. I bordi sono sfumati sul nero. Non vediamo chi guida né il paesaggio attorno. La musica, I’m Deranged di David Bowie, è rassicurante, eppure c’è qualcosa di inquietante in quel piano sequenza che si scoprirà poi essere anche la scena finale del film. Proprio ciò che viene ingoiato dal buio ci punge come una minaccia. È il fuori campo a destabilizzare i nostri nervi. Stacco. Un giardino perfetto si staglia su un cielo terso, è quello di Velluto Blu (1986) dello stesso regista. Nuovamente le inquadrature di apertura e chiusura si annodano ad anello. In mezzo un susseguirsi di abusi, omicidi e atti sadomasochistici, eppure anche qui la violenza che ci colpisce risiede altrove. In quel cielo terso, nei sorrisi a ralenty, in quel  pettirosso, salutato dai due protagonisti come simbolo di speranza, che strizza nel becco un verme. A corrodere le immagini di Lynch è il sintomo di un orrore che non si vede, o al contrario, la violenza guardata come fosse una circostanza ordinaria, una monotona iterazione dell’eccesso.

17 Gennaio 2025, stanotte è stato firmato l’accordo per il cessate il fuoco sulla striscia di Gaza, dopo 468 giorni di genocidio (si può dire?) del popolo palestinese. 468 giorni di abominevole scempio della carne in diretta streaming. Uno sprofondamento di violenza sanguinaria e impunita oppressione imperialista, neutralizzata dall’iterazione delle immagini social. La ripetizione di  video terrificanti, anziché far ribollire l’impegno civile, sembra imbandire il cielo terso di lingue privilegiate che, a guardare da fuori, definiscono i contorni del legittimo e del dicibile. Il dissenso non è unanime, il silenzio invece, anche e soprattutto dei nostri luoghi di cultura, denuda la natura ricattabile di un sistema precario che, dipendendo da fondi pubblici, assorbe per osmosi i discorsi egemoni. Il pettirosso stringe nel becco un verme: il teatro non è uno spazio neutro. In questi 468 giorni lo “spettacolo è andato avanti”, abbiamo continuato a lavorare e applaudire compagnie in scena. Quante tra queste erano palestinesi? Chi e cosa non gode di rappresentazione sui nostri palchi? Perché? 

Marzo 2024, va in scena a Roma Go Figure di Sharon Fridman, coprodotto da Oriente Occidente e il centro di produzione israeliano Mash Dance Jerusalem. In scena due performer, uno dei quali con disabilità motoria. La performance è un haiku sull’interdipendenza, incarnata da una coreografia che si impernia su un moto circolare, la traiettoria per eccellenza del vicendevole scambio non gerarchico. Un’ipnotica rotazione che rimanda alle ruote della sedia rotelle di uno dei  performer, uno strumento concepito stereotipicamente come sintomo di immobilità, generativo al contrario di movimento, all’agire sociale e artistico. Go Figure squarcia gli immaginari trasudati da soggettività politiche che, ottenendo rappresentazione, acquisiscono potere di rompere le narrazioni oppressive sulle disabilità. 

Mentre assisto alla performance il mio sguardo è informato da una nebulosa di saperi che non precipitano immediatamente in scena: il lavoro affonda nella biografia dell’autore, alla ricerca di un continuo equilibrio con il corpo non conforme della madre, tanto da sviluppare la pratica INA, basata sull’esplorazione di nuovi punti espressivi di contatto tra differenti corporeità. C’è qualcos’altro però che sguscia fuori da quell’universo centripeto depositandosi sul mio sguardo. Per nominare quel fuori campo indicibile saranno altre immagini in movimento a venirmi in soccorso.

No Other Land (2024) diretto da Basel Adra, Hamdan Ballal, Yuval Abraham e Rachel Szor. Il documentario testimonia l’espulsione di massa, continua e forzata, della comunità Masafer Yatta dell’attivista palestinese Basel Adra, da parte di coloni e soldati israeliani. Durante uno dei tanti tentativi di resistenza della comunità alla demolizione delle proprie case, un soldato spara su una persona, Harun, che da quel momento è paralizzata dalla testa in giù, nonché costretta a vivere tra le macerie di una grotta. Nel corso del documentario la madre lotterà per avere assistenza sanitaria e una casa con condizioni igieniche necessarie a curare le continue infezioni della ferita. Le saranno negate entrambe. Harun morirà per mancanza di cure mediche. La sua storia, tristemente comune in Palestina, si attorciglia nella mia mente ai corpi dei performer di Go Figure, Shmuel Dvir Cohen e Tomer Navot, in quell’orbita circolare che catalizza i miei sensi. Il mio sguardo si bagna di ciò che sul palco non c’è, evocato “solo” dai materiali paratestuali che ne riconducono la produzione in Israele. Mentre riconosco la potenza dei movimenti che vedo, la ricerca che vi sta a monte, la portata immaginifica del lavoro di Fridman, il mio pensiero cade a strapiombo sui corpi disabilitati da un’occupazione illegale, privati dalle cure, tanto più che dalle rappresentazioni. Presente e assente si invorticano. La Cisgiordania oggi è ancora sotto assedio. Razionale e viscerale si e mi confondono. Il filosofo Gilles Deleuze nominerebbe il cortocircuito in cui mi trovo “immagine cristallo”: «Distinti, ma indiscernibili, tali sono l’attuale e il virtuale, che non cessano di scambiarsi»1

L’immagine-cristallo condensa in un lampo la complessità del presente, senza pretesa di risolvere la contraddizione, anzi, mantenendone generativo e pulsante il conflitto. Del resto la tragedia, quella attorno cui si stringeva l’antica Grecia, non ha soluzioni, è una lacerazione esistenziale inevitabile. È proprio nell’impossibilità di sciogliere le contraddizioni che risiede la tragicità carnale dei destini di Antigone o Medea. Se oggi la tragedia è alla luce del sole, la violenza depone la propria irruenza catartica di monito per la società e si annida nell’indifferenza. Come fare allora a ri-orientare tumulti, inquietudini e angosce in consapevolezza collettiva, in quella rabbia di cui la lotta per la giustizia non può essere spogliata? Assuefatte alle immagini di violenza, può la natura dell’esperienza artistica scuoterci violentemente dal torpore civile e silente su cui ci siamo assopite? 

Abbiamo bisogno di recuperare quell’antica radice del teatro che attraverso l’orrore risaliva all’agnizione, quel processo di riconoscimento fulminante che consentiva alla comunità di esorcizzare la propria impotenza e sublimare “l’ira funesta” del potere. Alcune ricerche artistiche affondano le mani proprio nel torpore che anestetizza la società attuale, agitando il cono d’ombra che si insinua tra chi ha voce e chi no, per portare in luce un piano virtuale gettato fuori campo da principi di esclusione naturalizzati. Tra questi Necropolis di Arkadi Zaides e Sottobosco di Chiara Bersani, due spettacoli che chiedono alle istituzioni ospitanti di interrogarsi sulle condizioni materiali, relazionali ed escludenti che regolano i rapporti con le eterogenee comunità del proprio territorio. 

Per portare in scena Necropolis, la città delle morti nel Mediterraneo, Zaides invita le organizzazioni ospitanti ad addentrarsi nella pratica forense nella propria città per ricostruire le storie di defunti senza nome presenti nella Lista delle Morti dei Rifugiati compilata annualmente da UNITED for Intercultural Action e risalire alle sepolture. Lo spettacolo ospitato a Roma da ORBITA|Spellbound, accresce di volta in volta un deposito virtuale, basato sulla geolocalizzazione delle tombe su Google Eart, strumento che aiuta i parenti a ritrovare i propri cari e a rendere tangibile la coltre di morte che si stende su quelle stesse mappe utilizzate per tracciare i confini tra oppressi e oppressori. L’assenza di identità per molti dei cadaveri alle porte del nostro continente risponde a una normativa asimmetrica: Mentre l’identificazione di un corpo europeo è una condizione imprescindibile per ogni sepoltura, non lo è per le persone migranti per propria volontà.

L’immagine-cristallo di Zaides ci pone davanti all’inconsistenza delle dinamiche politiche, legislative ed etiche implicate nel nostro sistema di accoglienza. Ed è a partire da questa riscontrata ingiustizia che si accende il desiderio di voler fare di più per un impianto sociale di cui si riconosce essere parte, colpevolmente responsabile. Il momento forse più agghiacciante del viaggio nella Necropolis romana è l’impatto con il cimitero Prima Porta: una città nella città che divide per nazionalità, classi e privilegi i defunti, in una sorta di specchio capovolto delle società in cui viviamo. Le poche sepolture rintracciate sono cumuli di terra senza lapide, né scritte. La ricerca porta alla luce l’invisibilizzazione strutturale che impedisce di sapere, vedere e perciò agire nel purgatorio coloniale delle esclusioni, ordita dal linguaggio superficiale dei giornali e l’incuria in cui versano i corpi legati a quei nomi mal scritti. La chiamata all’azione di Zaides convoca l’impegno civile e ricongiunge la morte alla vita con rituali simbolici di commemorazione. L’artista invita chi partecipa alla ricerca a disertare le normative vigenti, per abbracciare la vocazione di Antigone a seppellire fratelli e sorelle rispondendo alle sole leggi morali. 

Chiara Bersani soffia con la delicatezza graffiante che contraddistigue la sua estetica su quella nebbia che impedisce di vedere quanto i nostri palchi e le nostre platee non prevedano la presenza di persone con disabilità o per lo meno la sacrifichino come negoziabile. Non contesteremmo una costosa scheda tecnica, ma forse di quell’audiodescrizione, interprete Lis o rampa potremmo farne a meno. Su questo sgambetto concettuale nasce Sottobosco che indaga l’orizzontalità come materia espressiva e politica di appropriazione dello spazio, pubblico e della danza, per corpi non conformi. In ciascuna città ospintate l’artista crea una comunità temporanea di persone con disabilità motoria, attraverso il workshop Sotto il sotto del bosco, con l’idea di rendere meno omogenei gli immaginari generati dai nostri palchi. Durante il workshop si inventa un linguaggio sconosciuto, accessibile alla sola comunità temporanea che lo abita, ma capace di arricchire la scrittura dei saperi collettivi sul movimento. 

L’unicità e irripetibilità dei saperi incarnati di ogni persona scardina così le “regole della maggioranza”, alla base delle vigenti tecniche pedagogiche, ma anche di tutto ciò che abbiamo imparato a nominare “normale” o “è sempre stato fatto così”. A guardare ancora più da vicino l’immagine cristallo della Bersani, plurime traiettorie di senso si avviluppano l’un l’altra. Da una parte Sotto il sotto del bosco è un atto di rivendicazione collettiva di uno spazio di rappresentanza, liberato in ogni città dalle soglie di segregazione. Dall’altra è un momento di autoanalisi per ciascuna istituzione che, organizzando spettacolo e workshop, misura il proprio grado di accessibilità, nonché le relazioni intessute con la comunità disabile della propria città. Saltano allora alla luce del sole barriere, fisiche e culturali, fino ad allora fuori fuoco ed emerge la frustrazione di non sapere come arrivare a soggettività sino a quel momento invisibilizzate dall’abilismo egemone nelle nostre vite. Come scrive l’artista: «Il lavoro con la collettività, in effetti, già riflette ciò che la società è in quel momento, nel posto in cui ti muovi»2

Zaides e Bersani cristallizzano un presente, scattano una foto delle nostre platee rendendo evidenti  i contorni, quel che resta fuori campo. Forse è proprio nello scontro tra il piano immanente della scena e quello virtuale del fuori che si insinua la natura tragica e violenta di questi lavori. Come in un film di Lynch è su quello che non c’e, sullo iato tra il presente e l’assente che si gioca la partita e la portata politica del fatto teatrale. Il rimosso, il fuori fuoco, l’indicibile, sono campi virtuali che ci dicono qualcosa sulle regole sistemiche di esclusione che alimentano il nostro “ora”, che una volta svelate possono, se non disinnescarsi, farci almeno perdere nella ripugnante miseria del nostro tempo. Quel processo di agnizione appunto, suscitato dalle tragedie greche, che ci inabissa in un faccia a faccia con un fallimento sociale, socializzandone l’orrore.

  1. G. Deleuze, L’Immagine-Tempo, Ubulibri, Milano 2002, p. 84. ↩︎
  2. Julia Cretella e Pasquale Cesaro, Il margine che fa respirare lo sguardo: intervista a Chiara Bersani, Kabulmagazine: https://www.kabulmagazine.com/wp-content/uploads/2024/06/Il-margine-che-fa-respirare-lo-sguardo-intervista-a-Chiara-Bersani_Kmag.pdf ↩︎

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