Il Colloquio di Collettivo lunAzione prende ispirazione dal sistema di ammissione ai colloqui periodici con i detenuti presso il carcere di Poggioreale a Napoli. Tre donne, tra tanti altri in coda, attendono stancamente l’inizio degli incontri con i detenuti: le tre portano oggetti da recapitare all’interno, una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. Siamo andati ad assistere il 16 dicembre 2021 allo spettacolo, nel suo debutto milanese presso il Teatro PimOff. Successivamente, ci siamo intrattenuti per una chiacchierata sul racconto di come è nata la compagnia e come si è arrivati alla creazione di quest’opera, in cui gli autori si sono innamorati di queste vite dimezzate, ancorate all’abisso, disposte lungo una linea di confine spaziale e sociale, costantemente protese verso un aldilà doloroso e ingombrante da un lato e, per contro, una vita altra – sognata, necessaria, negata.
Proponiamo quindi questa intervista multimediale, framezzando la forma scritta con degli interventi video.
Come si conoscono Eduardo Di Pietro, Mario Cangiano, Alessandro Errico, Marco Montecatino, Cecilia Lupoli, Federica Del Gaudio e Martina Di Leva?
Eduardo Di Pietro: Collettivo lunAzione è una compagnia nata a fine 2013 da un gruppo di amici, conosciuti tra loro al laboratorio teatrale Elicantropo di Napoli. Nel corso del tempo abbiamo imparato a lavorare insieme e trovato dei metodi per equilibrare il gruppo. Dagli inizi, all’interno dell’amministrazione di compagnia, oltre a me c’erano Cecilia, Martina e Giulia Esposito che sono principalmente attrici, poi si sono aggiunti diversi membri, tra cui Federica come costumista. A seconda dei progetti che abbiamo la necessità di sviluppare coinvolgiamo dei collaboratori. Persone con cui innanzitutto ci troviamo umanamente bene, che è uno degli obiettivi che nel corso del tempo ci siamo prefissati. Cerchiamo un punto di incontro tra le necessità artistiche e quelle di convivenza professionale. Con gli altri membri ci siamo incontrati in diversi contesti, in realtà ci conoscevamo professionalmente tutti da tempo, precedentemente al Colloquio. Abbiamo coinvolto prima Renato Bisogni e poi Mario perché serviva una tipologia di interprete per il progetto che io ancora non conoscevo.
Dalla Campania all’Emilia Romagna. Da Napoli a Faenza. Cosa lega Collettivo lunAzione al Teatro Due Mondi?
EDP: L’impronta del nostro lavoro è fortemente radicata nel nostro territorio, o almeno lo è stato fino ad oggi. L’esperienza al Teatro Due Mondi è strettamente correlata a una residenza artistica che è nata a seguito del premio Scenario. Dovevamo sviluppare lo spettacolo nella sua forma completa per il debutto che sarebbe poi venuto a seguire, e da lì è nata un’amicizia. È stata un’esperienza bellissima in uno spazio ideale per lavorare alla creazione scenica. È accaduto un che di sorprendente: riuscire ad approfondire un lavoro in una maniera così intensiva e soddisfacente. Speriamo ci possano essere tante altre occasioni di questo tipo.
Marco Montecatino: L’attore è pur sempre mercenario: dove arriva la chiamata interessante lui risponde. Le esperienze hanno portato bene o male tutti quanti noi anche fuori Campania. Ad esempio mi sono incontrato con Mario a Genova, nonostante fossimo di Napoli entrambi.
Mario Cangiano: La famosa valigia dell’attore! Si è sempre con la valigia in mano pronti a girare. Quando capita di lavorare nella tua città è sempre più bello, però quando poi vai via e la città la porti tu stesso fuori ti dà la spinta per andare in scena ancora con più entusiasmo.
Come si muovono le giovani compagnie campane sul territorio?
Perché il teatro è “in orbita” secondo lunAzione?
EDP: Il sottotitolo è nato per chiarire il nostro ambito d’azione. Il nostro nome rischiava di poter essere interpretato in maniera aleatoria: volevamo chiarire innanzitutto che facessimo teatro, e che il tutto fosse correlato a lunAzione, in orbita come qualcosa che ci fa sognare, viaggiare. Come la Luna influenza la terra, anche noi contiamo di avere una ricaduta, una conseguenza nel lavoro che portiamo agli altri. Stiamo anche pensando di occuparci dell’ambito scientifico, visto che il nome ha il suo effetto collaterale!
Come nasce il testo de Il Colloquio? Unica mente o collettiva?
EDP: Il testo nasce da un’idea di base molto vaga, una situazione teatrale che chiaramente si ispirava alla questione dell’accesso settimanale al carcere. Quindi ho proposto poi agli attori di lavorare insieme. Portavamo delle proposte in larga parte condivise.
Alessandro Errico: Con il materiale raccolto con le sole improvvisazioni potremmo fare altri due spettacoli, altri due Colloqui! Alcune improvvisazioni sono durate anche tre ore, quindi di materiale ce n’era. Ovviamente è stata fatta una cernita in base a quello che si reputava più interessante e utile al raggiungimento del messaggio. Questo lavoro di sbobinamento di ore e ore di girato sono stati a carico di Eduardo e Cecilia. Poi ci sono state anche le interviste, e anche da lì è nato del materiale drammatrugico. Alcune espressioni, alcuni modi di dire ci sono stati proprio regalati da queste signore, che ci hanno raccontato queste storie tragiche, a volte in un modo assolutamente comico che ti strappava una risata. Questa cifra peculiare del Colloquio deriva non solo da uno stile della compagnia, ma anche da un’esperienza diretta d’incontro con queste donne.
Il Colloquio è il vostro primo approccio alle problematiche sociali contemporanee?
Nello spettacolo si gioca sul rapporto – e sull’assenza – di maschile e femminile. Quanto c’è di maschile e femminile in Pina, Annarella e Maria Assunta?
EDP: È una questione affascinante perché è squisitamente teatrale. Aver messo il seme dell’interpretazione femminile da parte di uomini, senza che sia possibile anche lontanamente immaginare che sia qualcosa di nuovo, ha dispiegato tutta una serie di possibilità che sono fiorite. Il fatto che, ad un certo punto, un uomo che interpreta una donna possa poi interpretare un uomo è un salto mortale richiesto all’immaginazione dello spettatore che non si poteva pensare inizialmente. Il tutto è partito dal non creare una base di mimesi rispetto alla storia che stavamo raccontando. Proponevo agli attori un lavoro di ribaltamento. Queste donne che nella vita reale hanno una forza tale da poter competere con quella stereotipicamente maschile, che devono compensare in famiglia l’assenza di un partner e fungere da entrambi i genitori, in contesti dove i ruoli di genere sono stabiliti e le madri devono procacciare il sostentamento economico perché l’uomo non c’è, è in carcere. In maniera dichiarata in scena degli uomini interpretano delle donne, senza orpelli o esagerazioni, cercando di dribblare il pericolo della macchietta e gioco fine a se stesso, cercando di rendere significante questa esplorazione. Poi si sono aperti degli scenari anche interpretativi: ovvero questi uomini sono forse la proiezione dei detenuti che sono la ragion d’essere di questi personaggi. L’assenza più ingombrante della più scontata presenza.
Qual è stata la vostra ricerca nel lavoro fisico sui personaggi?
Alessandro Anglani, laureato in Informatica e Comunicazione Digitale presso l’Università di Bari nel 2014, e diplomato presso la Scuola di Teatro Alessandra Galante Garrone di Bologna nel 2017. Nella sua formazione, ha unito le conoscenze nell’ambito del corpo in scena con l’identità digitale, arrivando a sviluppare alcuni progetti al Watermill Center di New York gestito da Robert Wilson, quale il workshop “Let ‘em feel your presence”. Si specializza autorialmente in Drammaturgia, Algoritmi e Ipermedia in Italia e all’estero. I suoi progetti di performance interattiva sono arrivati nel 2019 e 2020 semifinalisti alla Biennale College Teatro per registi under 30: “Eliogabalo – l’Anarchico incoronato” e “Montecchi e Capuleti”. Attualmente è impegnato nella promozione del proprio progetto di drammaturgie ipertestuali e nello sviluppo delle proprie performance digitali. Inoltre, offre i propri servizi come web designer e digital PR.