Un clown nichilista: Andrea Cosentino tra ieri e oggi

Giu 11, 2023

In un soleggiato pomeriggio di quasi estate, abbiamo incontrato Andrea Cosentino, artista poliedrico, difficilmente incasellabile in una sola categoria artistica, con all’attivo un ricco repertorio in giro per l’Italia. Recentemente lo abbiamo visto nello spettacolo Uno spettacolo di fantascienza – quante ne sanno i trichechi di Liv Ferracchiati, nel film Astolfo di Gianni di Gregorio e lo rivedremo presto con la ripresa del suo nuovo spettacolo Rimbambimenti. Abbiamo parlato di identità artistica, del suo rapporto con il passato, con il presente e con il futuro del mondo teatrale.

Nel mondo teatrale si parla spesso di definizioni, ma sappiamo che definirsi di fronte a un multiforme ingegno come il tuo è spesso arduo. In questo momento della tua vita, come prediligi descriverti? 

Dipende dai contesti: per il contesto accademico-storico-critico sono principalmente un attore-autore, ovvero uno che scrive i testi che recita. In realtà la mia pratica artistica si opporrebbe a questa definizione, dato che una delle mie direttive di ricerca sia teorica che performativa è proprio di mettere in discussione questo trattino di demarcazione tra attorialità e autorialità, e con essa tutto un sistema di divisione di ruoli e valori che ci deriva dal teatro letterato borghese. Un teatro che persiste in gran parte ancora oggi persino nelle forme performative che si vorrebbero più evolute, ma che non è mai esistito nelle forme di spettacolo popolari e subalterne che mi hanno sempre interessato, dai buffoni medievali ai clown circensi fino all’avanspettacolo del primo novecento e oltre, ovvero quello che mi sono sempre divertito a definire il teatro che “non fa testo”. 

Ma, insomma, sono ormai sufficientemente maturo e disincantato da essermi abituato al fatto che molte delle cose più sottili che cerco di fare, che a volte riescono a volte meno, non debbano per forza essere comprese dalla critica, la quale peraltro, sia detto per inciso, non ho mai voluto che fosse il mio spettatore ideale né il destinatario privilegiato del mio teatro. Comunque, per farla breve, tecnicamente sono quel che viene chiamato un attore-drammaturgo, anche se in contesti meno istituzionali mi piace definirmi un comico d’avanguardia o, in alternativa, un clown nichilista. 

Fra i tuoi tanti lavori qual è lo spettacolo a cui sei ora più legato e perché? 

Non saprei. Molti degli spettacoli che ho fatto in 25 e passa anni di carriera sono stati importanti per la mia evoluzione artistica, a cominciare dagli esperimenti giovanili nelle piazze della provincia abruzzese, passando per spettacoli più strutturati, sempre nel loro obiettivo di destrutturazione narrativa, come La tartaruga in bicicletta…, L’asino albino e Angelica, con i quali mi sono sdoganato nei festival del teatro di ricerca una ventina di anni fa. Posso dirti quali sono quelli che mi diverto di più a fare ora. Prima di tutto direi l’ultimissimo, Rimbambimenti, perché avendo debuttato da poco devo ancora capire come funziona, e, dato che i miei spettacoli si evolvono e si focalizzano con le repliche, ciò mi costringe a mettermi in costante ascolto del pubblico. L’ascolto è a mio avviso il vero specifico dello spettacolo dal vivo. Per questo motivo sono molto affezionato anche a Kotekino Riff, più che uno spettacolo un dispositivo comico aperto, che è fatto di presenza sghemba e improvvisazione, il che per me equivale alla vera relazione teatrale, come per altri versi era anche la mia storica Telemomò (premio Ubu speciale 2018). 

Questi ultimi in particolare sono lavori che critici malevoli liquiderebbero come “cabarettistici”, ma  sono il centro della mia ricerca da comico sperimentale, incentrati come sono sull’improvvisazione, sulla relazione, sul “qui e ora” e sul divertimento, e tutto questo passa al pubblico, che per una volta può non solo guardare, ma sentirsi a sua volta guardato, e presente: il teatro per me deve essere questa roba qui, altrimenti non ha più ragione di essere. Poi c’è lo spettacolo che ho fatto più volte in assoluto, credo di essere arrivato a 500 repliche in oltre dieci anni di vita, ed è ormai un mio piccolo classico, ovvero Primi passi sulla Luna. In generale è una mia punta di orgoglio tenere in repertorio a lungo i miei lavori, in un sistema che invece non solo non prevede, ma ostacola questa possibilità, tutto puntato come è sulla sovrapproduzione di spettacoli e la loro programmata e precoce obsolescenza.

Ultimamente ti  abbiamo visto in scena nello spettacolo di Liv Ferracchiati, “Uno spettacolo di fantascienza- quante ne sanno i trichechi.” Come sei entrato in contatto con Liv Ferracchiati? Ho letto un aneddoto in proposito, vuoi raccontarcelo?

Certo. Liv aveva scritto sul suo profilo Facebook che cercava un attore anzianotto per il suo nuovo spettacolo, in realtà credo avesse scritto semplicemente over cinquanta, ma mi piace raccontarla così. Io un po’ scherzosamente devo aver scritto nei commenti qualcosa come “sono il tuo uomo”, e da lì ci siamo poi sentiti ed è realmente nata una collaborazione.

Per te che sei abituato ad autodirigerti, come è stato mettersi nelle mani di un altro regista? Un regista più giovane, magari con una poetica diversa da quella a cui sei abituato, o forse no.

La cosa stramba è che, per la maggior parte degli attori, quella di farsi scritturare è la loro normale condizione lavorativa. Per me è qualcosa di relativamente nuovo, o che comunque non vivevo da più di 20 anni. La mia partecipazione allo spettacolo di Liv è nata innanzitutto dalla curiosità di conoscere meglio un artista che stimo, ed è un modo per entrare in contatto in maniera attiva e per così dire dall’interno con la creatività di generazioni successive alla mia, per capire che logiche usano, cosa fanno, che domande si pongono e che risposte si danno. Potrei dirti a posteriori che il lavoro di Liv è simile al mio, per quanto riguarda la destrutturazione delle logiche drammaturgiche, e molto diverso a livello di scrittura. D’altro lato, iniziare a fare l’attore scritturato alla mia età mi consente, banalmente e a livello di sussistenza economica, di non essere costretto alla sovrapproduzione come autore, come molte compagnie sono costrette a fare, il che come ti accennavo credo sia una delle malattie mortali del sistema teatrale italiano. 

A me sembra giusto, per rispettare i miei ritmi e la mia voglia di fare e non fare, creare un lavoro nuovo ogni tre-quattro anni, allora nel frattempo ho deciso di mettermi in gioco in un ruolo che all’inizio della mia carriera ho disdegnato: l’attore puro e semplice. Ovviamente è completamente diverso dallo stare in scena con i miei spettacoli, in cui posso consentirmi l’improvvisazione al massimo grado. Essendo inserito dentro un lavoro altrui, sento di non dovermi permettere di “inquinarlo” con i miei deragliamenti. È chiaro che poi in sede di prova, come spesso succede nel teatro contemporaneo, c’è un’influenza degli attori nel lavoro di scrittura e di costruzione  dello spettacolo. Ma una volta che questo è definito, sento di dover stare all’interno dei binari che mi sono stati assegnati, anche se per esempio Liv è abbastanza intelligente da dare agli attori binari sufficientemente laschi da poter farci crescere dentro la vita replica dopo replica. 

Ma la cosa che forse mi è piaciuta di più di questa esperienza è stata di poter condividere il palco con altri attori, dato che nei miei spettacoli sono il più delle volte da solo, o al massimo con un musicista. Se la mia drammaturgia è aperta al massimo grado nella relazione con il pubblico, quello che mi manca è la relazione orizzontale. Giocare al teatro con Liv, nel vivo del suo testo e della sua performatività stramba ed efficace, e con Petra Valentini, che è un’attrice bravissima, è stato un vero godimento.

Penso allo spettacolo di Liv, in cui deve risultare evidente una differenza di età fra te e gli altri personaggi, e penso a Rimbambimenti, in cui giochi a fare un vecchio con l’Alzheimer. Anche se da pubblico non ti ci percepiamo come “anziano”, come ti diverti a interpretare la maschera del senex a teatro? 

È lo stesso motivo per il quale mi diverte raccontare l’aneddoto di Liv che cercava un “attore anzianotto”. La società contemporanea ha orrore della vecchiaia, ci pretendiamo tutti eternamente giovani, e a me sembra sano non cadere in questa fobia, al punto da esagerare persino la mia età. Trovo giusto e anche assurdamente provocatorio, rispetto alle rimozioni del contemporaneo, fare uno spettacolo che comicizza una dimensione di disfacimento fisico e/o intellettuale, che di norma al massimo viene trattata in modo pietistico. Il sottotitolo di Rimbambimenti è “un TED-talk senescente in salsa punk”. 

Da ragazzino ero o facevo il punk, era una delle mode degli anni ottanta tra le quali scegliere. Direi che oggi, a 55 anni, pur senza cresta, borchie o giubbotto di pelle, lo sono ancora e forse più di allora. Credo di essere ruvido e anti-sistema in un modo meno modaiolo e sbandierato, ma forse più profondo e agito a livello di scelte di vita e artistiche, spesso persino mio malgrado. Nel modo in cui abito la scena, nel mio teatro spigoloso e buttato via, spesso abbozzato e volutamente sciatto, mi piace vedere il riflesso del mio continuare a essere orgogliosamente punk.

Sia in Rimbambimenti che, in un certo modo, anche in “Uno spettacolo di fantascienza”, fai la parodia di quello che ci si aspetta tu debba interpretare e ciò crea un’ironia disarmante.

Permettimi di citarti un breve passaggio testuale proprio di Rimbambimenti: “Mi è sempre piaciuto di fare il vecchietto, fin da piccolo, sono anni che mi esercito. All’inizio devo dire poco convincente, ma già adesso niente male. Ancora una ventina d’anni di esercizio e lo faccio perfetto il vecchietto”. Ecco, indossare un ruolo come una maschera ti consente ogni paradosso e salto mortale linguistico e semantico. In generale è la distanza che permette il gioco ed è una precondizione per l’autorialità. Devi avere una coscienza artistica di quello che stai rappresentando, persino e tanto più quando giochi a rappresentare te stesso.

Senti un divario generazionale? E lascio a te specificare se con gli artisti più giovani o con quelli più âgé. 

Parto con l’aneddotica. Quando vado in giro a fare spettacoli, ho ancora questo “riflesso”: chiedo spesso al tecnico del teatro o agli organizzatori: “ma come è il vostro pubblico? Ci sono un po’ di giovani?” Sia perché in genere i giovani sono la fascia meno rappresentata nel pubblico teatrale, sia perché continuo in qualche modo a considerarli il mio pubblico ideale. Deve essere un riflesso di quando a poco più di vent’anni ho iniziato a fare i miei assoli, questa sorta di pregiudizio pro-giovani. Oggi guardo fra il pubblico e mi capita di pensare: “oddio sono tutti vecchi!”, mi ci vuole un tempo prima di realizzare che a volte si tratta semplicemente di miei coetanei. Parlando di chi il teatro lo fa, molti di quelli della mia generazione, ma anche di quelle precedenti e successive, quando raggiungono una qualche forma di visibilità, quei pochi che ce la fanno, finiscono spesso per fossilizzarsi, non tanto per colpa loro, quanto di un sistema teatrale superficialmente assetato di novità, che tende a spremerli velocemente come limoni. Allora finiscono col creare rapidamente una “maniera” di quello che all’origine magari era una ricerca poetica e stilistica originale, e così tutto diventa meno interessante. Come ti dicevo prima, il mio è un teatro sciatto, però di una sciatteria che rivendico: cerco di mettermi davanti a sfide artistiche ambiziose, ma una volta che mi sembra di aver trovato una risposta, qualcosa che funziona, non sto lì a limarlo per i successivi 10 anni fino a farlo diventare un oggetto rifinito e ben confezionato. 

La confezione per me è la ricerca che degenera in estetismo e poi in logo e marchio di fabbrica, a misura di mercato e di società dello spettacolo. Quindi quella che chiamo la mia sciatteria, che è indifferenza verso la levigatezza dello spettacolo come opera chiusa e come prodotto, è ciò che negli anni magari mi ha precluso alcuni tipi di scene e festival particolarmente à la page, ma credo mi abbia garantito una certa eterna giovinezza artistica. Per venire ai giovani quelli veri, devo dirti che mi interessano molto. Mi sto impegnando per la prima volta in esperienze non tanto didattiche, quanto di tutoraggio e ascolto di compagnie emergenti, come la residenza che conduco con l’Università di Roma La Sapienza dal titolo “Vestiti della vostra pelle”. Sono incuriosito dai nuovi modi di sentire e di pensare la scena.  Vorrei solo dir loro “attenti a non farvi sfruttare e poi buttare in un cestino”, perché c’è un sistema di vecchi che ha bisogno dei giovani solo per prenderli, masticarli un po’ e sputarli via. Sbandierare il sostegno del nuovo per il teatro finanziato e istituzionalizzato è spesso solo il pretesto per conservarsi uguale a sé stesso.

Mi pare che per te il problema sia con lo “stantio”, piuttosto che con la diversità anagrafica.

Troppo spesso nel teatro contemporaneo accade che non si cerchino “nuove forme per nuovi contenuti”, che era un po’ la ragione di essere o almeno l’ambizione delle avanguardie artistiche del novecento, ma solo una superficie stilistica che abbia “il sapore del nuovo” e questo mi annoia, peggio, lo trovo regressivo. Ti faccio un esempio: quando ho iniziato a 25 anni, oltre al teatro, mi è capitato di fare qualche programma di cabaret televisivo e questo mi avvicinava troppo al “comico” e al “popolare” per farmi prendere sul serio dal mondo ammantato di prosopopea del teatro di ricerca. Oggi molti giovani vogliono fare stand-up comedy. A me questo interessa, ci rivedo il teatro povero di Grotowski o lo spazio vuoto di Peter Brook. Buttare fuori dal teatro la stand-up perché puzza di comico o di americano sarebbe l’ennesima ingiustizia. 

Bisognerebbe smetterla di avere la puzza sotto il naso verso le nuove forme comunicative e, al contrario, imparare a comprenderne le ragioni e valutarne le sottigliezze e le differenze. Finché questo non accadrà, io trovo normale e sensato che un giovane autore e attore ambizioso al giorno d’oggi sia più interessato a entrare nel mondo della stand-up che in quello elitario e distante del teatro, in cui si continua a tessere l’elogio elegiaco del contemporaneo e del performativo e del post-drammatico e del post-qualunque cosa, ma nel quale in verità ben poco è cambiato da almeno trent’anni.

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