“Nella baracca dei burattini canta l’anima del nostro popolo” diceva Petrolini ed è difficile dargli torto ancora oggi. Negli ultimi anni il teatro di figura ha vissuto una rinascita. Basti pensare a La classe di Fabiana Iacozzilli, a Natale in casa Cupiello per attore solo cum figuris con Luca Saccoia, arrivato finalista come miglior spettacolo ai premi Ubu, a Rosso del gruppo Uror, lavori diversissimi che animano i festival e che fanno dell’uso di marionette e manichini il medium artistico con cui parlare al mondo del mondo. Un’arte che si fonda sul sapere materico e artigianale, con una drammaturgia che si snoda su più livelli per rivolgersi a un pubblico di età non definita. In seno a questa prolifica realtà (per cui si rimanda al ciclo di ricerche Teatro di figura, immagini di vita), la compagnia sarda, Is Mascareddas, attiva sul territorio sardo, italiano e internazionale da più di 40 anni, è stata premiata con l’Ubu speciale 2023. Per la prima volta una realtà totalmente isolana ha raggiunto questo traguardo e nella motivazione per la tenace attività di Is Mascareddas, compagnia composta da Donatella Pau, Tonino Murru e la loro meravigliosa schiera di marionette, si legge:
“Per gli oltre 40 anni di lavoro nel teatro di figura, che Tonino Murru e Donatella Pau hanno sempre pensato – fra tradizione e innovazione – al pari e al crocevia degli altri linguaggi performativi e artistici, diffondendo tale visione scenica tout public a partire dalla Sardegna, in tutta Italia e nel mondo attraverso progetti via via più sperimentali. Per il loro spazio-museo, che custodisce una biblioteca sul teatro d’animazione fra le più significative in Europa e una straordinaria collezione di marionette e burattini, nel 2022 posta sotto tutela dalla Soprintendenza. Soprattutto, per l’impegno politico e di pensiero, oltre che poetico e artistico, e per la tenacia della resistenza portata avanti in condizioni non sempre facili dal 1980 dentro e fuori il palcoscenico”.
Siamo volati a Cagliari per intervistarli e parlare della loro storia, dei loro modelli, per riflettere su cosa voglia dire fare teatro di figura oggi, in una società digitalizzata e spesso poco propensa alla meraviglia.
Quando avete capito che il teatro di figura sarebbe stato il vostro?
TONINO MURRU: Beh, potrei dire da subito, fin da quando è stata creata la compagnia. Io sono un autodidatta, ho fondato la compagnia possedendo solamente un retaggio dei giochi di tipo teatrale che facevo da bambino, che era quello del circo, quello di giocare alla messa. Prima di dedicarmi al teatro ho lavorato in un’ officina meccanica, un lavoro molto pesante e molto duro. Ho iniziato a fare teatro intorno al 1978, quando ho conosciuto una compagnia che si chiamava La Calesita. Erano venuti in Italia in seguito al colpo di Stato in Cile del ’73, arrivando a Roma nel ’75, poi in Sardegna nel ’78 grazie a Corrado Gai, che è stato uno dei fondatori storici del teatro di Sardegna. E questa scintilla che loro mi iniettarono nei 3 mesi che ho lavorato con loro, mi ha portato poi nel 1980, con un po’ di intraprendenza, a fondare la compagnia.
DONATELLA PAU: Mi sono innamorata del teatro di figura da subito. Vista la mia formazione artistica, mi sono resa conto che è un’arte veramente totale, cioè quella in cui potevo definire la forma, capire da dove questa iniziasse, ma senza sapere dove finisse. Qualsiasi oggetto, qualsiasi immagine può diventare teatro di figura. L’importante è che ci sia teatro, ma non ci sono dei limiti, la sperimentazione è veramente ampia, puoi usare tantissimi materiali e puoi concepire anche spettacoli in cui non si parla tanto. È un teatro visuale. Questo è l’aspetto più intrigante per me.
Quali sono state e quali sono i vostri maestri/maestre? Quali sono state e sono le vostre ispirazioni?
D.P.: È una domanda complessa. Io provengo dal liceo artistico e ho avuto dei bravi maestri. In primo luogo, il mio professore Primo Pantoli e la mia professoressa di storia dell’arte Paola Spissu Bucarelli. Al tempo il liceo artistico era una scuola che apriva e dava degli input artistici, quindi in questo senso posso affermare di aver avuto enormi stimoli creativi. Poi ho incontrato Natale Panaro, che è stato il mio maestro per quanto riguarda la scultura lignea. Molto importante è stato l’incontro con Walter Broggini, perché non avendo la Sardegna tradizione di marionette, ci interessava capire cosa fosse l’arte dei burattini a guanto.
Fin da subito io e Tonino abbiamo cercato un confronto e siamo andati a vedere cosa succedeva nel mondo del teatro di figura. Non in Italia, bensì all’estero, dato che, una volta che esci dalla Sardegna, tanto valeva andare veramente “fuori”. Abbiamo perciò avuto una formazione “europea”. “Gli occhi” ce li siamo fatti anche attraverso i Festival, come il Festival mondiale delle marionette, che si tiene ancora oggi a Charleville-Mézières, in Francia. La prima volta, nell’81, ci siamo arrivati in autostop. Al tempo venivano presentati spettacoli da tutto il mondo, per cui andare a una rassegna del genere voleva dire avere veramente una panoramica di quello che succedeva nel teatro di figura. Abbiamo frequentato il Festival per vari anni, ma gli stimoli sono arrivati anche da tante altre occasioni, da persone che hanno frequentato il nostro laboratorio in Sardegna, come Karin Koller, la nostra regista con cui abbiamo creato tantissimi spettacoli. Senza considerare ovviamente maestri come Peter Brook e Kantor, per noi imprescindibili.
Come nasce la drammaturgia di un vostro lavoro? C’è un modus operandi, o creandi in questo caso, solito, oppure vi fate ispirare da un’esigenza che cambia?
T.M.: Noi partiamo sempre e comunque da una nostra necessità. A partire dall’argomento ci facciamo venire un’idea. All’inizio della nostra carriera abbiamo chiesto una mano per scrivere i testi, per esempio a Karin Koller. Successivamente anche Donatella si è dedicata a curare la drammaturgia. Tuttavia la fase di creazione del testo e della regia è sempre aperta a spunti e suggestioni di terzi. Lo spettacolo nasce in parte nelle prove e quindi si affida anche alla capacità e alla coscienza degli attori burattinai, perché i burattinai non possono prescindere dall’essere anche degli attori. Sta poi alla capacità del regista chiudere tutto il cerchio.
D.P.: Come dice Tonino in primis da una necessità, da un’idea da un pensiero da svolgere e sviluppare. Nel caso del burattino a “guanto” il nostro teatro si esprime nella sua massima creatività e drammaticità nel personaggio che abbiamo inventato “Areste Paganòs”. Non è stato facile crearlo, perché mentre i burattini di tradizione degli altri Paesi e delle altre regioni sono sempre sagaci, un po’ fuori dagli schemi e divertenti, creare un burattino “sardo” è stata una sfida. Perché tutti i tratti, tutte le imprecazioni, tutte le esclamazioni della nostra regione sono estremamente serie. I sardi sono sempre introversi e silenziosi, a fogu aintru (“con il fuoco dentro”, ndA). Cercavo degli aspetti a cui agganciarmi per creare questa figura-personaggio sardo, ma non ne trovavo di adatti a una marionetta. E allora la nostra ricerca si è indirizzata verso il carnevale, in particolare la maschera di Ottana. Il suo volto infatti è una maschera fissa ma con la parte superiore che diventa un berretto morbido. Veste una bella camicia bianca plissettata come quelle maschili del costume tradizionale sardo, e un gilè di pelo di pecora. Il suo nome rimanda alla sua natura selvatica, che lo fa somigliare ad una capra-muflone, e come tutti gli eroi burattineschi riesce a risolvere conflitti e metter pace.
Areste è il protagonista di storie scritte da noi e ispirate alle problematiche della faida, balentia (valore, intraprendenza ndA) e banditismo, argomenti molto importanti e presenti alcuni anni fa in Sardegna. Abbiamo lavorato molto con la musica, cioè come fonte di ispirazione, con lo spettacolo sul jazz, sulla lirica, dei veri e propri varietà musicali. Abbiamo poi iniziato a indagare sulle artiste e artisti che prima di noi avessero creato dei pupazzi e lì nasce il personaggio di Giacomina, ispirato ai pupazzi di Tavolari e Anfossi, con la musica di Gavino Murgia, sino ad arrivare a “Venti contrari”, con i pupazzi delle sorelle Coroneo e la musica di Tomasella Calvisi. In questi ultimi esempi i personaggi hanno ispirato direttamente la drammaturgia.
Dal momento che mi parlate di filoni, di volontà di costruire una tradizione che non c’è, vorrei capire cosa vuol dire fare teatro di figura in Sardegna.
T.M.: Noi abitiamo in Sardegna, noi viviamo in Sardegna e quindi è qui che dobbiamo lavorare. È chiaro che il teatro non può essere una forma di pagamento finto, nel senso che uno non può limitarsi a farlo per un proprio diletto, perché altrimenti non è teatro. Bisogna perciò produrre qualcosa di bello, forte, ma anche vendibile. Penso per esempio a uno spettacolo premio Ubu come il Macbettu di Alessandro Serra, che ha tutte queste caratteristiche. Diventa fondamentale dunque non perdere mai di vista che si vive di questo lavoro, quindi lo spettacolo deve essere forte, “inquietante”,deve porre dubbi; deve essere un intrattenimento sì, ma possibilmente il più colto possibile, raffinato, non deve cadere nella cialtroneria. L’obiettivo è quello di inventare uno spettacolo adatto ai bambini, ai bambini e alle loro famiglie, dal momento che un bambino non va da solo a vedere uno spettacolo. In fondo, come si è soliti dire, “se uno spettacolo piace a un bambino, sicuramente piacerà anche agli adulti; non è sempre vero il contrario”. Bisogna perciò ragionare su un doppio linguaggio. Il teatro di burattini vive affinché lo spettatore si senta emotivamente coinvolto. Nonostante le difficoltà, questo è ciò che ha tentato di fare Is Mascareddas.
Abbiamo inoltre cercato di entrare per tanto nel giro delle feste popolari qui in Sardegna, ma non ci siamo riusciti a pieno. Perché? Perché da una parte c’è la cultura dominante, la cultura della classe dominante, come diceva Karl Marx, che tendenzialmente vuole portare avanti l’idea che tutti vivano felici e contenti, possibilmente senza dire niente. Senza conflitti. Senza scontrarsi col sistema imperante in quel momento. Quindi per evitare ciò, noi partiamo da noi, da sardi che lavorano in Sardegna, per arrivare a un pubblico diverso. Per noi, fare il teatro di figura da sardi in Sardegna serve ad arrivare a più persone possibili, far girare i nostri spettacoli in Italia, in Europa. Spettacoli con dei messaggi sociali e politici, con un testo. Potevamo fare spettacoli senza testo ed economicamente sarebbe stato più conveniente, ma non l’abbiamo fatto. Saremmo potuti andare in “continente”, ma non avremmo fatto l’attività culturale che abbiamo fatto qui. Anche se nella nostra regione se non veniamo valorizzati se non dalla Soprintendenza, per cui veniamo considerati dal punto di vista antropologico-artistico. È difficile, ma è quello che vogliamo fare. Non ci siamo accontentati, ci siamo posti il dubbio. E questo ci ha salvato la vita. Avere la pazienza di non accontentarsi.
D.P.: Siamo stati criticati da qualcuno perché non abbiamo usato la lingua sarda. Ma non ci interessava tradurre un testo in sardo ma semmai parlare e portare in scena argomenti e storie interessanti della nostra terra. Come ho già detto prima quando raccontavo di Areste Paganos, che è riuscito a portare le sue storie oltre l’isola e quindi parlare e farsi capire dai pubblici di tutta Italia. I nostri burattini sono sardi? Non lo so. Alcuni dicono che sono sardi perché hanno dei nasoni, ma non saprei. Noi siamo sardi e viviamo qui. Indaghiamo sulla sonorità e portiamo la sardità senza forzature, senza folclore e senza mai utilizzare lo stereotipo sardo. Abbiamo sempre e solo utilizzato la materia che potevamo trovare interessante a livello teatrale.
Nella motivazione per l’Ubu si parla di impegno politico, quindi cosa vuol dire per voi impegno politico?
D.P.: Noi non facciamo teatro politico. Il teatro è anche politico. Il teatro è vita. Il teatro deve assolutamente mettere dei dubbi, non deve dare delle risposte, deve fare in modo che lo spettatore possa riflettere su qualcosa. Ci sono stati dei momenti in cui abbiamo fatto quasi uno spettacolo propriamente politico, come “Il soldatino del Pim Pum Pà” di Mario Lodi che sembrava una sorta di “manifesto del partito comunista”, ma è un caso particolare. Di certo non abbiamo mai fatto un teatro che ammiccasse al commerciale. In questo senso abbiamo sempre cercato di raccogliere anche le istanze che venivano dal popolo, perché è una prerogativa del teatro dei burattini, ma ci siamo sempre messi l’obiettivo di portare argomenti che potessero far ragionare. Per esempio abbiamo fatto uno spettacolo sulla morte, pensato per i bambini: non sono temi prettamente politici, ma in una società in cui alcuni temi, come la morte e il sesso, sono tabù, noi abbiamo cercato di indagare anche questi aspetti a modo nostro.
T.M.: La premessa è necessaria, fondamentale: la politica o la fai o la subisci. E anche quando la fai la potresti subire lo stesso, tra l’altro. Il primo libro che ho letto di burattini riportava questa frase: Per sconfiggere un’ipocrita non conosco strumento migliore di una marionetta. Bisogna studiare approfonditamente l’arte dei burattini per farli parlare in modo diretto e chiaro di argomenti sociali. Bisogna praticare questo, rivedere quello, capire come si può interpretare quell’argomento scelto nello spettacolo. Che cos’è la sagacia del burattino? Perché un burattino a guanto? Perché è il più attoriale. Però il problema è sempre che cosa dici. E poi anche come lo dici. Questa è la politica. La politica del lavoro che fai, per cui devi costantemente studiare e approfondire. Per crescere continuamente. E non desistere.
Emilia Agnesa, sarda trapiantata a Roma. Drammaturga, autrice e attrice teatrale, diplomata in drammaturgia all’Accademia Nazionale Silvio d’Amico. Laurea specialistica in lettere antiche, insegnante abilitata di latino e greco. Collabora come autrice con diverse compagnie nazionali e internazionali.