Tre settimane di Trend – Nuove Frontiere della Scena Britannica

Nov 8, 2018

Trend, nuove frontiere della scena britannica

Quella in corso è la XVII edizione della rassegna Trend, ideata e curata da Rodolfo Di Giammarco. Anche quest’anno l’appuntamento porta con sé i colori, l’aria vivace dell’autunno e le suggestioni di uno dei quartieri più caratteristici e multiculturali di Roma, Trastevere, dove si svolge la manifestazione, all’interno del Teatro Belli. Il calendario delle Nuove Frontiere della Scena Britannica è parte del programma di Contemporaneamente Roma 2018 promossa da Roma Capitale con il sostegno del Ministero dei Beni Culturali e della Regione Lazio.

Le proposte della sua programmazione risultano essere la caratteristica più intrinseca, la sua peculiarità. Una kermesse che intende offrire qualcosa di diverso rispetto ai cartelloni ufficiali e, contemporaneamente, un crogiolo di idee e racconti, un’allegra commistione tra tanti elementi eterogenei. Gli autori, gli attori e i registi sono famosi ed emergenti in parti più o meno uguali. Sono uomini e donne, giovani e meno giovani, esperti navigatori di quel mondo policromo che è il Teatro. I numeri di questa edizione raccontano di un palinsesto che si svolgerà dal 18 ottobre al 22 dicembre articolato in 17 titoli, oltre 50 artisti tra attori e registi e tre opere di teatro digitale.

The Cordelia Dream di Marina Carr ha iniziato la rassegna portando in scena le complessità di un rapporto tra un padre e sua figlia. Massimo De Francovich e Roberta Caronia hanno interpretato e scandagliato, tra le pieghe di quelle due anime, tutti i risvolti difficili e sgradevoli di un legame parentale, biologico e sociale. Una commedia caustica e attuale che contiene l’equazione, umana e dimostrabile, di come l’odio, a volte, può rappresentare un’altra faccia dell’amore.

Jordan è ispirato a una storia vera, quella di una giovane madre di nome Shirley. Fortemente attratta dal pericolo, probabilmente ha commesso il grande errore di baciare quello che lei definisce “un uomo-rospo” di nome Davy. Anna Reynolds, scrittrice e drammaturga britannica, descrive e porta dentro quella trama alcuni pezzi della sua vita tormentata e asimmetrica. La regia di Jordan è stata curata da Francesca Manieri e Federica Rosellini che è anche la protagonista che interpreta in scena.

Angela è una donna sola, sotto i riflettori così come nella sua vita, Angela. Francesca Bianco la interpreta ed è la protagonista di My Brilliant Divorce di Geraldine Aron. In realtà non è l’unico personaggio sul palcoscenico; ci sono frammenti video di presenze virtuali in bianco e nero e alcuni oggetti di scena. La storia brillante è quella di un ordinario abbandono. Una donna che dopo venticinque anni di matrimonio si ritrova senza un marito, senza una figlia e con una vita da ricostruire. Carlo Emilio Lerici, che abbiamo avuto l’opportunità di intervistare, è il regista e il traduttore di My Brilliant Divorce con l’ausilio di Enzo Aronica che ha realizzato la regia video.

C’era tanta attesa per Ivan & the Dogs di Hattie Naylor e in effetti l’interpretazione di Lorenzo Lavia è risultata essere magnetica ed equilibrata, ricca di emozioni. Le coordinate e le direzioni sono state date dalla mente registica di Massimiliano Farau. Ambientato nella Russia degli anni Novanta, la storia racconta di Ivan, un bambino di 4 anni che vive per strada, con il cane Belka che provvederà a fornirgli cure e amore come una madre, sostegno e protezione come un padre.

BU21 di Stuart Slade, con la regia di Alberto Giusta è l’effetto, la conseguenza di quella che è stata paura contemporanea e collettiva, il terrorismo. In una Londra devastata e distrutta da un attacco, sei sopravvissuti interpretati da Mario Cangiano, Daniela Duchi, Valentina Favella, Silvia Napoletano, Francesco Patanè e Matteo Sintucci si incontrano in una terapia di gruppo per condividere le loro esperienze e per cercare di elaborare e superare i traumi vissuti.

Il prossimo appuntamento, in programmazione dall’8 all’11 novembre, sarà En attendent Beckett, un percorso multimediale ideato da Glauco Mauri e Roberto Sturno, con la collaborazione di Andrea Baracco. L’idea è quella di esplorare i testi, la lirica paradossale e grottesca, le opere “L’ultimo nastro di Krapp” e “Atto senza parole” dell’autore inglese Samuel Beckett che, in Finale di Partita, scrisse un celebre ossimoro « Non c’è niente di più comico dell’infelicità».

Quello che abbiamo visto in queste prime tre settimane di programmazione sono state le diverse prospettive e le estensioni espressive ad esse connesse. Dirompenti nella loro forma drammatica, a volte taglienti nei loro risvolti ironici, brillanti o leggeri. Racconti intimi o corali, monologhi e dialoghi, frammenti personali di vita vissuta e rappresentata con la forza di un linguaggio universale e dinamico. Sono pezzi, brandelli di sogni, di ricordi, di esperienze al limite e in ogni caso intrise di feroce umanità. Le partiture drammaturgiche sono state da zone circoscritte e definite da Di Giammarco come “traumi di storie, terremoti di senso, tsunami linguistici”.

 

Trend, nuove frontiere della scena britannica

Trend, nuove frontiere della scena britannica

Abbiamo avuto l’opportunità di incontrare e intervistare il regista e autore Carlo Emilio Lerici, il quale cura l’organizzazione tecnica della rassegna e ha condiviso con noi le sue riflessioni al termine della replica del giovedì:

My brilliant divorce ha vinto diversi premi, è stato rappresentato in 28 paesi ed è stato realizzato un film. Lei ha curato la regia, ma anche la produzione del testo originale. Qual è stato l’approccio con il testo e che evoluzione ha avuto nella versione italiana?

Sono figlio di un autore teatrale e tendo a cambiare molto poco i testi, nutro un sacro rispetto verso di essi. Leggo sempre tante cose e ho trovato per caso My brilliant divorce, avevo visto una segnalazione di questo copione, abbastanza unico per un’attrice, l’ho tradotto in modo abbastanza fedele all’originale, senza particolari differenze. Ci sono dei giochi di parole che non ho cercato di ricostruire perché non c’è niente di peggio che provare a reinventarli.

Diciamo che l’intervento più consistente è che ho apportato dei tagli, ho accorciato molto il testo che è nato negli Stati Uniti, successivamente è stato riproposto in Irlanda e in Gran Bretagna ma lì il teatro funziona un po’ diversamente che da noi. Lo spettacolo originale durerebbe 2 ore e mezza, uno spettacolo in due atti che in Italia sarebbe molto complicato da proporre al pubblico.

Se viene fatto a Broadway con i mezzi che erano disposizione possono inventarsi di tutto. Ho visto il cane telecomandato, i palcoscenici che si muovono per cui riempiono queste due ore e mezza con tante cose. La scelta del lavoro sul testo è stata quella di andare a concentrarsi su un percorso molto lineare, molto semplice, molto diretto e quindi ho tagliato tutto quello che poteva essere una ripetizione, un ritornare sopra a qualcosa di già detto per rendere tutto più fluido, più veloce e farne un soffio.

Una sua riflessione sul lavoro di regia, dalla composizione alle messa in scena.

La cosa bella di questo testo è che è scritto molto bene. Forse la scrittura è più americana che inglese con la costruzione di situazioni che ritornano, il finale costruito in quel modo specifico. La messa in scena è finalizzata e tende a cercare di fare in modo che quando gli spettatori lo vedono, non devono pensare al lavoro del regista che c’è dietro. Meno si vede, meglio è. Chi vede lo spettacolo deve pensare che ha ascoltato una donna che raccontava la sua storia. Non deve pensare alla regia e se ciò avviene, vuol dire che ho fatto bene.

Quali sono state le scelte effettuate per la composizione del cast in video a supporto dell’attrice in scena?

Forse l’unica libertà che mi sono preso è la presenza in video degli attori perché, da copione, sono previste delle voci fuori campo che io non amo per niente. Avevo già fatto una scelta in tal senso tanti anni fa mettendo in scena Talk Radio, il testo di Eric Bogosian dove c’è un conduttore radiofonico che parla con gli ascoltatori; in quel caso era previsto che ci fossero tante voci. Mi ero divertito, invece, a creare un secondo palcoscenico dove c’erano gli attori veri, perché nel 2000 le proiezioni non si usavano e quella soluzione ha funzionato bene.

La stessa cosa è avvenuta ne La versione di Barney, un lavoro ho fatto sette anni fa. C’erano già le proiezioni e in quel caso ho usato degli attori che interagivano con il protagonista in scena, anche in quel caso l’idea è stata funzionale alla riuscita dello spettacolo. Devo dire che ieri come oggi, ho lavorato con Enzo Aronica che ha curato la regia video. L’idea di usare le mezze facce in bianco e nero è stata sua e ci siamo trovati bene perché mi piacciono le idee che ha su come usare le immagini. Inizialmente io volevo che si vedessero gli attori ma è stato lui a convincermi della bontà della sua intuizione.

L’esperienza del divorzio va nella direzione del panico o nella ricostruzione con leggerezza della propria vita ed esistenza?

Il panico, il dolore, l’abbandono, le difficoltà, tutti questi elementi ci sono e si sentono. Siccome il tono generale è leggero, questo non determina implicitamente il fatto che uno se ne dimentica. Mi piaceva l’idea di rappresentare e di far sentire veramente la preoccupazione e l’angoscia. Il tutto, però, in un contesto di leggerezza perché il concetto è quello che ci si può liberare di tanti pensieri e di tanti problemi lavorandoci sopra.

Cosa comporta curare l’organizzazione generale di una rassegna stimolante come Trend, giunta alla diciassettesima edizione, e qual è la sua esperienza?

Sono 17 anni che organizziamo la rassegna Trend qui al Teatro Belli e possiamo dire che ne abbiamo viste di cose! È buffo perché ci sono state edizioni in cui giovani e sconosciuti attori sono diventati conosciuti e molto apprezzati. Ogni anno è una pagina diversa, c’è sempre qualcuno che ritorna perché ci sono artisti affezionati e a noi piace sperimentare, siamo dentro questo mondo della drammaturgia inglese. In realtà abbiamo sempre mescolato testi assolutamente contemporanei, scritti e messi in scena quasi in contemporanea con gli inizi della rassegna, insieme con cose più vecchie, però diciamo che la drammaturgia inglese non ti annoia mai. Anche quando gli anglosassoni girano attorno ad un problema, viene fuori sempre una visione nuova che ti diverte. Io credo che anche in questa edizione i temi della nostra società contemporanea sono sempre gli stessi, non è che cambiano le questioni.

Gli autori inglesi, però, sono molto bravi perché riescono a raccontartele da diversi punti di vista, inventando storie diverse. Sono bravissimi inoltre ad attingere dalla cronaca. Anche in questa edizione ci sono tanti testi che prendono spunto da fatti accaduti che diventano storie, testi teatrali incredibili. L’anno scorso ho messo in scena un testo di un drammaturgo irlandese (The Match Box di Frank McGuinness ndr) tratto da un fatto di cronaca. L’autore è un appassionato ed è il traduttore ufficiale della tragedia greca in Irlanda, lui ha costruito una tragedia greca su un episodio di cronaca. Per questo motivo sostengo che gli scrittori britannici riescono e a stupirci sempre. Anche quest’ anno noi a Trend proponiamo temi che vanno dal vivere quotidiano, dai drammi personali alle tragedie delle periferie ed è entusiasmante.

Quali sono le frontiere o i confini rimasti ancora da superare?

Adesso direi che bisognerebbe fare in modo che il pubblico superi i confini ed entri nei teatri. Diciamo che la scommessa è quella, da noi, non certo in Inghilterra, dove non hanno questo tipo di problema. Noi cerchiamo di attirare un pubblico nuovo proponendo delle cose diverse rispetto ai cartelloni ufficiali. Io credo che qui si vedono sicuramente delle cose nuove e c’è una mescolanza di linguaggi vastissima, c’è di tutto. Quest’anno abbiamo addirittura Glauco Mauri, riusciamo anche a stare dentro una cosa che potrebbe essere classica ma non lo è e ci sono artisti come Giorgina Pi con tutta la sua storia dell’Angelo Mai.

Forse la nuova frontiera è anche la capacità di mettere assieme tanti mondi diversi del teatro che è quello che a me piace perché questo è un contesto brillante. Quello dell’anno scorso era una tragedia, due anni fa avevamo costruito un container qua dentro, uno spettacolo dove gli attori venivano dal nord Africa, dall’Africa centrale, dal mondo arabo. Un testo che raccontava di un viaggio per cercare di raggiungere l’Inghilterra, con il pubblico dentro al container. In questa edizione, diciamo che ci sono tutti i linguaggi possibili, mancava forse una commedia brillante che ha prontamente riempito la casella

Si dice che l’emozione degli attori svanisce nello spazio che separa i camerini dal palcoscenico. Quali sono state le sue emozioni che ha vissuto dalla sua postazione?

Dopo tanti anni non voglio dire che sono diventato abbastanza insensibile, ma è come se fosse subentrata una sorta di rassegnazione. In passato ero molto teso, agitato adesso è la consapevolezza che a me piace il mio lavoro, credo nelle operazioni che faccio per cui si possono avere dei dubbi, ci possono essere spettacoli più e meno riusciti, però penso di essere dentro uno standard di operazioni che realizzo per il piacere di farle.

Il vantaggio di lavorare in questo contesto che probabilmente crea uno stato di sicurezza e che io qui dentro non l’obbligo di fare, non sono scritturato per mettere in scena un testo con determinati attori. Io faccio quello che mi gratifica con gli attori che mi piacciono e con una libertà totale. Credo che sia il massimo che uno possa desiderare nel fare questo mestiere e questo ti libera da tante responsabilità e da ogni preoccupazione. Probabilmente se mi chiamassero per fare una regia di un altro tipo sarei più agitato perché rapportarsi con una cosa che non è stata scelta in autonomia è più complicato.

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