Lo spopolamento dei borghi e il conseguente bisogno di far tornare a rivivere luoghi altrimenti dimenticati non è una missione da affidare esclusivamente agli interventi politici; il cambiamento, infatti, potrebbe partire anche dal basso, attraverso il teatro che, come un sarto riparatore, si occupi di ricucire efficacemente un tessuto sociale compromesso, in territori che meritano, per la loro genuinità e bellezza, di essere vissuti ancora.
Il Teatro dei Venti – compagnia modenese che fa del teatro di comunità una missione – continua nell’intento di combinare la sperimentazione dei linguaggi di scena contemporanei con l’arte di stabilire legami umani, e lo fa con tante piccole azioni diffuse, compresa quella di occuparsi di un festival, Trasparenze, che da qualche anno si è irradiato da Modena – la base del loro lavoro, da cui tutto ebbe inizio – verso l’Appennino. In circa un’ora di macchina e una serie di curve si arriva infatti a Gombola, uno dei tanti borghi colpiti dal suddetto spopolamento dove, dal 28 al 31 luglio, ha luogo la seconda parte della decima edizione del festival che, come spiegato dal direttore artistico della compagnia Stefano Té, non esaurisce in questo tempo limitato la sua funzione.
Com’è nato Trasparenze e perché avete scelto proprio questo nome?
Trasparenze è nato da una collaborazione e uno scambio molto intensi con Stefania Piccolo e Agostino Riitano, quando con Officinae Efesti, dieci anni fa, si immaginò un festival alternativo che volgesse lo sguardo sulle realtà invisibili – trasparenti, per l’appunto – che normalmente si visitano poco perché marginali, preferendo guardarvi piuttosto attraverso.
Come siete arrivati dunque a Gombola e con quale prospettiva?
Sono ormai tre anni, concomitanti dunque con la pandemia, che il Festival Trasparenze si svolge, oltre a Modena, anche a Gombola. Ci siamo arrivati per caso, quando si è presentata l’opportunità di prendere in gestione l’ostello del borgo, e da lì l’idea di immaginare un posto che potesse accogliere gli artisti più che i turisti, e divenire un luogo di residenza dedicato allo studio e alla ricerca a partire dal silenzio circostante e dalla natura. È stato dunque un passaggio spontaneo quello di portare il festival qui, per comprendere le capacità di questo posto e le prospettive attuabili, grazie anche alla collaborazione con ATER che ha creduto nel progetto sebbene la complessità di portare il pubblico in un luogo oggettivamente fuori mano, che per gran parte dell’anno rimane disabitato.
La prospettiva è allora quella di costruire una presenza stabile e un luogo di permanenza per gli artisti, estendendo questo momento di condivisione e apertura anche oltre il festival. Per tale motivo abbiamo chiesto la partecipazione delle persone del territorio, che hanno reagito fin da subito con grande passione: è nato così il progetto Spettatori residenti che permette loro di prendersi cura degli ospiti aprendo le proprie case e accogliendo chi viene fin qui per assistere agli eventi.
Il festival diventa così un pretesto per costruire relazioni che siano effettive e durature, ma anche per uscire dalla trappola della comodità, che ci porta a escludere tutto ciò che appare complesso in favore del raggiungibile; Gombola, infatti, per noi che tutto l’anno andiamo a mille all’ora, ci offre la possibilità di fermarci, soffermarci, e anche esitare, che è una cosa molto bella.
In che modo riuscite a mantenere la continuità?
Riusciamo a mantenerla grazie ai laboratori permanenti con gli abitanti del territorio, che incontriamo tutte le settimane con l’intenzione di costruire lo spettacolo di apertura del festival insieme a loro. Quest’anno, è stata fatta una tappa a maggio e una in questo mese per il progetto Misura umana che avrà un futuro perché sarà il nostro prossimo lavoro per spazi urbani: il segnale dunque di un’inclusione più ampia che va ben oltre l’evento Trasparenze.
Abbiamo inoltre presentato alla Regione un ulteriore progetto per diventare un luogo di residenza, con la proposta di ospitare cinque compagnie per venti giorni ciascuna, affidando loro la missione sia di lavorare sulla propria produzione, sia di trovare una maniera logica e naturale per entrare in interazione con gli abitanti e coi luoghi. Si tratta di un vero e proprio progetto di trasformazione che necessita però di essere premiato e ricevere il sostegno e gli investimenti delle istituzioni.
Che tipo di collegamento esiste – se esiste – con la prima parte del festival tenutasi nel mese di maggio a Modena, e quale il senso specifico di questa decima edizione?
Trasparenze – per ricollegarmi a quanto spiegato all’inizio – si svolge a Modena in un quartiere periferico, dando attenzione alle realtà artistiche più marginali, nonché a luoghi come il carcere della città o a quello di Castelfranco Emilia, dove lavoriamo con continuità, e in cui è sempre prevista una tappa all’interno del festival. L’allargamento in questi due anni verso l’Appennino, ovvero una zona caratterizzata da complessità per via di uno spopolamento e un progressivo svuotamento di contenuti, appare dunque coerente, sia all’interno dell’evento sia nel quadro più ampio della nostra vocazione, con questa idea.
Sebbene l’edizione di quest’anno si concluda con la camminata utopica, questo decennale segna un importante passaggio: dall’utopia – una parola che sorvola il nostro lavoro da tempo e che ha contrassegnato gli ultimi anni del festival – alla misura umana, ovvero alla dimensione dell’abitare e della relazione. Stiamo infatti lavorando a un progetto che, dopo Moby Dick, sarà il grande spettacolo di comunità per spazi urbani, e vedrà compimento – si spera – tra circa tre anni, per il nostro ventennale come compagnia; nel corso di questa trasformazione, Trasparenze rappresenta un po’ il passaggio di consegna, l’edizione del cambiamento, anche nella sua veste che probabilmente non sarà più quella di un festival vero e proprio, ma di una presenza distesa nel tempo.
Hai accennato alla Camminata utopica: è una novità? Di cosa si tratta?
In verità abbiamo già fatto in passato una camminata utopica: all’alba dell’ultima notte di coprifuoco quando, insieme a centinaia di persone tra artisti, volontari, spettatori, amici e partecipanti ai laboratori, abbiamo attraversato la città di Modena costruendo un distanziamento poetico con i nastri colorati che abbiamo chiesto loro di portare; per poi concludere il nostro percorso in Piazza Grande dove, attraverso la lettura di poesie, abbiamo dedicato un momento di riflessione all’abitare, al bisogno di tornare a popolare luoghi che si erano fatti deserti.
Adesso è sembrato naturale riproporla, ma stavolta nel bosco, dove la camminata si fa utopica anche perché complessa, visto che saliremo attraverso sentieri ripidi fino ad arrivare a un altro borgo, disabitato a causa di una frana; e lì, in una piccola piazza piena di macerie, incontreremo il professore Gerardo Guccini, il direttore artistico de L’Arboreto – Teatro Dimora di Mondaino Fabio Biondi e la poetessa Azzurra D’Agostino che, in tre forme diverse – rispettivamente, storica e visionaria, narrativa e poetica – ci presenteranno il concetto di utopia da differenti livelli. Il ritorno sarà poi percorso lungo i calanchi, dove potremo vedere in lontananza il borgo di Gombola, a cui giungeremo nuovamente per pranzare tutti insieme.
Un momento di grande condivisione che sembra permeare ogni parte del festival. Quale sentire vi ha guidato nella scelta degli altri spettacoli e delle attività collaterali all’evento?
La collaborazione con ATER e la proposta di progetti in sintonia con un luogo che ha bisogno di un certo sottotipo di spettacolo, non invasivo e persino adatto a essere sussurrato, è stata cruciale per poter realizzare un evento rispettoso della natura circostante. La scelta è stata inoltre guidata dal tema dell’umano ricorrente negli spettacoli, che ben si presta ad essere associato all’ambiente – come nel caso delle rappresentazioni che si terranno nel bosco – senza creare cortocircuiti, ma rimettendo al centro il luogo.
Quanto alle attività collaterali, sarà possibile visitare l’asineria, l’apiario, il vecchio mulino, coinvolgendo anche i bambini, al fine di portare l’attenzione su altre realtà invisibili. Sarà così un’occasione per presentarle, parlare con chi se ne occupa e conoscere i loro progetti, così che il festival non sia che un pretesto per far luce sulle presenze utopiche attorno a noi, spesso oscurate dalle brutture, ma che esistono, così come esiste tanta altra bellezza.

Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.