Trasparenze. Diari teatrali 1972-2016. 40 anni di teatro raccontati da Alessandro Berdini

Apr 7, 2020

Sotto forma di diario, in Trasparenze. Diari teatrali 1972-2016, il corposo volume edito da Editoria & Spettacolo, Alessandro Berdini, regista, organizzatore teatrale e direttore artistico del circuito multidisciplinare Atcl Lazio,  racconta 40 anni di carriera mappando l’universo teatrale italiano dagli anni ‘70 ad oggi. Recensioni, documenti, racconti di vita, passione fagocitante. Trasparenze è un’autobiografia generosa perché capace di concentrarsi sulla relazione con l’altro. Preziosa sintesi di un universo teatrale che non si esaurisce ma che si rinnova, mutando per mezzo dei lasciti dei grandi maestri, il volume è la narrazione di un percorso lavorativo multiforme che ha permesso all’autore di guardare il teatro da diverse angolazioni: ora con la prossimità dell’artista, ora con la distanza dell’organizzatore. Postazioni diverse, stessa passione. Di quest’opera approfondisce le tematiche Alessandro Berdini proponendo, attraverso il ricordo, importanti prospettive per il settore teatrale.

Trasparenze. Diari teatrali 1972-2016, Alessandro Berdini

La suddivisione cronologica in capitoli che sviscerano, decennio dopo decennio, quanto accaduto sulle scene romane e internazionali dà vita a una storia del teatro preziosa, fatta di aneddoti e precisi resoconti. Qual è la missione di questo libro oggi?

È un lungo racconto iniziato nel 1972, un vagare in piccoli e grandi fiumi, in stagni, torrenti e cascate le cui acque, prima o dopo, sfoceranno nel mare e, forse, solo qualche sbiadito ricordo sopravviverà. Tra qualche tempo, delle scene, degli attori, delle persone presenti in questo volume si perderanno le tracce, rimarranno labili reminiscenze. Mi viene in mente il film Morte a Venezia in cui il trucco di Dirk Bogarde si scioglie lentamente sulle sue guance e sulle sue labbra, portando via ricordi, sentimenti e visioni. Questo mio libro è una condensa di fatti, avvenimenti, spettacoli che fotografano un mondo del teatro che dagli anni Settanta si trasforma e si dischiude a percorsi estetici fino ad allora sconosciuti o tenuemente immaginati.

Trasparenze è anche una possente performance, a colori e in bianco e nero, in cui artisti, tecnici, organizzatori, danno vita a una grande messa in scena sulla quale, come accennavo, prima o poi calerà il sipario. Trasparenze, tra l’altro, è il titolo del mio primo importante spettacolo, tra eroi dell’antichità, sciamani e guaritori. Una miscela di musica e movimento, dove la parola è totalmente assente. Questo libro non ha una missione. Racconta la storia di tanti artisti e imprese di spettacolo che si sono rapportate con l’arte scenica, con il mondo politico e il pubblico. Come dichiara Romeo Castellucci in un’intervista di Andrea Porcheddu: «Il teatro è un’arte che non lascia traccia. Non è mai merce, ma esperienza. E questa sua fragilità è la sua potenza, gravida di futuro».

In che misura può dirsi autobiografica un’opera che, pur avendo la tua vita sullo sfondo, riesce ad ampliare il proprio orizzonte abbracciando il lavoro di innumerevoli artisti?

Non poteva essere altrimenti. In teatro non siamo mai soli. Si condividono con gli altri tante cose e tante pratiche. Il prodotto può raccontare anche le forme più estreme della solitudine, ma il percorso è condiviso: con il regista, con il drammaturgo, con gli attori, gli scenografi, i musicisti, i tecnici. Certamente questa mia opera è un’autobiografia ma vi prendono parte un’infinità di persone, sia per quanto riguarda il lavoro artistico sia per quello organizzativo e ricreativo. Per esempio, sul piano estetico, il mio spettacolo L’altra insonnia su Fernando Pessoa è stato pensato come avrebbe voluto il poeta portoghese: una miriade di immagini e personaggi che hanno trovato una propria forma sul palcoscenico, per poi essere di nuovo fagocitati nel suo baule di carte e documenti. Come direttore del circuito multidisciplinare Atcl Lazio la mia passione è stata alimentata dall’essere coinvolto direttamente nelle rappresentazioni dei grandi del teatro.

Quasi tutte le sere, per anni, in trasferta nei teatri del circuito ho assistito alle prove di spettacoli che mi hanno folgorato, formato, entusiasmato, coinvolto: come dimenticare Salvo Randone con la cicca tra le labbra mentre recita Pane altrui di Turgenev. Le performance di Alida Valli, Paolo Bonacelli, Valeria Moriconi, Luca De Filippo o Lilla Brignone in Così è se vi pare; Virgilio Gazzolo con Anna Maria Guarnieri ne Il gabbiano di Cechov; Una zingara mi ha detto con Gino Bramieri. Senza tralasciare la contemporaneità e la sperimentazione con la Raffaello Sanzio, la Gaia Scienza, Sosta Palmizi, Living Theatre, Peter Schumann, Leo de Berardinis, passando per le notti brave con Giuseppe Bartolucci, Nico Garrone, Mario Perniola, Maurizio Grande, Cesare Milanese e tanti altri.

La forza dei sogni, Il trionfo della letteratura e La fede nei drammaturghi, questi i titoli evocativi dei capitoli dedicati al teatro dagli anni ‘70 agli anni ‘90. Tre tappe di un cammino di trasformazione. Cosa è accaduto in quel ventennio? Siamo di fronte alla parabola di un’utopia che si esaurisce o alla sua trasmutazione in azione concreta per mezzo della penna dei grandi autori?

È stato un lungo sogno durato 27 anni. È iniziato nell’agosto del 1972 sulla spiaggia di Katerini in Grecia – da cui si potevano ammirare l’Olimpo e gli dei – e si è protratto fino al 1999, quando in un vecchio tendone da circo mettevo in scena Per tre sorelle di Cechov. Negli anni Settanta ho parlato a lungo con gli eroi, con il sacro, con le origini della nostra Tradizione: gli attori dovevano vedersela col corpo e con le ritualità richieste. Abbiamo avuto contro, fatte poche poche eccezioni, molti critici e studiosi. Negli anni Ottanta sono stato rapito dalla letteratura – Hesse, Céline, Borges, Pessoa, Kafka, Dostoevskij – che sulla scena prendeva vita grazie a un lavoro attento di alchimie e a una profonda connessione tra la drammaturgia del movimento e la poetica delle immagini.

Negli anna Novanta mi sono avvicinato alla figura del drammaturgo lavorando con autori come Franco Cordelli, Nico Garrone, Maurizio Grande, Franco Ruffini, finendo per svegliarmi definitivamente dal mio profondo sogno. In questo lunghissimo periodo, terminato nel 1999, ho fatto i conti con esoterismi, carezze, angosce, terrorismo, letteratura, poesia, su di un battello che ha circumnavigato il perimetro del mio cuore e del mio fegato, insieme al cuore e al fegato di tante persone che mi sono state vicine e che lo sono ancora oggi, mentre altri sono salpati su diversi bastimenti ammaliati da altre rotte.

Alessandro Berdini

Col nuovo millennio intraprendi una nuova strada fatta di argute e necessarie operazioni culturali disseminate sul territorio laziale e nazionale, testimoniate in Trasparenze da un’incredibile quantità di articoli di giornale. Cosa offri ai tuoi lettori nelle ultime pagine di quest’opera, l’analisi di un processo in atto o sottesi consigli per le generazioni future?

Gli inizi del terzo millennio sono stati caratterizzati dalla consapevolezza che il mio ruolo di operatore consistesse nel fare in modo che tutto ciò che era stato seminato precedentemente dovesse prendere forma in un sistema capace di dare concretezza e continuità alle imprese dello spettacolo e ai territori: la multidisciplinarietà, il sostegno ai nuovi talenti, l’avvicinamento delle nuove generazioni allo spettacolo, la promozione del patrimonio, il tutoraggio e il recupero delle sale. Ho dato vita a un reale osservatorio dello spettacolo che è riuscito a valutare i flussi della domanda e dell’offerta, individuando nuovi potenziali bacini di utenza, proponendo diverse strategie di carattere organizzativo ed economico.

Nello specifico, il circuito da me diretto ha voluto interpretare la cultura dello spettacolo come una nuova frontiera per lo sviluppo di una comunità, promuovendo la funzione educativo-pedagogica, la capacità di aggregazione sociale e di integrazione, e le progettualità per la valorizzazione dei contesti turistici. Alle pareti del mio ufficio sono affisse le foto di Orson Welles, di Friedrich Nietzsche, di Pier Paolo Pasolini, di mia moglie, del mio corto cinematografico Emilia Galotti, le locandine dei convegni su Kafka, Pessoa, Artaud, Hesse, Strindberg, di Sentieri d’Ascolto e delle Invasioni Creative. «Non basta morire per chiudere i conti col destino. Devono capirlo quelli che pretendono di essere vivi. Io ci sono per ricordarglielo…»

Qual è il ricordo più pregnante di questi quarant’anni di vita teatrale?

Sono talmente tanti e così preziosi che potrebbero essere racchiusi in un altro volume: le prove insieme alla Rampling presso il teatro comunale di Rieti; la cena a Latina con il giovanissimo maestro Gustavo Dudamel che quella sera aveva diretto l’orchestra dell’Accademia Santa Cecilia, sulla Nona Sinfonia di Beethoven, di fronte a diecimila persone; le chiacchierate senza fine al Teatro Nestor di Frosinone con Enrico Maria Salerno e Florinda Bolkan; le serate nell’area archeologica di Vulci parlando con Franco Battiato e Lucio Dalla; le due settimane trascorse al Teatro Delle Arti di Roma con Carmelo Bene e il suo cane Albertazzi. E mai dimenticherò l’incontro, a metà degli anni Settanta all’Università La Sapienza di Roma, con Mircea Eliade e la sua teoria sull’acquisizione della conoscenza che poteva avvenire trasferendosi in Tibet o semplicemente raccogliendo della cicoria sul monte Soratte.

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