Dopo il successo delle sue geniali regie di testi shakespeariani come Cymbeline, Macbeth e Racconto d’inverno, per la prima volta Declan Donnellan dirige una produzione in lingua italiana: La tragedia del vendicatore di Thomas Middleton che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano.
«Middleton e Shakespeare – spiega Donnellan – si affermarono in una Londra teatro di cambiamenti dirompenti. Era un tempo di boom economico e bancarotta, dominato da un disagio sociale destinato a sfociare nella rivoluzione che avrebbe, alla fine, completamente distrutto il contesto culturale dei due autori. Leggendo Middleton si percepisce una minaccia incombente, che cresce come un tumore invisibile fino a scoppiare, alimentata dal rancore e dall’ingiustizia. Ci parla di un governo corrotto, invischiato in loschi affari, di un popolo che si compra al prezzo dei beni di consumo.
Un connubio di intrighi, corruzione, lussuria, narcisismo e brama di potere sullo scenario di una corte del Seicento spaventosamente contemporanea, in cui si aggirano personaggi ai quale l’autore ha attribuito nomi “parlanti”, così da connotarne fin da subito il ruolo e il comportamento. In occasione del del dedebutto abbiamo intervistato gli attori dello spettacolo Alessandro Bandini, Martin Chishimba e David Meden:
• Come si sono svolte le selezioni?
DAVID MEDEN: Quando Declan è stato chiamato per questa prima produzione al Piccolo, era la prima volta che lavorava con una compagnia italiana di attori. Il Piccolo è un teatro stabile, ma non ha un suo ensemble fisso e perciò è stato avviato un processo di selezione, durato in maniera discontinua un paio di mesi, da ottobre a dicembre, durante i quali lui voleva sempre rivedere gli attori almeno due volte. Nei provini veniva richiesto un pezzo da Shakespeare, o comunque elisabettiano, ma l’attenzione non era tanto incentrata sulle nostre proposte, quanto piuttosto sul lavoro su delle coordinate che abbiamo poi sviluppato durante le prove. Nella seconda fase ci ha fatto lavorare su delle piccole improvvisazioni, chiedendoci un’autonomia di proposta.
ALESSANDRO BANDINI: Secondo me è stato soprattutto un incontro umano: Declan valutava le nostre reazioni alle sue suggestioni, anche a livello di empatia.
• Per quanto riguarda la creazione dei personaggi, come si è svolto il lavoro?
MARTIN CHISHIMBA: Credo che i personaggi siano nati dalle improvvisazioni. Declan diceva: “La situazione è questa, andate, fatemi vedere cosa riuscite a fare con questa scena” e dopo, magari, dieci minuti si ritornava con una proposta, ovviamente all’interno di un percorso immaginario dello spettacolo.
ALESSANDRO BANDINI: È stata una bella sfida, secondo me. È come se lui ci avesse consegnato un terreno carico di racconti in cui noi potevamo affondare i nostri piedi da soli. Non ci ha mai detto per esempio: “tu sei stupido e hai voglia di potere”. Anzi per prima cosa ci ha parlato del potere in quanto tale e delle dinamiche umane che stanno alla base di questo testo, dove tutti i personaggi, a un certo punto, scoprono di essere soli. Avevamo delle parole, un vocabolario a cui appigliarci, per esempio “spazio”, “posta in gioco”, “varcare una soglia”, che ci permettevano di aprire subito degli immaginari, e proprio da questo terreno fertile il personaggio poi poteva sbocciare da solo.
DAVID MEDEN: Declan ci diceva: “Cerco di creare le condizioni affinché poi la vita accada sul palco. Non posso dirvi come può accadere, però posso provare a creare le condizioni”. Insisteva sul fatto che per lui dirigere significa mettere in una direzione opportuna qualcosa che però deve essere già in movimento, deve già esistere per conto proprio. Ci metteva costantemente di fronte alla nostra responsabilità di attori, perché sul palco dobbiamo dare sempre e a prescindere il 100% e non il 60, perché il nostro mestiere è quello.
MARTIN CHISHIMBA: Declan insisteva molto sul fatto che un personaggio è complesso come una persona nella vita reale, ha molte sfumature e per poter crescere deve essere esplorato a 360 gradi.
ALESSANDRO BANDINI: Ci ha sempre detto che durante la scena in cui stai recitando lo spazio fuori di te e ciò che sta accadendo altrove sono estremamente più importanti rispetto a te. E per la maggior parte degli attori questo è difficile da accettare. Però è stupefacente come ciò da un lato ti responsabilizzi, come dice David, ma dall’altro ti deresponsabilizzi, perché sai che c’è sempre qualcosa di più grande di cui tu sei al servizio.
• Cito da Doppiozero un estratto della recensione di Maddalena Giovannelli: “Difficile sostenere che sete di potere e desiderio di vendetta non siano questioni universali e sempre attuali. Ma è sufficiente, questa dichiarazione d’intenti, per aprire un vero dialogo con il contemporaneo, con il pubblico di oggi, con la vita là fuori?”. Come vi ponete di fronte a questa provocazione?
DAVID MEDEN: Immagino che il problema, quando affronti un testo classico o contemporaneo, sia sempre l’urgenza. Ma in ultima istanza, come diceva Donnellan, tu non sai perché scegli di mettere in scena proprio quel testo. Allo stesso modo uno non sa perché vuole il potere. Non avrebbe senso leggere tutto in chiave psicologica: ci sono degli istinti umani che non si possono spiegare. Quindi andarsi sempre a chiedere perché uno ha messo in scena un determinato testo e che collegamento c’è col presente mi sembra una questione di lana caprina. Detto questo, penso che questo testo abbia una superficiale connessione con il contemporaneo che può essere colta senza neanche venire a vedere lo spettacolo, già leggendo il libretto di sala. Se uno spettatore vuole vedere il Duca come un possibile Berlusconi è libero di farlo, ma personalmente la connessione con il contemporaneo che più mi ha entusiasmato è quella umana: analizzando quelle scene nella loro essenza, risulta chiaro che non riguardano esclusivamente una specifica epoca storica. C’è una madre che vuole vendere una figlia, un patrigno che noi figliastri vogliamo veder morto a tutti i costi… La corte non è altro che una persona dal riconosciuto carisma, circondata da persone che la rincorrono e che farebbero di tutto per avere il suo posto, sì, ma anche solo per prendere il posto dei lacchè precedenti.
MARTIN CHISHIMBA: La cosa bella di ogni spettacolo, secondo me, soprattutto in Europa, e lo dico da Zambiano, è che il teatro serve all’immaginazione, a smuovere l’umano, l’energia dentro, a far sì che il nostro immaginario, il nostro pensiero non sia bloccato. Parlare oggi di vendetta e dei vari drammi che sono in questo testo è un’occasione per guardarci allo specchio. È un costante confrontarsi e chiedersi in quale direzione sta andando l’umano.
ALESSANDRO BANDINI: No, non è sufficiente; ma è un tentativo e quindi già il fatto che qualcuno ci provi, pur magari non riuscendoci, è già di per sé un prezioso forziere da cui attingere. Ma, soprattutto mi viene da chiedere: dove ci collochiamo quando parliamo di contemporaneo? Trovo molto interessante un testo che ci ha accompagnati durante il lavoro, L’attore politico. Donnelan ci ha sempre ricordato che la battuta riguarda unicamente l’adesso e l’altro. E che cosa c’è di più contemporaneo del preoccuparci dell’altro, qui ed ora? Soprattutto in un contesto in cui, in italia e nel mondo, siamo proiettati su di noi e sul futuro?
• Non siete unicamente attori scritturati, state percorrendo con decisione strade parallele indipendenti. Come immaginate e auspicate il teatro di domani?
MARTIN CHISHIMBA: Ho avuto la fortuna di incontrare una cultura molto importante come quella italiana e, più in generale, greco-latina. Sono Zambiano, noi sfortunatamente siamo stati colonizzati, quindi metà della nostra storia è stata cancellata e per me il teatro è l’unica forma di comunicazione che permette di tornare indietro nel tempo. Lo utilizzo come portavoce fondamentale, per me è l’unico ponte rimasto che può costruire il passato. Quando faccio i miei spettacoli in Zambia, cerco di risvegliare la coscienza attraverso l’immaginazione. Finché un popolo non ha cultura, non potrà mai diventare economicamente libero. Vorrei un teatro ampio, con un’offerta diversificata e un underground più forte. Il mio teatro include musica e danza: più l’attore è completo, più vediamo l’artista.
ALESSANDRO BANDINI: Il teatro è sempre più relegato ai margini, e per questo lo vorrei pericoloso. Vorrei che non fosse comodo per chi lo guarda e che ci spingesse oltre la nostra comfort zone. L’attore deve scontrarsi sempre di più con l’essere autore di un fatto teatrale, appropriandosi quindi di un proprio spazio, di un proprio respiro e sopratutto di un proprio tempo.
Ho fondato un gruppo con la mia classe, siamo agli inizi, e non vogliamo andare verso ciò che già sappiamo fare. Abbiamo dei punti saldi grazie alla scuola, ma vogliamo prenderci anche delle libertà, delle autonomie. Il teatro secondo me si sta spostando e delocalizzando dai sui spazi noti e chiusi per straripare come un fiume in piena. Infatti noi stiamo pensando a uno spettacolo da fare nei club, nelle discoteche. Questo nostro lavoro mi rende vivo, al di là dell’esperienza con Declan che è stata una ricchezza meravigliosa e una valida strada da cui partire. Il teatro che vorrei infine è sicuramente un teatro fatto di contaminazioni, le stesse che noi ragazzi percepiamo e verso le quali ci stiamo aprendo.
DAVID MEDEN: Vorrei che il teatro, anziché rinchiudersi su sé stesso in questioni intestine, riuscisse ad aprirsi e ad essere una forma d’arte sempre più ampia, che riesca a raggiungere uno spettro di pubblico sempre più elevato. Quello che mi piace dell’incontro con maestri come Donnellan o Ronconi è scoprire delle sensibilità diverse, ovvero uno sguardo sul mondo e sui rapporti umani. Vedere nelle maglie della realtà delle sfumature sempre più sottili. Vorrei che il teatro riuscisse, sia per chi lo fa che per chi lo vede, a non accontentarsi mai del pressapochismo. Un testo che ho scoperto per caso e che per me è un punto di riferimento è il testamento di Rodin. Lui lo ha scritto rivolgendosi a giovani scultori, ma credo sia valido anche per noi attori. Diceva che quando ti rapporti con un maestro non devi mai imitarlo, ma cercare di coglierne quella che è l’essenza. L’occhio che lui ha sulla natura e l’amore che ha per il mestiere che fa, son quelle le cose da catturare, alla fine. Poi dice di non confidare nell’ispirazione, l’ispirazione non esiste, tutto quello che devi fare è lavorare come un onesto operaio. Ecco, mi piacerebbe un teatro basato non tanto sulla fortuna effimera del talento che arriva, quanto su qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno, con la fatica di chi sta lì, prova e fa, più come un onesto operaio che come un artista improvvisato. Rodin diceva che alla fine il mondo si salva se tutti cominciano ad avere anime d’artista, perché l’artista ama quello che fa, non si accontenta e mette in ciò che fa una cura costante.
• Qual è il tesoro più prezioso che la scuola del Piccolo vi ha lasciato in dote?
MARTIN CHISHIMBA: La consapevolezza.
DAVID MEDEN: Un modo di guardare questo mestiere.
ALESSANDRO BANDINI: La scoperta dell’essere umano.