«L’amore è più freddo della morte» si intitola il primo lungometraggio di Rainer Werner Fassbinder datato 1969, per una visione della relazione amorosa come veicolo di soverchianti rapporti di potere, pronti a rovesciarsi nel loro opposto seguendo lo schema della dialettica hegeliana servo-padrone. È questo anche il nucleo de Le lacrime amare di Petra von Kant, drammaturgia per il teatro presto trasposta al cinema, nel 1972. La riporta sul palcoscenico la compagnia Nerval Teatro, con la regia di Maurizio Lupinelli e in scena le attrici Barbara Caviglia, Aura Ghezzi, Elisa Pol, Miriam Russo, Laura Serena, Annamaria Troisi.
Dopo il debutto dello scorso anno a Torino, e un percorso accidentato a causa della pandemia, lo spettacolo arriva al Teatro Palladium di Roma il 4 e 5 marzo e al Teatro Alighieri di Ravenna il 17 marzo.
Abbiamo posto al regista alcune domande per approfondire le scelte artistiche che sottostanno alla messa in scena e ripercorrere l’attività della compagnia negli ultimi anni, tra il premio Ubu per la danza e l’attività con attori e attrici con disabilità nell’ambito del Laboratorio permanente.
Avete definito questo testo come di natura «anfibia», pensato per il teatro ma poi tramutato presto in film, in quella che è la sua forma più conosciuta. Come vi siete mossi tra queste due traduzioni?
A differenza di altre volte ho scelto un gruppo di persone con cui fare un percorso, attraverso cui arrivare poi alla produzione. Mi sono preso un tempo lungo, anche perché quello per i testi di Fassbinder è un amore che parte da lontano. Le lacrime amare di Petra von Kant è bellissimo, sia come drammaturgia che come sceneggiatura, ma contiene alcune problematicità. Già Fassbinder stesso citava i melodrammi del regista Douglas Sirk, in cui i rapporti d’amore sono spesso rapporti di potere…con le attrici abbiamo svolto quindi un lavoro lungo, abbiamo rivisto tutta l’opera di Fassbinder e ci siamo interrogati su come interpretare oggi questa dinamica, perché è dietro l’angolo il rischio di cadere nel dramma, nell’esagerazione, nella provocazione. Alcune messe in scena in Italia in passato hanno toccato quei livelli. I primi a portarlo da noi furono Teatro dell’Elfo, mi ricordo di averlo visto intorno all’89.
Ho chiesto quindi alle attrici di essere come dei fantasmi, delle semplici figure nello spazio, perché le parole sono così dense e forti che non bisogna sovraccaricare l’interpretazione. C’è stato tutto un lavoro sulla misura, sulle diagonali, sugli sguardi, tenendo in considerazione l’aspetto cinematografico, infatti non c’è mai un realismo vero e proprio. Il film è ambientato in questa stanza molto piccola, ma basta un movimento di macchina per farla sprofondare. Abbiamo lavorato su qualcosa di simile anche noi, la scena ricorda un set e le attrici non sono praticamente mai in quarta parete, è come un balletto continuo. Una forma cara a Fassbinder, che contiene l’artificio, il gioco e il dramma. Nella pellicola ci sono dei manichini ma qui invece è come se i manichini fossero le figure in scena, c’è un distanziamento che genera ancor di più il drammatico.
Che visione hai sul complesso rapporto tra cinema e teatro?
Amo molto la drammaturgia tedesca, ho lavorato su tanti autori in passato: Peter Weiss, Werner Schwab, Georg Büchner, Herbert Achternbusch. Quest’ultimo era uno sceneggiatore – ha sceneggiato Cuore di pietra di Herzog. Alcune di queste figure, come Herzog, Fassbinder, Wenders, hanno avuto a che fare con un linguaggio che andava oltre la scena teatrale. Per me è stato quindi naturale, in qualche modo, ma sono molto distante dalle operazioni che prevedono telecamere o proiezioni all’interno dello spettacolo. Per me il punto è come si lavora con gli attori, col movimento e con le luci all’interno dello spazio scenico. Ragionando in questo modo credo che si sia più fedeli al cinema.
In questo caso il film ci ha sicuramente aiutato, infatti a differenza della pièce i personaggi sono sempre tutti in scena, Marlene poi è una figura importantissima, è come un faro, un perno o una telecamera, è tutto sotto il suo controllo. C’è da dire poi che il tedesco è una lingua bellissima ma che quando viene tradotta in italiano può suonare macchinosa, per cui abbiamo cercato una via di mezzo prendendo spunto anche dai sottotitoli italiani del film, realizzati evidentemente da qualcuno che conosceva molto bene la lingua e l’opera di Fassbinder.
Il vostro percorso come compagnia è stratificato, operate in più ambiti come testimonia l’Ubu per la danza vinto nel 2021 per lo spettacolo Doppelgänger. Come è nato quel lavoro?
Parallelamente alle nostre produzioni, dal 2006 portiamo avanti un percorso con un gruppo di 20-25 attori e attrici con disabilità, lo abbiamo chiamato «Laboratorio permanente» e si svolge ad Armunia, a Castiglioncello, dove Nerval Teatro è residente. A volte i due segmenti di attività si incontrano, già in Appassionatamente, uno spettacolo del 2010, c’erano in scena attori con e senza disabilità. Realizziamo dei progetti quando ci sentiamo pronti, ad esempio abbiamo lavorato per anni su Beckett e abbiamo poi messo in scena Sinfonia Beckettiana. Da tre anni stiamo lavorando invece sul Pinocchio.
Il gruppo ha la fortuna di poter incontrare e imparare dagli altri artisti residenti a Castiglioncello, noi li abbiamo chiamati «attraversamenti»: tra gli altri hanno lavorato con Silvia Gribaudi, Roberto Latini, Paola Bianchi, Sotterraneo, a breve con Chiara Bersani. In questo contesto abbiamo notato che uno dei partecipanti al laboratorio, Francesco Mastrocinque, aveva il dono del movimento. Io conoscevo da tempo Abbondanza/Bertoni e gli ho chiesto quindi se avessero voglia di realizzare un lavoro insieme. A questo punto è iniziato un percorso che è durato un anno fino alla messa in scena Doppelgänger, in cui è protagonista un danzatore professionista, Filippo Porro, insieme a Francesco Mastrocinque.
Rispetto al laboratorio quest’anno c’è una novità, lo abbiamo portiamo anche a Ravenna, anche perché è vero che la compagnia è toscana ma io ed Elisa Pol viviamo a Ravenna. Ci stanno poi seguendo due studiosi, Marco Menin e Gerardo Guccini, per tenere un memorandum che racconterà fase per fase sia le attività a Castiglioncello che quelle a Ravenna. Qui stiamo pensando, per l’anno prossimo, di realizzare un Marat-Sade di Peter Weiss coinvolgendo sia i partecipanti al Laboratorio permanente sia venti allievi della Non-scuola del Teatro delle Albe. Lo dico un po’ a bassa voce, ma è come tornare a casa.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.