Tiresias o come ascoltare le ferite dei fantasmi

Feb 21, 2022

Se un’immagine di supplizio mi cade sotto gli occhi, posso distogliermi da essa spaventato. Ma se la guardo, allora sono fuori di me… La vista, orribile, di un supplizio apre la sfera in cui si richiudeva (si limitava) la mia particolarità personale, la apre con violenza, la lacera.

L’esperienza interiore, Georges Bataille

Nel 1954 Georges Bataille termina la prima parte di quell’opera che intitolerà Summa Atheologica, una serie di frammenti di pensiero, guida spirituale che inizia appunto con la descrizione di questa esperienza interiore che l’autore descrive come una uscita da sé. Per compierla, dice, bisogna rapportarsi con un oggetto esterno, concentrarsi su un punto, che il più delle volte coincide con un corpo e il corpo, continua il filosofo, da un momento all’altro può infiammarsi e urlare.
Tiresia, il profeta cieco della tradizione, viene trasformato a più riprese durante la sua lunga esistenza, per aver assistito e agito su qualcosa che andava oltre la sua particolarità personale: lacera qualcosa che doveva rimanere unito e da questa atomizzazione inizia la sua metamorfosi in tante emanazioni diverse dello stesso personaggio.

Hold your own, poemetto di Kae Tempest, artista non-binary fra le voci più brillanti e rappresentative dell’universo letterario britannico contemporaneo, racconta la storia dell’indovino; trasporta la sua vicenda in un microcosmo contemporaneo attraverso un esperimento poetico sulla sfera del mito (già compiuto con la raccolta Brand New Ancients nel 2013) in cui l’immaginario classico e la contemporaneità aderiscono attraverso uno stile centrifugo e figurativo. 
Mettere in scena le magnifiche sorti e progressive di un personaggio che evolve e torna indietro continuamente sembra quasi una scelta programmatica, in tempi in cui ci si chiede continuamente come si sarà poi, si guarda alla vita di prima e di dopo come fuori da sé, detta con Bataille.

Come si racconta dunque questa parabola di metamorfosi? E in cosa risiede la forza dirompente del testo di Tempest che lo rende il veicolo più adatto per parlare di trasformazione?
Il 10 luglio 2021 Kae Tempest sale sul palco del Teatro Goldoni di Venezia, all’interno della Biennale Teatro, e inizia a decantare (nessun altro verbo sembra appropriato) The book of Traps and lessons, recital profondamente autobiografico per voce sola, prima dell’ingresso in sala agli spettatori viene consegnato il corrispettivo di un vero e proprio libretto d’opera su cui il pubblico avrebbe potuto seguire il testo

All’inizio della sua performance però Tempest invita il pubblico a non lasciarsi condizionare dal testo, a lasciarsi guidare dal suono delle parole, facendosi attivare dal ritmo più che dal significato. Durante il dispiegarsi della performance la richiesta viene naturalmente esaudita: se infatti inizialmente le teste del pubblico sono nervosamente divise fra fogli e palcoscenico in un movimento ondulatorio e meccanico, dopo la prima metà seguire il libretto diventa superfluo, i segni sono distaccati dal loro significato immediato e trasportati in una dimensione astratta, la forza acustica e arbitraria del segno prevale in maniera schiacciante sulla ricerca di significato immediata.

Questa veicolazione altra della voce è al centro anche in Tiresias di Giorgina Pi, in cui l’architettura sonora è protagonista. Nonostante infatti in scena ci sia un attore solo, la sua persona fisica è circondata di fantasmi e proiezioni del personaggio, che si propagano attraverso la sua voce sovrapposta a suoni aggiunti e incatenati fra loro.
Ogni elemento acustico crea una coerenza interna propria. Lo stesso Gabriele Portoghese, interprete di Tiresia nello spettacolo, riscrive una sua grammatica interpretativa, rallentando ogni consonante fricativa, riducendone la chiusura e lasciando uno spazio dentro le parole, che cambiano di senso, diventano accoglienti, umane e arbitrarie, sprigionano emanazioni altre rispetto al senso consueto, costruite nel momento in cui vengono pronunciate. Lo spettatore è costretto a uno sforzo regressivo, intendere la recitazione di poesia come suono prima di tutto.

La regista Chiara Guidi nel suo recente libro La voce in una foresta di immagini invisibili, riflette in questo senso: «Quale potenza può avere una lingua non ancora affacciata sul senso del discorso? Se è vero che il verso di una scimmia, il canto di un uccello, il suono inudibile di un pipistrello mi commuovono come lo può fare una poesia, come questo avviene?»
Le risponde ante-litteram Aristotele nel De Anima dicendo che non ogni suono emesso da un animale è voce, ma solo quello che sia accompagnato da qualche fantasma, perché la voce è un suono significativo. Questo tipo di architettura sonora, attivato dalle parole di Tempest, come dall’impianto creato dallo spettacolo di Giorgina Pi trova il suo significato proprio nella presenza ectoplasmatica di diverse entità, portatrici di linguaggi altri.Per noi moderni abituati a mettere al centro l’aspetto razionale dei processi conoscitivi di produzione di linguaggio, il potere di un’immagine interiore, difficilmente traducibile in parole pratiche, passa in secondo piano, non è dunque di facile comprensione l’ossessione aristotelica di materializzare questo universo fantasmatico.
Hold your own è un testo che fugge qualsiasi intento didascalico o pedagogico, Tiresia è un personaggio umanissimo, che però nel finale, in quello che sembra un epitaffio preventivo, diventa un modello di lungimiranza fragile e mutevole. Come dice Tempest, mentre ci costruiamo online resta luminoso e terrificante, fuggendo la corsa all’autodeterminazione contemporanea in un’accettazione consapevole e pacifica della mutevolezza dei fantasmi che ci abitano. 

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