The Book of The New Words. Intervista a Simone Corso e Jovana Malinarić

Giu 25, 2025

Quando inizia davvero una guerra? È da questa domanda, semplice solo in apparenza, che prende avvio The Book of The New Words, il progetto teatrale di also.known.as. a cura di Simone Corso e Jovana Malinarić. Una domanda che non cerca una risposta univoca, ma che si apre a una molteplicità di voci, lingue, esperienze. A partire dalla scrittura drammaturgica e passando attraverso una serie di residenze internazionali – da Trieste a Sarajevo, dalla Sicilia a Zagabria – il lavoro si costruisce come un processo vivo, che attraversa territori e corpi, e si nutre dell’incontro.

In questa intervista, Corso e Malinarić raccontano la genesi e l’evoluzione del progetto, riflettendo su come il linguaggio – nelle sue forme concrete e simboliche – possa essere al tempo stesso trincea e possibilità.


Il progetto The Book of The New Words nasce da una domanda molto forte e semplice: “Quando inizia davvero una guerra?”. Come è maturata dentro di te questa domanda e cosa vi ha spinto a cercare una risposta attraverso il teatro?

Simone Corso: Quello che posso ricavare dalla memoria è che l’idea di scrivere un testo che provasse a sprofondare nel macro tema della guerra mi è venuta in mente nel periodo del Covid, della quarantena. Le prime parole del testo, infatti, sono apparse sulla pagina nella primavera del 2021. Penso che quel periodo (che per certi versi abbiamo tutti tentato di rimuovere dal racconto odierno delle nostre quotidianità) abbia abbeverato i semi delle forti conflittualità che oggi infestano il nostro mondo. In quei mesi, il linguaggio di guerra – che da sempre conforma i nostri dialoghi – ha trovato “spazio fisico” nelle nostre relazioni, si è concretizzato diventando la nostra realtà: “la lotta contro la malattia” era qualcosa che tutti siamo stati chiamati a imbracciare; “la distanza sociale” ci faceva scavare delle trincee tra noi e qualsiasi altro essere umano potesse portare il virus addosso; “il coprifuoco” ci ha rinchiuso tra le quattro mura delle nostre case covando timori per tutto quello che stava al di là di quelle; il “conto delle vittime” come quello di un bombardamento; per non parlare dell’esercito arrivato nelle città e delle camionette mimetiche che circolavano per le strade facendo rispettare le nuove disposizioni del governo. Questa trasformazione del reale modellata dal linguaggio mi ha spinto a riflettere proprio sul momento in cui “una guerra può scoppiare”. Così ho iniziato un lavoro di scavo documentario per provare a trovare le molte risposte a quella stessa domanda; avvicinando la guerra più recente che avevamo avuto in Europa fino a quel momento (quella dell’ex Jugoslavia) e quella più prossima che muoveva moltissimi esseri umani verso i confini del vecchio continente (quella civile siriana). Da questi documenti ho provato a far emergere dei personaggi che attraverso il dialogo potessero guidarci nello scoprire quello che ancora si può dire sulla guerra. Persino quello che si può dire oltre la guerra, oltre ogni guerra. In questo, credo, si possa ritrovare anche la risposta alla seconda parte della domanda. Il teatro è il luogo del dialogo e delle immaginazioni, delle possibilità altre; è “l’arte vivente” che attraverso un certo uso del linguaggio si fa “vita in atto”. Il teatro, in questo senso, è proprio l’antitesi della guerra.


Il libro delle parole nuove è un testo che attraversa luoghi, lingue e tempi. Come hai lavorato per rendere drammaturgicamente coerente questo “andirivieni”? Quali sono state le sfide principali nella scrittura?

Simone Corso: Mi interessava lavorare su una forma di racconto teatrale che provasse a forzare le consuetudini. Questa scelta non si propone come un semplice esercizio stilistico, ma penso sia radicalmente ancorata al contenuto del testo. Assecondando l’idea che la lingua e i linguaggi modellino le nostre realtà e, dall’altro lato, pensando alla pièce come una delle possibili risposte alla domanda che funge da grimaldello drammaturgico, mi interessava provare ad hackerare le unità di tempo, azione e luogo unitamente alla comprensione deterministica della realtà (causa-effetto). Mi interessava provare a uscire da questo dualismo, dall’idea di azione/reazione; perché penso che tra l’uno e l’altro sia piuttosto facile trovare un qualunque casus belli. In qualche modo, quindi, mi interessava creare una specie di “nuova coerenza” drammaturgica. Per farlo ho preso ancora la lingua come campo di indagine: la battuta di un personaggio diviene quella di un altro in un andirivieni tra situazioni lontane nel tempo, nello spazio e nell’azione. In qualche modo, le parole di uno/a vengono prese in prestito da un altro/a per continuare a raccontare la sua storia. 
Se si sono presentate delle sfide, nella scrittura, posso dire che le più dure sono state quelle che mi si son poste prima di mettere parole sulla pagina; ovvero nell’imparare a destrutturare i miei stessi canoni, nel mettermi fuori da una possibile comfort-zone autorale, nel provare a sabotare me stesso in quanto scrittore, prima di tutto il resto.


Il progetto The Book of the New Words si è sviluppato in diverse tappe internazionali, con artisti provenienti da contesti geopolitici e culturali differenti. In che modo questa dimensione transnazionale ha trasformato il lavoro sul testo e sulla scena?

Jovana Malinarić: Le tappe internazionali sono la macro drammaturgia di questo progetto. Di conseguenza le intendiamo come una sua parte organica, e non una contingenza esterna che “trasforma” il testo o la scena. Il testo, la scena, i performer provenienti dalla Croazia, dalla Bosnia e dalla Siria, sono il nostro tentativo di rispondere a quella domanda che ha mobilizzato il processo creativo. Il nostro lavoro non è stato sul testo, ma con il testo, e dunque rendere il processo creativo transnazionale era drammaturgicamente correlato alla questione che la scrittura di Simone interrogava: chi sta parlando, quali corpi abitano la scena, quali lingue creano relazioni con il pubblico, e dunque quali aspetti invisibili al testo, rendiamo visibili e udibili sul palcoscenico. Lavorare con i performer di provenienza e background molto diversi fra loro ci ha portato a porre una particolare attenzione alle possibilità creative del dialogo, a mettersi in ascolto ancora prima di proporre una direzione, a sviluppare insieme un linguaggio che possa restituire al pubblico un’esperienza che decentri le loro abitudini di sguardo e di ascolto.

Simone Corso: Lavorando a Trieste, ospiti in residenza del Teatro La Contrada, nell’agosto 2023, abbiamo realizzato che il lavoro sul testo era tutt’altro che finito, ma che anzi, partiva proprio in quel momento, alla fine di quella residenza. Abitare per 15 giorni in un territorio di confine come quello triestino e far abitare con noi la prima versione di quel testo insieme ad alcune idee di sviluppo, lasciandosi attraversare dalle sollecitazioni che sono nate dagli incontri di quei giorni, ci ha portato a credere che se volevamo “fare” quello che il testo soltanto racconta, dovevamo aprire il nostro processo di creazione ad altri interventi e persone. Abbiamo scelto di non utilizzare il testo come un qualsiasi copione da portare in scena, ma come documento esso stesso, un elemento da questionare e “riattivare”. Solo così, abbiamo convenuto, lo si poteva far vivere sul palco, solo in quanto testimonianza di diverse realtà, oltre che di un modo di intenderle. Solo così, la performance, una volta debuttata, poteva esprimere tutto il suo potenziale artistico e politico. Dopo la seconda residenza, a Sarajevo, e grazie al lavoro che abbiamo portato avanti in quei giorni con la direttrice Maja Salkić e l’attrice Selma Alispahić, siamo arrivati a concepire appieno quest’aspetto. Selma porta avanti un lavoro sul suono della lingua che prende spunto dal libro The Right to Speak di Patsy Rodenburg. Lavorare con lei ci ha spinto a porre l’attenzione “sull’immagine della lingua”, su come ogni lingua porti con sé anche una specifica geografia del corpo. Per chiarire meglio quest’aspetto, Selma diceva, ad esempio, che il bosniaco sia una “lingua dal cuore spezzato”, che quindi risuona dal petto, mentre l’inglese-americano arriva dalla testa, in quanto una lingua che comanda e decide. Il suono di ogni lingua si è costruito sulla storia e la topografia di un determinato popolo. Quest’aspetto ha spinto ancora oltre la nostra ricerca. Il testo così ha perso quell’idea di verisimiglianza linguistica che ancora ci portavamo dietro, siamo arrivati a scartare la possibilità di utilizzare l’inglese quale lingua di comprensione comune tra i personaggi perché, essendo una possibilità-altra quella che portiamo in scena, ognuno di loro può parlare la propria lingua madre e comprendere quella dell’altro al contempo: la comprensione va oltre la lingua, oltre il conflitto primigenio della diversità linguistica, per creare una nuova geografia dell’umano. 


In The Book of the New Words i sovratitoli non sono solo un supporto alla comprensione, ma diventano parte viva della scena. Come nasce questa idea e che ruolo ha il linguaggio nel dispositivo scenico che state costruendo?

J: Il nostro collaboratore Wael Kadour, con cui curiamo insieme la regia, durante uno dei primi incontri della residenza in Sicilia, mentre esploravamo il materiale, ha detto: “english is just a tool”, intendendo che la lingua che parlavamo tra di noi fosse soltanto lo strumento per poterci comprendere. Mi ha fatto pensare a quanto di noi ci sia nelle lingue che parliamo, a quanto di noi riusciamo a versare nel contenitore-italiano o inglese e che, viceversa, non possiamo versare nel contenitore-siriano o montenegrino. E, seguendo questa metafora, mi chiedo dove va questo liquido quando lo travasiamo da un contenitore all’altro? Forse non riesce a riempire perfettamente quell’altra misura; forse, inevitabilmente, una parte trabocca fuori. E forse proprio in quel liquido che si versa in molte direzioni proprio perché non ha spazio, ci sono cose che ci riguardano e che le lingue non riescono e non devono esprimere. Ecco, credo che da qui nasca l’idea di un lavoro creativo con il dispositivo-sovratitolo: cercando di spingere la sua funzione oltre il suo essere strumento verso l’essere contenitore, qualcosa che ci contiene, che ci accoglie. Per dare concretezza a queste idee abbiamo avviato la collaborazione con Yelo Production di Zagabria, che lavora con il multimediale, il sonoro e il virtuale nell’innescare nuove possibilità di incontro con i pubblici.

Il vostro lavoro, insieme a quello di also.known.as., sembra sempre muoversi su un confine tra finzione e documento, tra invenzione e realtà. Come definireste oggi il vostro modo di fare teatro?

S: Mi piacerebbe iniziare a rispondere a questa domanda riprendendo la definizione più universalmente condivisa dell’espressione “also known as”: a phrase used to indicate a different name or alias for a person, place, or thing. Abbiamo scelto questo nome proprio per provare a definire la nostra pratica come qualcosa di fluido, qualcosa che sia a metà tra i due o più sensi. Il nostro modo di fare teatro quindi, trova nell’incontro il proprio radicamento: incontro tra pratiche o discipline,  incontro tra artisti diversi; cerchiamo infatti di instaurare collaborazioni di volta in volta sui diversi progetti che vogliamo portare avanti. E non parlo solo di performer, ma anche di co-creatori. È certamente più faticoso, ma indubbiamente anche molto più arricchente da un punto di vista artistico. Parallelamente è difficile anche provare a identificare “un genere” per definire il nostro modo di fare teatro. E penso, in realtà, che anche questo sia piuttosto arricchente. Riuscire a non scletorizzarsi in una forma o uno stile penso sia il miglior modo per tenere viva la ricerca che, sì, questo posso dirlo, affonda sempre in un’indagine socio-antropologica dell’esistente.

J: Io sono del Montenegro, Simone è italiano. Il mio modo di intendere la nostra pratica artistica è questa negoziazione tra le modalità in cui una certa cultura si inscrive sui nostri corpi, sui modi di pensare, di comunicare, di sentire. In un momento in cui stavamo a Malmö per il mio lavoro all’accademia teatrale, abbiamo realizzato che continuare a nutrire il movimento, che sia esso geografico o relazionale (le diverse collaborazioni), o linguistico, è il nostro modo di intendere e praticare teatro. Che l’incontro non sia solo tra il prodotto-spettacolo e il pubblico, ma anche nel processo di divenire, trasformativo per noi quanto, potenzialmente, per gli altri.


Dopo le residenze tra Trieste, Sarajevo, la Sicilia e a breve Zagabria, quali sono i prossimi passi per il progetto? E che tipo di dialogo vorreste che si innescasse con il pubblico a cui lo presenterete?

S: Completato il lavoro a Zagabria, realizzato con il supporto del programma Movin’Up Performing Arts 24/25, ci aspetta la fase di messa in prova con tutto il gruppo di attori e attrici. Insieme a Sardegna Teatro e al Sarajevo War Theatre stiamo valutando come meglio realizzare questa parte, anche da un punto di vista produttivo. L’ambizione è quella di debuttare nella seconda metà del 2026, dopo un lavoro di ricerca durato tre anni e che è stato inevitabilmente influenzato da tutto quello che è successo e sta succedendo nel mondo sin da quando si è cominciato. Quando inizia davvero una guerra? ci sembra una domanda che ha ancora molto da esigere da ognuno di noi. 

J: In continuità con quello che dicevo prima vorremo prendere del tempo al pubblico per tentare di riflettere insieme sul nostro sguardo verso l’altro, sul nostro ascolto verso l’altro, sulle implicazioni di ciascuno di noi nel discorso che riguarda la guerra. Quando dico guerra non intendo soltanto la sua fase ultima, lo scontro armato, ma le fasi che la precedono e la seguono, e dunque intendo le modalità attraverso cui invisibilizziamo e oggettifichiamo l’altro. Vorrei dunque che il dialogo con il pubblico fosse all’esatto opposto insomma, che possa innescare un rapporto differente, un prendersi cura, ecco. 

also.known.as. è un progetto di ricerca artistica a cura di Simone Corso e Jovana Malinarić che, attraverso pratiche collaborative, dà forma a performance, spettacoli teatrali, curatele ed eventi partecipati che esplorano le modalità con cui identità, narrazioni e strutture di potere prendono corpo nel presente. Negli anni ha collaborato con diversi enti di produzione ed è risultato vincitore di diversi riconoscimenti sia in Italia che all’estero.

“IL PROGETTO The Book of The New Words È REALIZZATO CON IL
SOSTEGNO DEL PROGRAMMA MOVIN’UP SPETTACOLO-PERFORMING ARTS 2024/2025” MOVIN’UP SPETTACOLO – PERFORMING ARTS 2024/2025
A cura di MIC Ministero della Cultura – Direzione Generale Spettacolo e GAI – Associazione per il Circuito dei Giovani Artisti Italiani insieme con Regione Puglia – Puglia Culture e con GA/ER – Associazione Giovani Artisti dell’Emilia Romagna

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