Articolo a cura di Matteo Polimanti
Matteo Spiazzi avrebbe dovuto parlarmi di Stage4Ukraine, dell’esperienza condotta finora con gli attori e le attrici ucraini accolti un anno fa in Italia in seguito allo scoppio della guerra, dell’attuale stadio operativo del progetto e delle sue prospettive future. Mi aspettavo un’intervista facile, dalle risposte nitide, limpide, senza bisogno di spiegazioni o ragionamenti troppo complessi. Del resto, c’è davvero bisogno di indagare le cause e le ragioni di un simile progetto? Sarà semmai più interessante misurarne gli esiti. La ragione è talmente immediata che quasi ne si perde il senso a forza di sentirla e risentirla: Stage4Ukraine nasce per permettere a più di 50 giovani studenti di recitazione ucraini, dai 17 ai 25 anni, di continuare il proprio percorso formativo e professionale in Italia. Facile, no?
Ma in questa facilissima immediatezza ho avvertito una misteriosa presenza: il volto nascosto di un’idea, che sapevo essere lì, sotto il naso, ma che ancora non riuscivo a toccare con mano. Decido allora di esplorare, di perdere, smarrire – più o meno temporaneamente – il senso, alla ricerca di un’idea scandalosamente vicina.
Proprio quest’idea – l’ho realizzato soltanto a posteriori – ha fatto sì che la conversazione con Matteo Spiazzi, regista veronese da anni ormai attivo nel Nord-Est europeo, abbia virato verso considerazioni molto più ampie di una semplice cronaca delle attività di Stage4Ukraine; considerazioni riguardanti il meccanismo e le dinamiche produttive del sistema teatrale ucraino, in tempi di pace, e di quello che Spiazzi definisce il non-sistema italiano. Ne è uscito un articolo che più che un’intervista vuole definirsi un’indiscreta testimonianza, il cui fine ultimo non è stato tanto quello di rendere onore al regista italiano e alla sua più che lodevole iniziativa, ma di dare allo stesso la sacrosanta opportunità di raccontare cosa non ha funzionato e perché. Per chiarire, a più di un anno dall’inizio, che ciò che non si è fatto non lo si è potuto fare, pur volendolo. In sintesi, un j’accuse, come piace a noi teatranti.
Spiazzi mi parla dalla città di Fiume, dove è ora a lavoro su un suo nuovo spettacolo di teatro d’oggetti. Dopo diversi anni dedicati al lavoro sulla maschera, ora vuole esplorare questa frontiera per lui nuova, dove gli oggetti prendono anima come fossero corpi. Mi parla brevemente della sua storia, degli anni di formazione come attore all’Accademia Nico Pepe di Udine, e dei successivi workshop internazionali che l’hanno portato, grazie a una serie di relazioni costruite col tempo, a cominciare a lavorare all’estero, specie in molti dei paesi ex-socialisti: diverse le produzioni realizzate negli anni in Slovenia, Bielorussia, Croazia, e ancora Estonia, Lituania, e in Ucraina, dove realizza spettacoli con maschera intera per i teatri di Kiev. Qui trova un clima di totale apertura e cordialità, soprattutto a teatro, che gli permette di integrarsi, lavorando anche come insegnante oltre che come regista.
Spiazzi si sofferma subito su quest’ aspetto a suo dire cruciale: il sistema teatrale ucraino è completamente diverso da quello italiano, per il semplice fatto che nel primo si lavora bene, e tanto. Si dà cioè un senso e un valore a ciò che si crea, conservandolo. Spiega Spiazzi:
«In Ucraina accade una cosa che da noi in Italia appare come pura utopia: il tuo spettacolo rimane in repertorio. Appare cioè nei cartelloni stagionali di molti teatri, nazionali e non, per diversi anni, ed è una gran soddisfazione. Non tanto per il proprio ego di regista o da un punto di vista economico – parliamoci chiaro, si guadagna meno che in Italia – ma più per una questione etica di fondo. Una simile dinamica produttiva richiede infatti una maggiore familiarità degli attori e delle attrici con l’istituzione teatrale di riferimento, un loro maggiore radicamento sul territorio, il quale ha delle inevitabili ricadute di natura sindacale sulla professione: molto spesso si va in scena con contratto a tempo indeterminato. Non è tutto: anche il pubblico frequenta il proprio teatro cittadino a tempo indeterminato. Ogni sera c’è sempre qualcosa di nuovo da vedere, un nuovo pretesto per abitare quella grande arena pubblica che chiamiamo platea. E a presentarsi sono in molti, incluse le famigerate nuove generazioni. Se uno spettacolo non va, dopo un anno circa viene eliminato dalla programmazione, molto semplicemente. Con questa routine ogni produzione gode di due repliche al mese».
«Delle compagnie stabili! – esclamo sbalordito – Dunque esistono davvero!». Cerco però di contenere lo stupore e domandarmi se un tale meccanismo sia davvero efficiente come sembri: mi chiedo cioè cosa possa accadere qualora si sparga la voce in città che uno spettacolo sia proprio brutto, e traggo la parziale conclusione che la compagnia, in scena ogni sera, debba conoscere proprio bene il suo pubblico, da riuscire a intrattenerlo senza (frequenti) delusioni. Me ne convinco ulteriormente non appena Spiazzi mi regala qualche aneddoto di scena: mi racconta di come spesso accade che uno o più spettatori si alzino a fine spettacolo, con applausi rigorosamente ancora in corso, per portare ai teatranti un mazzo di fiori, un tramezzino, nel migliore dei casi una bella birra fresca!
Chiedo a questo punto come sia stato per i ragazzi trasferitisi in Italia il passaggio da una filiera culturale all’altra.
«Si sono trovati a passare da un sistema a un non-sistema. In Italia non c’è un sistema teatrale degno di questo nome, non da un punto di vista strutturale. Prendendo in analisi i principali teatri pubblici nazionali, non si può fare a meno di notare che a ognuno di questi non corrisponde una compagnia situata in loco. Ad essere presenti sul territorio sono invece le amministrazioni, fin troppo concentrate a rincorrere bandi ministeriali o regionali, a doverne soddisfare questo o quel requisito, da perdere di vista la, a mio avviso, irriducibile necessità di comunicare con il pubblico, o anche banalmente di far cassa al botteghino.
I miei ragazzi provengono da accademie ognuna con un proprio teatro denominato “teatro nazionale accademico”, ma di accademico c’è ben poco, se non il fatto che ad andare in scena sono gli stessi studenti, per l’appunto. Alcuni di loro addirittura possono cominciare a lavorare per il teatro ancora prima di finire il proprio percorso di studi. Questo per dire che c’è una connessione col mondo del lavoro che in Italia appare ancora parecchio distante. I nostri giovani attori vengono invece trattati come mera manovalanza dalle grandi produzioni, e in generale possiamo affermare che in Italia c’è ancora molto da fare per garantire più diritti, e quindi più rispetto e dignità, ai lavoratori dello spettacolo. I giovani ucraini si aspettavano di trovare in Italia quella stabilità sistemica di cui la guerra li aveva privati, ma hanno trovato ben altro.
Certo, anche il lato umano ha avuto il suo peso nel processo di integrazione: parliamo comunque di persone che si sono viste cancellare il proprio progetto di vita, la propria idea di futuro, nel giro di poche ore. Sono arrivati in Italia psicologicamente e umanamente provati, e per molti di loro – ricordiamolo, giovanissimi, alcuni nemmeno maggiorenni, dato che in Ucraina si entra in Accademia a 17 anni – questo ha significato non riuscire ad adeguarsi come io e il mio team di collaboratori avremmo voluto.
Una grande mano ce l’hanno data le Accademie e le Scuole di Teatro: abbiamo ricevuto sostegno dalla Nico Pepe (Udine), dalla Galante Garrone (Bologna), dal Centro Sperimentale di Cinema (Roma), dalla Paolo Grassi (Milano), dal Teatro Nazionale di Genova e dal Teatro Stabile del Veneto. Ognuna di queste è riuscita a prendere alcuni dei nostri ragazzi permettendo loro di continuare i propri studi. Molti altri ahimè sono tuttora senza impiego, altri ancora col tempo hanno sentito l’esigenza di tornare a casa. Significativo è stato il contributo del mio amico regista bolognese Enrico Baraldi, che ha coinvolto tre nostre attrici nella, già avviata, produzione del Teatro Metastasio di Prato Non Tre Sorelle / НЕ ТРИ СЕСТРИ, che ha goduto di una buona distribuzione nella stagione trascorsa, garantendo anche maggiore fama al progetto. Così come tre sono stati gli attori scritturati dal Teatro Stabile del Veneto nella mia produzione dello scorso settembre L’Augellin Belverde di Gozzi.
All’inizio le risorse non sono mancate, complice anche il fortissimo interesse dei media italiani, che non appena hanno saputo che al momento dello scoppio della guerra un regista italiano si trovava a Kiev, a lavoro su un suo nuovo debutto, si sono avventati sul sottoscritto con vorace apprensione. Ho declinato molte offerte indecenti, per non cacciare me e le persone di cui mi facevo portavoce in episodi di sciacallaggio mediatico, ma ne ho altresì accettate delle altre, nell’interesse di sostenere il progetto e diffonderne la mission e gli obiettivi. Dopo alcuni mesi, tuttavia, il caso ucraino è passato di moda, e l’indifferenza ha cominciato a diffondersi tra la gente. Oggi ci ricordiamo della guerra solo quando sale il prezzo della benzina, o quando alla stazione di Udine passa un treno carico di carri armati. Questo ha reso molto difficile l’effettiva implementazione del progetto, in particolare la realizzazione della nostra agognata compagnia internazionale».
Spiazzi allude al cosiddetto #Stage2 del progetto, per cui si è cercato di convincere e coinvolgere quante più realtà possibili nel progetto di dar vita a una compagnia teatrale di attori sia ucraini che italiani, dal respiro europeo, che desse corpo e voce alla cultura ucraina e continuasse a lavorare anche dopo la fine del conflitto. Quasi nessuno ha tuttavia dimostrato interesse a sostenere un simile progetto, a investire energie e risorse in un’iniziativa dalle grandi potenzialità. Il regista continua a raccontarmi di come sia mancata l’attenzione principalmente da parte delle istituzioni teatrali del nostro Paese, in primis dai teatri nazionali, e di come molte siano state le porte sbattute in faccia, anche senza troppi risentimenti.
Qualcosa è stato fatto: Le Troiane, spettacolo realizzato con pochissime risorse – ad eccezione di quelle umane -, dove Spiazzi ha utilizzato la tragedia euripidea per innestarvi le preoccupazioni, i sentimenti, i pensieri dei suoi giovani attori ucraini arrivati in Italia, il diritto di restare, la voglia di tornare. Lo spettacolo debutta nell’estate 2022 e viene successivamente mostrato in molte scuole e istituti superiori italiani, e qualche teatro locale. Ma di una distribuzione di più ampia portata nazionale neanche l’ombra. Spiazzi mi racconta l’assurdo – naturalmente non facciamo nomi:
«Una delle risposte ricevute che più mi hanno fatto imbestialire è stata la seguente: “Non abbiamo bisogno di una nuova produzione”. Come se Le Troiane fosse paragonabile a una produzione fra tante che trattano di un tema libero, a piacere, come non si portasse dietro un peso e un significato specifici, come se quel che raccontano gli attori sul palco non l’abbiano davvero provato sulla propria pelle. È senza dubbio lo spettacolo per cui, più di tutti quelli che ho diretto finora, ho sentito la forte necessità di dover mandare in scena i miei attori, e paradossalmente quello con cui ci son riuscito di meno. Dopo svariati tentativi, sono arrivato all’amara conclusione che il teatro italiano ha un serio problema, di cui dovremmo tutti interessarci al più presto: è totalmente scollegato dalla realtà in cui viviamo, dai fatti che ci circondano. Il nostro teatro soffre di una cronica autoreferenzialità, che ogni giorno lo lascia sprofondare sempre più nell’indifferenza dei più, rendendolo vittima di una perdita di interesse che parte anzitutto dal pubblico, che infatti scarseggia nelle sale. Se guardiamo ai cartelloni dei nostri teatri troviamo il vuoto. Se si presenta ai nostri teatri uno spettacolo con una necessità forte, o hai già un nome affermato e allora hai la strada aperta, altrimenti non c’è nulla da fare. In Italia la finalità dei teatri cosiddetti “pubblici” non è pubblica affatto.
Altrove le cose vanno diversamente. Citerò uno degli esempi più virtuosi: allo Schaubühne di Berlino, diretto da Thomas Ostermeier, attualmente ci sono in repertorio nuove drammaturgie che parlano dei drammi dell’oggi, tra cui l’invasione russa dell’Ucraina. È un teatro che ha ancora una forte e sentita funzione sociale, una sua intrinseca necessità, la stessa che ho avvertito quand’ero a Kiev, ma anche nel dirigere Le Troiane, e che avrà sicuramente percepito Baraldi in Non Tre Sorelle. In entrambi gli spettacoli si è dato vita a qualcosa a metà via fra teatro e testimonianza: forse né l’una né l’altra cosa completamente, un po’ entrambe allo stesso tempo».
Mentre Spiazzi pronuncia queste parole prendo al volo un appunto sul mio taccuino: scrivo “idea-titolo: testimoniare il teatro”. Perché è esattamente questo quel che hanno fatto i ragazzi de Le Troiane: non hanno, attraverso il teatro, portato al pubblico la loro testimonianza, bensì hanno donato quest’ultima al Teatro (italiano); come una possibilità di redenzione. Hanno, insomma, testimoniato il teatro, inteso come pratica politica di incontro e rivelazione fra esseri umani.
Cinque giorni dopo l’intervista fatta a Spiazzi, riesco a mettermi in contatto con Анна Боднарчук, che esattamente un anno fa, assieme ad altre sue due compagne, ha raggiunto il Teatro Nazionale di Genova per continuare i suoi studi di recitazione. Anna, 20 anni, mi chiede subito se io abbia visto Le Troiane, le rispondo di aver scoperto il progetto soltanto due mesi fa. Parte quindi la sua testimonianza dello spettacolo: mi racconta delle prime difficoltà nel comprendere il testo classico, così come delle improvvise rivelazioni fatte man mano che si procedeva nel lavoro di analisi – Troia diventa Mariupol, Astianatte rappresenta ogni bimbo innocente morto senza un senso –; della necessità di inserire altri testi e canzoni corali della tradizione ucraina, del bisogno di sottotitolare l’intero spettacolo, sia in italiano che in ucraino. E poi gli incontri post-spettacolo nelle scuole: bambini in lacrime che non capivano, e ai quali bisognava spiegare che quello spettacolo non era un invito alla commiserazione, ma alla bontà e all’amore verso il prossimo. «Piangevamo anche noi, spesso in scena» continua Anna, e insiste tantissimo sulla soddisfazione di aver fatto qualcosa di utile, importante, necessario, in un momento in cui niente sembrava possibile.
Tocco finalmente con mano l’idea che mi ha tormentato fin dall’inizio della mia ricerca di senso: l’idea che il teatro debba pur servire a (dire) qualcosa, che non possa soltanto essere qualcosa che si fa perché “si deve fare”, perché lo dice un decreto o un bando. Se non si ha nulla da dire, meglio tacere, giusto? Altrimenti si perde l’interesse ad essere ascoltati.
Visitando il sito dello Schaubühne, già dalla homepage si rischia di trovarsi davanti a delle voci di ricerca sconosciute ai siti dei teatri nazionali italiani: Attori, Registi, Drammaturghi, Repertorio, e così via. Cliccando sulla prima si troveranno, a testimoniare il teatro della propria città, i volti dell’ensemble di Ostermeier: ci fissano, ci chiamano, ci invitano a raggiungerli, a vedere il loro teatro. Provo a domandarmi quali volti possano essere capaci di testimoniare alla stessa maniera il teatro anzi i teatri pubblici italiani, ma non vedo nessuno; nemmeno il volto di qualche amministratore.
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