Alessandro. Un canto per la vita e le opere di Alessandro Leogrande, in scena al Teatro Rasi di Ravenna per La Stagione dei Teatri, 60 minuti di spettacolo realizzato dalla compagnia Koreja per ricordare il giornalista tarantino, che ha scritto per Il Corriere del Mezzogiorno, Internazionale, Radio 3, vicedirettore della rivista fondata nel 1997 da Goffredo Fofi, Lo Straniero.
Morto a soli 40 anni, nel 2017, una vita dedicata a indagare con reportage e inchieste il fenomeno dello sfruttamento degli immigrati al sud, del caporalato, del degrado ambientale e urbano e della mafie, dal Tavoliere delle Puglie all’isola di Lampedusa con una serie di pubblicazioni con cui ha denunciato l’involuzione delle società occidentali sulla tutela dei diritti umani e della sicurezza sul lavoro. Da Un mare nascosto del 2000 a Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del sud nel 2008 fino a Il naufragio. Morte sul Mediterraneo del 2011 a Fumo sulla città del 2013, fino a Käter I rëdes del 2014 e La frontiera del 2015.
L’inizio del racconto, a cura di Fabrizio Saccomanno che ne firma anche la regia, insieme a Gianluigi Gherzi e in scena con il coro formato da Barbara Petti, Emanuela Pisicchio, Maria Rosaria Ponzetta e Andijelka Vulic, parte da Fumo sulla città, libro-inchiesta sulle acciaierie di Taranto, costruite nel 1965 con l’ambizioso progetto di radicare nel territorio pugliese un imponente progetto di industrializzazione impiegando manodopera locale e favorirne lo sviluppo economico. Di fatto, uno sradicamento dell’identità di un territorio, attuato senza adeguate politiche di integrazione con la fisionomia del luogo e un immenso catalizzatore di agenti inquinanti che hanno portato alle morti bianche, alle perizie chimiche ed epidemiologiche nel 2012 e al conseguente sequestro degli impianti fino al referendum cittadino sulla chiusura nel 2013.
Poi è la volta del caporalato nelle campagne del Tavoliere delle Puglie, dove, attraverso vessazioni, ricatti, aggressioni e spesso anche omicidi rimasti impuniti da parte della malavita organizzata, si perpetuano forme di sfruttamento mai sopite nel Sud, ma semplicemente trasferite sulle popolazioni di immigrati irregolari. Prelevati, condotti sui campi a lavorare senza alcuna tutela e stipati nelle baraccopoli fatiscenti per le poche ore di riposo. Così negli ultimi 30 anni, a partire dalla fine degli anni ’90, Leogrande racconta come strato dopo strato, e con la complicità di una politica miope, si sia andata costruendo una sorta di Terzo Mondo che coesiste, invisibile, accanto al primo.
Accade quindi che tra le lapidi di un cimitero di un paesino di provincia, dove un’anziana donna visita ogni giorno la lapide del marito, una vita a lavorare tra i campi dei pomodori, noti la fossa di un ignoto, inumata alla meno peggio. Un ragazzo, dicono, trovato morto sul ciglio della strada, forse punito perché tentava di scappare. Oppure che un pescatore di Lampedusa, uscito presto in mare, si trovi a dover caricare sulle proprie braccia una decina di corpi di migranti scampati al naufragio della nave libica vicino all’isola dei Conigli dove il 3 ottobre 2013 si consuma la tragedia in cui perdono la vita 368 persone. Uomini, donne e bambini, oltre a 20 dispersi, forse depositatisi sul fondo del mare Mediterraneo, trasformatosi da culla della civiltà a culla della morte
Gli stessi soccorsi della Guardia Costiera descritti da Saccomanno sembrano essere avvenuti in un’atmosfera surreale, in cui i subacquei si muovono come danzatori nella loro traiettoria dal prelevamento dei cadaveri dalla chiatta al fondale marino.
L’amico scrittore di Leogrande, Nicola Lagoia, nella prefazione di Fumo sulla città, scrive di quanto sia stata determinante nella vita del giornalista, l’arrivo della nave Vlora dall’Albania, nel 1991. È stata la prima imbarcazione di migranti a raggiungere l’Italia, sulle coste pugliesi e viene accolta fraternamente dalla stragrande maggioranza della società civile, cosa che negli sbarchi successivi avverrà sempre meno di frequente, per poi sfociare in alcuni contesti, in aperta ostilità.
Ma Leogrande, toccato nelle corde da quell’evento, che di fatto, ha anticipato di 10 anni il XXI secolo e il dramma delle carrette del mare, ha continuato ad occuparsene, a indagare e a denunciare i soprusi. Tanto da ricevere, per il suo impegno, l’intitolazione di una strada in Albania.
Lo spettacolo termina con l’immagine del Martirio di San Matteo, dipinto da Caravaggio tra il 1559 e il 1600, presente nella Chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma, dove, racconta Saccomanno “l’attenzione è tutta sul carnefice, è questa la figura sulla quale Caravaggio focalizza la luce. Senza vestiti, mentre con una mano tiene fermo Matteo e l’altra impugna la lama nell’atto di colpirlo. Tutti gli altri intorno tengono lo sguardo altrove, come più o meno si fa tutti, di fronte a qualcosa di troppo malvagio per poterlo anche solo guardare. Solo un uomo, sulla sinistra, guarda il martire: è Caravaggio stesso che ci invita a guardare alla vittima”.

Insegnante di italiano come seconda lingua, formatasi all’Università per Stranieri di Siena, giornalista pubblicista iscritta all’Ordine laureata in Filosofia e Beni culturali all’Università degli Studi di Bologna, una grande passione per il teatro. Pirandello, De Filippo, Pasolini e le avanguardie del Novecento i preferiti di sempre.