Intervistiamo Omar Rashid: nato in Iraq, cresciuto a Firenze. Termina gli studi al Polimoda di Firenze nel 2002. Dopo alcune esperienze come designer di abbigliamento fra Parigi e New York, crea la sua linea streetwear e usa canali non convenzionali per farla conoscere. La passione per i nuovi linguaggi e la loro applicazione diventa l’elemento centrale della sua professione. L’artista si può considerare uno tra i più interessanti innovatori nell’ambito dell’audiovisivo nel panorama nazionale. Nel 2016, insieme a Elio Germano, realizza NoBorders VR, primo documentario italiano che usa la realtà virtuale; vincitore del premio Migrarti del MiBACT al Festival del Cinema di Venezia. Oggi con la sua agenzia di comunicazione Gold Enterprise realizza progetti VR, parallelamente insegna viral marketing e web communication allo IED di Firenze. Con Elio Germano ha curato la regia di Segnale d’allarme – La mia Battaglia VR, trasposizione in realtà virtuale dello spettacolo La mia Battaglia, che unisce spettacolo dal vivo e cinema attraverso la tecnologia digitale della Virtual Reality.
Qual è stato il tuo percorso di formazione e quali sono gli ambiti all’interno dei quali operi attualmente?
Io ho iniziato per passione a fare i graffiti a quattordici, quindici anni. Ero molto legato sia al mondo dell’underground sia a quello del cinema. Poi dal mondo dell’underground, sono arrivato a studiare moda. E quindi la mia prima attività è stata lavorare nell’abbigliamento. Creai il mio marchio, dopo un’esperienza a New York di un anno presso un marchio molto legato al mondo dello skateboard e dei graffiti, decidendo di proseguire quel tipo di percorso. E quindi fondai Gold nel 2003, che inizialmente era un negozio di abbigliamento con la particolarità di comunicare molto attraverso il non-convenzionale: io iniziai con gli stickers in tempi non sospetti, che comunque per me era un’evoluzione di quello che era il writing. Piano piano lo sviluppo del brand è andato di pari passo con la mia ricerca nel mondo della comunicazione non convenzionale.
Successivamente questa passione si è riversata anche nel mondo delle tecnologie, ma più come ricerca di linguaggio che di mero marketing. Nel senso che per me era più interessante avere un gioco nuovo e provare a giocarci. Quindi inizialmente la realtà aumentata, poi successivamente la realtà virtuale. Nel contempo, da quando avevo iniziato, l’audiovisivo è sempre stata una forma di comunicazione che cercavo di sviluppare totalmente da autodidatta con un fine promozionale, nel senso che facevamo dei piccoli corti o brevi documentazioni, film per comunicare il brand, che però avevano anche una loro identità individuale.
Poi lo scatto più cinematografico c’è stato intorno al 2013, sicché ho iniziato a lavorare su un documentario che è Street opera, che parlava del mondo del rap. In concomitanza c’è stata la conoscenza più approfondita con Elio Germano che faceva parte del documentario con il suo gruppo Bestierare, era un po’ il filo conduttore perché avevo individuato dei rapper molto distanti tra loro, che erano Gué Pequeno per la parte mainstream, Danno del Colle Der Fomento per quella underground e Clementino e Tormento che erano rappresentanti di due percorsi agli antipodi: nel senso che il primo veniva dall’underground e poi ha sfondato nel mainstream mentre il secondo ha sfondato nel mainstream ed è passato all’underground. Ed Elio faceva da filo conduttore. In quell’occasione ci siamo conosciuti meglio. Quando poi ho scoperto il mondo della realtà virtuale, lui è stata una delle prime persone a cui l’ho mostrato. Ci si è appassionato subito con l’intenzione di fare ricerca anche lui, poiché gli affascinava molto il linguaggio.
Da qui nasce Gold Productions che ha come cardini lo storytelling, la regia e la realtà virtuale. Come si inseriscono questi tre mondi all’interno delle tue produzioni?
Come dicevo, il filo conduttore è sempre lo stesso per me: la vicinanza alla filosofia che viene dal mondo dell’underground e dell’hip-hop che è quella dell’indipendenza. Nel senso che anche i graffiti come il rap sono un tipo di forma d’arte e di contaminazione che viene dal basso e si basa molto di più sulla volontà di esprimersi che sulla tecnica.
Il mio brand, quello che ho fondato all’inizio, si chiamava Gold ed è rimasto quello, nel senso che per me è una evoluzione lineare. La cosa che dico sempre è che io mi considero un creatore di contenuti, quindi possono cambiare i supporti, una t-shirt, un lungometraggio o una esperienza in realtà virtuale, però il focus è sempre il contenuto che poi trova nel contenitore più adatto la forma per esprimersi. Faccio un esempio: proprio Segnale d’allarme – La mia battaglia VR che porteremo al Teatro Argot Studio, secondo noi, è la trasposizione perfetta di quel tipo di contenuto, in particolare si presta molto per un tipo di fruizione del genere.
Per contro, magari ci sono altri tipi di contenuti, che come dicevo prima trovano più adatto come contenitore, quello della realtà aumentata, quella del documentario o quello della grafica. Alcune volte basta un’immagine per raccontare un concetto. Quindi l’idea è sempre quella di dare, prima di tutto, risalto al contenuto, cioè cercare qualcosa che si presti per essere raccontato. Proprio per questo l’idea di Gold Productions è questa, di essere una casa di produzione indipendente, nel senso che comunque quasi tutti i progetti sono autofinanziati, autoprodotti, prevalentemente ci abbiamo investito tanto tempo ed energie più che tanti soldi, abbiamo veramente fatto tanti sforzi individuali miei e di tutto il team che ho. La filosofia è di ricercare qualcosa anche da un punto di vista produttivo realizzabile, tante volte i progetti non si possono fare perché necessitano di budget elevati, e invece quello che facciamo noi è cercare di fare a monte qualcosa che possiamo fare in un modo o in un altro.
In questo percorso si inscrive la produzione di Segnale d’allarme – La mia battaglia VR. Qual è stata la genesi e il lavoro di produzione del film in realtà virtuale?
Nasce come spettacolo teatrale di Elio Germano, La mia battaglia, che ho avuto la fortuna di veder nascere dall’inizio. Io ero con Elio in India a girare, un altro lavoro in realtà virtuale che si chiama The Italian Baba, che ci ha portato a stare in India per un paio di settimane. In questa situazione, di totale pace ed estraniazione dalla società, ci siamo trovati a prendere molto tempo in maniera riflessiva, e in quel momento Elio stava scrivendo lo spettacolo. Nel momento in cui lo scriveva si parlava della possibilità di realizzarlo in realtà virtuale. Quando poi ci fu la prima, presso lo Spazio Tondelli di Riccione, Elio mi disse: “Guarda che questa cosa è perfetta per la realtà virtuale perché lo spettacolo avviene più in platea che sul palco”.
Il giorno stesso decisi di partire per Riccione con il treppiede e la telecamerina. Mi interfacciai con Pierfrancesco Pisani, che è il produttore, per trovare il punto giusto dove mettere la macchina da presa, per cui mi liberò una sedia in prima fila. La prima ripresa fu in tempo reale dello spettacolo. Nonostante fosse stato un esperimento improvvisato, con poca attenzione sulle luci e con una qualità relativamente bassa, fu molto apprezzato da chi guardò il prodotto finale. Questa reazione positiva ci ispirò a realizzare il film in maniera più organizzata. Così l’anno successivo il progetto è diventato una vera e propria produzione, che è stata co-prodotta da Riccione Teatro. Come dicevo Segnale d’allarme non è una ripresa dello spettacolo ma una trasposizione nel senso che ci sono state delle accortezze tecniche, da un punto di vista delle luci, ma anche da un punto di vista della messa in scena. Infatti rispetto allo spettacolo sono cambiate delle cose, sia nel testo, sia nella disposizione degli attori figuranti che fanno poi gran parte del film. Infatti gli attori sono fondamentali, anche se apparentemente invisibili.
Ribaltando la prospettiva e ragionando sulla visione del pubblico: come cambia il rapporto tra spettatore e opera attraverso il visore VR?
La cosa che ci tengo a sottolineare è che il tipo di ricerca che facciamo noi è molto limitato all’ambito della realtà virtuale. Nel senso che è molto più vicina a un’esperienza cinematografica che interattiva, infatti permettiamo allo spettatore di poter muovere la testa a 360°, però il contenuto ha un inizio e una fine, nel senso che comunque si sviluppa in maniera orizzontale, rispetto ad esempio ai videogiochi, che permettono una serie di azioni più articolate. Praticamente il pubblico, attraverso i visori e le cuffie, si ritrova a essere in prima fila in questo spettacolo, in questo teatro, con accanto degli spettatori virtuali. La peculiarità che aiuta ancora di più l’immersione è che inizialmente il pubblico si siede in un teatro vero, come sarà il Teatro Argot, con accanto degli spettatori reali. Tutti insieme si indossa il visore e ci si ritrova accanto a degli spettatori virtuali, all’interno di uno spettacolo che si svolge tra il palco e la platea. Successivamente accadono anche una serie di cose intorno allo spettatore che lo porteranno a vedere, a esplorare anche oltre l’attore principale.
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