Inevitabile non pensare al prossimo futuro, e tuttavia anche un po’ al presente, senza includere nella visione i concetti di realtà virtuale o aumentata, l’utilizzo di robot che rimpiazzeranno pian piano la fallibilità e maestria dell’attività umana, la presenza di dispositivi che medieranno, come d’altronde accade da tempo, l’interazione con l’ambiente sempre più astratto che ci circonda. In questa progressiva e relativamente rapida trasformazione, ci sono elementi all’apparenza estranei, strettamente legati al “qui e ora” e alla compresenza – com’è il teatro – che necessitano, se non di adattarsi, perlomeno di ripensare al proprio ruolo in un mondo in evoluzione, dove spazio e tempo perdono i loro connotati di riferimento.
La questione non è estranea nemmeno a Turi Zinna – autore, attore e regista catanese, tra i fondatori della compagnia Retablo – che da circa una ventina d’anni indaga il rapporto tra performance e tecnologia: nella pausa tra un convegno sulla crisi della drammaturgia a Palermo e uno spettacolo all’isola di Salina, abbiamo colto il pretesto del suo ultimo lavoro – Una fuga in Egitto. Rotta virtuale per l’esilio – in scena dal 7 al 19 giugno allo spazio artistico “Via del Principe” di Catania, per ragionare un po’ più a fondo sull’argomento.
Da quali spunti immaginativi e suggestioni si è originato lo spettacolo anche in relazione al vostro percorso come compagnia?
Con una tecnologia legata alla digitalizzazione e divenuta sempre più immersiva è possibile trascendere i concetti di luogo e tempo mentre si modifica il nostro modo di relazionarci a essi, e tale cambiamento non può non incidere anche sulla drammaturgia, in quanto arte legata al corpo, che a sua volta non esiste al di fuori dello spazio e del tempo. Questo è per noi un campo d’indagine fortissimo e il principio generale che alimenta il nostro lavoro.
Per l’ultima produzione, si sono combinati una serie di fattori: da un lato, la committenza dell’ex direttrice artistica del Teatro Stabile di Catania Laura Sicignano, che nel 2020, in piena pandemia, mi chiese di realizzare uno spettacolo, inizialmente un’installazione; dall’altro, una personale suggestione legata al dipinto di Giambattista Tiepolo, La fuga in Egitto, ma ancor di più all’opera dello scrittore portoghese Mário Cláudio a esso ispirata, che mi sembrava potesse costituire una calzante metafora di questi tempi: il destino di questa salvezza, che non si sapeva se e come si sarebbe salvata, era infatti molto attinente al clima di difficoltà e incertezza che stavamo fronteggiando.
In quella fase, inoltre, ero in procinto di sviluppare alcuni esperimenti di drammaturgia in VR e, per questo obiettivo, Retablo stava acquistando un certo numero di visori.
Prima di addentrarci nel contenuto di quest’opera, puoi dirci come si realizza sul piano pratico l’incontro tra performance dal vivo e realtà virtuale entrambe compresenti in essa?
La realtà virtuale viene ormai sperimentata da sempre più persone (nei videogiochi, per esempio), ma allo stesso tempo rimane un’esperienza molto marginale, tant’è che chi viene a vedere lo spettacolo non ha mai indossato un visore e il primo impatto è di sorpresa e spaesamento. Nel caso specifico, gli attori in stereoscopia, dunque percepiti come tridimensionali, si muovono davanti allo spettatore, mentre lo schermo (in realtà una sfera che lo avvolge a 360 gradi) non viene percepito, e lo stesso accade con lo sfasamento temporale: l’attore infatti non è più lì, ed è come se avesse lanciato un messaggio in una bottiglia che giunge in differita al suo destinatario. Lo spettatore, d’altronde, pur non presente nello spazio di rappresentazione, ha l’illusoria sensazione di esserci.
La performance dal vivo, invece, si svolge al contrario. L’obiettivo era di far uscire lo spettatore da quello stato senza fargli perdere l’interesse: abbiamo perciò deciso di non assecondare del tutto il visore ed entrare in una modalità mista, secondo il concetto di realtà aumentata dove ci stanno obbligando sempre più spesso a stare. Uscendo dal campo delimitato, si attivano infatti dei sensori a infrarossi che fanno percepire lo spazio davanti a sé in bianco e nero; e una breve fascia mediana, in cui si inserisce la performance dal vivo, dove le visioni interna ed esterna si mescolano: si genera così un effetto di confusione nello spettatore, che paradossalmente percepisce come più reale l’attore del virtuale piuttosto che quello che si trova davvero davanti a lui.
Un elemento che mi ha sempre colpito di queste tecnologie è che rispetto agli anni Cinquanta, quando i cervelloni elettronici occupavano lo spazio di intere palazzine, nel tempo, con la mobilità, si è generato un progressivo avvicinamento all’occhio, fino ad arrivare alla realtà virtuale, che ha chiuso lo sguardo all’interno di un visore non a caso denominato Oculus; oggi si chiama Meta, essendo di proprietà di Facebook, e ciò non può che avviare una riflessione su quello che potrebbe apparire come il prodotto finale dell’ipercapitalismo; e se noi andiamo a vivere in spazi gestiti dalle corporation, affidando a essi parti importanti della nostra vita, come può il teatro non rapportarsi a tutto questo?
Ecco, era proprio la domanda che volevo porti, a proposito anche del distacco normalmente presente nel teatro dove è chiara la separazione e la lucidità dello spettatore rispetto a ciò che sta guardando…
Partendo dalle origini, possiamo considerare il teatro greco come l’evolversi di un’altra forma di rappresentazione, dove il coro stava in mezzo alla gente e la coinvolgeva nel rito; il distacco è avvenuto più tardi, comportando un allontanamento da esso e da una partecipazione, per così dire, più interna.
La drammaturgia, d’altronde, è legata in maniera inestricabile allo spazio di rappresentazione, e le scritture sceniche si sono trasformate in parallelo agli edifici teatrali (tragedia con teatro greco, melodramma con palcoscenico all’italiana, e così via). Ogni spazio in questione è inoltre evocativo dei rapporti sociali e politici delle comunità dei quali era contemporaneo, pertanto, davanti alla situazione attuale in cui l’ambiente che ci circonda è perlopiù l’environment tecnologico, mentale e surreale fin qui descritto, appare logico chiedersi quali relazioni sociali siano sottese dai linguaggi della scena.
Per la realizzazione di Una fuga in Egitto, essendomi servito di una ripresa a tutto tondo, mi è chiaro che non esiste distacco di punto di vista rispetto a quello della macchina, e questa coincidenza assoluta fa sì che non ne esista un altro, così come è assente la possibilità di muoversi: si tratta a tutti gli effetti di una manipolazione. Allora lo spettacolo ragiona su questo aspetto, vuole portarlo alla luce.
Dunque il ruolo dello spettatore è totalmente passivo?
Nel caso specifico abbiamo scelto così, sebbene la tecnologia consenta operazioni molto interessanti come l’interattività. Anche i personaggi sono costretti all’interno di un mondo, quello della corporation che produce lo stesso documentario a cui assiste lo spettatore, dal quale cercano però di fuggire, e Maria diviene l’emblema di questa ribellione.
Parliamo allora del contenuto: quali sono gli elementi di novità rispetto all’episodio biblico e in cosa consiste la visione femminile che permea l’opera?
Abbiamo intitolato lo spettacolo Una fuga in Egitto, volutamente con l’articolo indeterminativo, per presentare la storia da un altro punto di vista; e così anche i personaggi – che hanno preso voce grazie alle mie parole, quelle di Lina Prosa e Tino Caspanello – sono “una Maria”, “un Giuseppe” e due arcangeli: uno bianco e l’altro nero, come nel dipinto del Tiepolo. Tutti sono simboli di qualcosa, così come il templum rappresenta la corporation che produce la fiction e che Maria vorrebbe distruggere per non assoggettarsi a essa, portando in salvo con la fuga la sua idea di rivoluzione.
Anche con il potere patriarcale coincide l’oggetto di tale rivolta, seppure essa sia principalmente indirizzata verso un’autodeterminazione. In tale contesto, si inserisce la figura di Giuseppe, secondo la tradizione dei vangeli apocrifi molto più anziano di Maria, che gli viene data in sposa quando questa, alle prime mestruazioni, viene cacciata dal tempio. La donna, in realtà poco più che una bambina, reagisce al conformismo del marito rivendicando la libertà di autofecondarsi per poter concepire il principio di rivoluzione del mondo, minacciato da un pericolo apocalittico; Giuseppe, pur non condividendo fino in fondo il suo pensiero che gli pare il frutto di una follia, decide infine di sostenerla. Così, li ritroviamo insieme ai due arcangeli a fuggire su questa barca, che però è all’interno dell’Oculus, e il loro tentativo diviene perciò una fuga dallo stesso visore.
La storia del dipinto, ha suggerito a noi tre autori tale visione, che potrebbe originarsi da quel “crescete e moltiplicatevi” messo in discussione dall’Arcangelo nero che si trova a sposare la causa di Maria, fino ad arrivare a tutte le situazioni concrete che ci riguardano più da vicino: la pandemia, il cambiamento climatico, le migrazioni, la guerra che è arrivata in seguito, e in generale, potremmo dire, tutto ciò che concerne una crisi di sistema. Il principio di Maria risulta dunque più equilibrato, pur apparendo lei al mondo una specie di pazza, per la necessità di un capovolgimento del punto di vista al fine di evitare una catastrofe.
Oltre a ragionare su questo tema, quali altre missioni sentite di dover adempiere, in quanto teatro, allo stato delle cose?
Il teatro non è più centrale nella dimensione della città, svolgendosi in luoghi sempre più periferici, come marginale è il suo ruolo rispetto agli interessi della collettività, ma credo comunque che, all’interno di una realtà virtuale, aumentata o mista sempre più pervasiva, sia necessario operare un “hackeraggio” del sistema per offrire un’alternativa e far rendere conto allo spettatore dell’esistenza di altri punti di vista rispetto a quello proposto dall’industria, e tale operazione può essere attuata solo dalla performance.
Risocializzare questi strumenti, che vengono fruiti in maniera sempre più intima inviando frammenti del proprio dialogo interiore in una sorta di Iperuranio, è un altro degli obiettivi. Postare gli status e le foto sui social, gestiti peraltro dagli stessi proprietari dell’Oculus, significa infatti prestare il fianco della propria vulnerabilità azzerando qualsivoglia distacco per esporsi a una manipolazione. È dunque forse l’elemento centrale del nostro lavoro ripensare a questi spazi riportando l’esperienza a una condivisione dal vivo – che nel caso di quest’ultimo spettacolo avverrà per un massimo di quindici spettatori alla volta – e ragionare così insieme su questo stato di realtà in cui ci siamo ritrovati e ci ritroveremo sempre più.
Siciliana che non riesce davvero a mettere radici altrove. Si laurea a Roma e Messina in Comunicazione, poi in Scienze dello spettacolo, e fa un master in Imprenditoria dello spettacolo a Bologna. Le piace scrivere in prosa e poesia (ha pubblicato la raccolta “Preludio” con Ensemble Edizioni) e di teatro. Si sta addentrando nell’insegnamento delle discipline audiovisive, ma sotto sotto vorrebbe imparare a recitare.