Teatro di Figura, immagini di vita. Illoco Teatro racconta U-Mani

Lug 13, 2021

Il ciclo di analisi e ricerca Teatro di Figura, immagini di vita prosegue con il racconto del lavoro condotto da Illoco Teatro.
Quello della compagnia Illoco – composta da Roberto Andolfi, Annarita Colucci, Dario Carbone, Cecilia Carponi, Anton De Gugliemo, Valeria Dangelo, Adriano Dossi, Alessia Giglio, Michele Galella – è un teatro artigianale, onesto, che svela la finzione concedendo allo spettatore una composizione dettagliata e personale dell’immagine.
L’ibridazione tecnologica che sta interessando molte delle manifestazioni artistiche del Teatro di Figura, a livello nazionale e internazionale, sta potenziando fortemente la dimensione immaginifica del genere senza mortificarne, piuttosto rinvigorendone, l’aspetto ancestrale. 

L’attenzione di Illoco Teatro nei confronti delle nuove generazioni è visibile, oltre che nella sperimentazione artistica rivolta ai nuovi linguaggi, anche nelle esperienze pedagogiche del gruppo. Da molti anni, infatti, Illoco si impegna in laboratori e workshop, in collaborazione con atenei e accademie, svelando tecniche e saperi del Teatro di Figura.

Micromanipolazione, cinema e teatro compongono la triade di U-Mani – ultimo lavoro di Illoco, in cui echeggia la didattica lecoquiana in un delicato equilibrio tra cura della tradizione e scoperta del nuovo – che ha debuttato a giugno nell’ambito del Festival Storie di Lavoro di Civita Castellana, riscuotendo un importante successo di pubblico e di critica.

A gran voce, l’intero comparto del Teatro di Figura chiede che l’associazione al Teatro Ragazzi non incateni la fruizione del genere a pubblici di predefinite fasce d’età. Il Teatro di Figura, con i suoi artifici e le sue migrazioni in mondi altri, è in grado di affascinare spettatori d’ogni generazione, ponendosi come un teatro tout-public, ancora tutto da scoprire.

Ne parliamo con il regista Roberto Andolfi e con l’attrice Annarita Colucci di Illoco Teatro.

Con U-Mani affrontate la progressiva perdita di immaginazione che ha interessato diverse generazioni di ragazzi dall’avvento della tv, e che si è acuita sempre più con la diffusione della tecnologia. Partendo dalle esperienze pedagogiche che da sempre la vostra compagnia affianca a quelle artistiche, che valore è ancora in grado di apportare l’immaginazione nella vita dei più giovani e che ruolo può avere in questo processo di riscoperta il teatro di figura?

Roberto Andolfi: Rispetto al lavoro che facciamo con i ragazzi, e che abbiamo fatto negli anni nelle scuole, il Teatro di Figura può dare qualcosa in più. Questo spettacolo che abbiamo proposto, già durante la prima replica, mi ha fatto notare quanto le nuove generazioni tendano a fidarsi delle immagini. La soglia di attenzione che i giovani hanno su un attore in scena è bassissima, quella che hanno invece nei confronti di qualcosa che vedono in video è molto elevata. 

Vista questa grande fiducia nei confronti dell’immagine, la domanda che abbiamo deciso di porci riguarda il modo in cui possiamo entrare in dialogo con la tecnologia. Escludere la tecnologia dal lavoro teatrale è perdente con le nuove generazioni, perché il teatro è una lingua che non capiscono. Il Teatro di Figura può fare tanto in questa direzione se si confronta con sé stesso. Come Compagnia Illoco, siamo amanti delle compagnie d’arte, delle famiglie ma come artisti dobbiamo confrontarci con quello che succede intorno a noi: il covid, le nuove generazioni…altrimenti siamo noi che ci tiriamo fuori dal mondo.

I vostri spettacoli sono caratterizzati da una forte ibridazione dei linguaggi che prevede la compresenza tra l’artigianalità e le nuove tecnologie digitali. Qual è il punto d’incontro tra questi elementi e come viene strutturato il percorso di ricerca che conducete per il raggiungimento di una sintesi artistica?

R.A: Il punto di partenza è il nostro approccio alla ricerca teatrale. Quando abbiamo iniziato a lavorare con Michele Galella, che è un operatore, era lui l’unico della compagnia in grado di usare le macchine. Successivamente abbiamo capito che potevamo utilizzare le macchine anche noi, come facciamo con una sedia o una quinta, cioè approcciandoci al lavoro con curiosità e cercando di capire le potenzialità di quell’oggetto.

Da lì in poi gli attori hanno seguito Michele per capire quale fosse il centro del lavoro per poi dargli un valore artistico, cioè quello che consideriamo il lavoro d’artista: capire come funziona l’oggetto e poi come utilizzarlo, un lavoro che ha a che fare con i clown, il mimo, con la scuola lecoquiana da cui deriviamo. Mi sono reso conto sempre di più che Michele, da operatore, fa un movimento scenico che riesco ad associare alla didattica lecoquiana: muove il corpo, partendo dal bacino, esattamente come insegnava Lecoq o come fa Marceau. I linguaggi si incontrano, perché quando il corpo si allena fa le cose giuste.

Viviamo in un tempo in cui esibizione e vanità tendono a “ingrandire” la dimensione umana, lasciando l’intimità sempre più ai margini dell’esistenza. In questo contesto, il teatro di figura si pone in controtendenza: essendo un teatro legato al processo, alla minuzia, allo stupore, fa dell’intimità uno dei suoi maggiori elementi di attrazione. Come viene preservata questa caratteristica anche in un lavoro come U-mani che gioca sul disvelamento dell’artificio?

R.A: La tecnologia potenzia enormemente le minuzie, perché ci fornisce ciò che al teatro manca rispetto al cinema, ovvero la possibilità di comporre le immagini. Se io non mostro l’artificio, il manovratore, un filo, lo spettacolo non funziona più, perché l’immagine è data. Ho quindi disseminato degli errori perché quello è il trucco di magia svelato: mostrando l’illusione e il prestigio, lo spettatore può scegliere. Trovo che sia un buon modo di affrontare il teatro oggi, dato che l’illusione non esiste più. Mostrare i due piani insieme offre la possibilità di vedere il trucco e stare dentro la magia, come un allievo prestigiatore.

Annarita Colucci: L’assenza o la presenza del pubblico crea una differenza, anche laddove l’uso della tecnologia sembra creare un distacco, in realtà esiste sempre un rituale. Roberto ha spinto verso questa direzione. A livello attoriale il rapporto con il pubblico viene preservato anche se non lo guardiamo, perché lo sentiamo. In U-Mani c’è una doppia scrittura, quello che il pubblico vede in video e una coreografia interna portata avanti dagli attori, che tende a salvaguardare la relazione con lo spettatore.

È evidente il fervore che sta animando le sperimentazioni italiane nell’ambito del teatro di figura. Ma qual è la situazione del teatro di figura in Italia, da un punto di vista di tutele dei suoi lavoratori e delle sue lavoratrici e di opportunità di ricerca?

R.A: La regolamentazione del settore teatrale risale alla fine dell’800, per cui più ti tieni come lavoratore all’interno di un cluster, più sei in grado di giustificare all’istituzione cosa fai. Se sei un museo delle cere, che non evolve, sei più facilmente riconoscibile. U-Mani, che è evidentemente un lavoro di Teatro di Figura, potrebbe avere dei problemi di categorizzazione a livello ministeriale. Il sistema tende ad incasellare, è ottocentesco. 

Le istituzioni non hanno ancora un sistema neanche lontanamente in grado di concepire che quest’arte possa evolvere, questo allontana gli artisti dalla sperimentazione. 

A.C: Noi siamo cresciuti con il lavoro lecoquiano, l’immagine, il lavoro con l’oggetto, lo spazio, il lavoro dell’attore più che la prosa, prediligendo l’illusione scenica e l’immagine. Mi accorgo sempre di più che esistono realtà che finalmente sperimentano sul Teatro di Figura, distaccando il genere dal solo teatro per bambini. La possibilità del Teatro di Figura di rivolgersi come linguaggio a un pubblico adulto, inizia a farsi spazio anche in Italia. Nel resto del mondo, in Europa il Teatro di Figura è un teatro tout-public da 20 anni. Sono contenta che piano piano questo si stia verificando anche da noi.

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