Teatro-danza e yoga, un circuito di continue risonanze

Set 2, 2024

Danzatrice, allieva di Monica Francia e di Masaki Iwana poco più che ventenne, oltre che collaboratrice di Silvia Rampelli, responsabile della compagnia Habillé d’Eau, creata da Iwana nel 1996. Ma anche assistente coreografa del regista Romeo Castellucci per il progetto Tragedia Endogonidia dal 2002 al 2007.

Classe 1975, laureata in Conservazione dei Beni Musicali, Francesca Proia unisce la passione per la danza e la coreografia alla pratica yogica intesa come ricerca poetica appoggiata sulle tecniche sottili di cui ci parla nell’intervista. I suoi lavori coreografici, l’ultimo dei quali How to grow a lotus, frutto di un percorso di ricerca condiviso con il Teatro delle Moire di Milano, sono stati fin dall’inizio connotati dal supporto concettuale e sensoriale dello yoga. Allo yoga sono dedicate peraltro diverse sue pubblicazioni, tra le quali ricordiamo Declinazioni yoga dell’immagine corporea, (Titivillus, 2011); La strada collettiva (Il Vicolo Editore,2015) oltre al debutto online nel 2016 con il progetto Mìnera, scuola di yoga in absentia; La cattura del respiro: Piccola guida yoga del signor Pranayama per le Edizioni del Girasole, nel 2017, e l’ultima, dal titolo Yoga – La composizione delle tecniche per una pratica viva, ed. Astrolabio Ubaldini, del 2022.

Partiamo dalla pratica yoga e dal suo rapporto con la danza e l’elemento coreografico e con quello teorico-filosofico. Come si sviluppa una performance abitata da così tante dimensioni? Qual è il tuo punto di partenza e quand’è che intuisci di essere arrivata a una sintesi? 

In questo momento sono molto interessata a indagare come la pratica di un gruppo di persone possa diventare performance/coreografia senza che i performer perdano l’intento interiore proprio dello yoga, il suo tipico permeare la coscienza. È necessario perciò creare strutture coreografiche che inquadrino in una poetica lo stato di vera concentrazione intensiva di chi è in scena. Bisogna lavorare per sottrazione, togliere proprio tutto ciò che visivamente colleghiamo allo yoga, ed è proprio questo l’aspetto stimolante. Sicuramente il respiro è, in questo senso, un mezzo fondamentale. L’aspetto teorico/filosofico è una dimensione ulteriore, i cui germi si sviluppano dalla pratica ma che poi evolvono in concetti in modo indipendente. Si tratta pur sempre di un pensiero connesso alla percezione intensiva che la pratica innesca, ma che continua a fruttificare, a stratificarsi, a complicarsi. Spesso queste elaborazioni tornano poi come una strana linfa a nutrire la pratica, in una sorta di circuito di continue risonanze.

L’esperienza dello yoga porta ad un’amplificazione della corporeità e della percezione. Questo aiuta anche la creazione artistica e la dimensione coreografica? Ci sono immagini o suggestioni nel tuo lavoro con lo yoga che hanno ispirato i lavori coreografici che porti in scena?

Certamente. Le immagini nutrono in modo costante il mio lavoro. Per esempio, l’insegnamento dello yoga per me passa attraverso la messa in vita di (l’offerta agli allievi/e di) una ghirlanda di immagini in grado di orientare l’esperienza che propongo ma facendo attenzione a non esaurirla: l’immagine deve essere più simile a un varco che a un quadro concluso. Ovviamente le immagini creano e supportano anche il lavoro coreografico: per esempio un mio assolo danzato, Qualcosa da Sala, era costruito a partire da quelle posture yoga in cui il corpo somiglia a un pugno chiuso ma, sempre, molte altre immagini fluiscono spontanee durante le prove e durante la danza, si impigliano nei gesti a suggerirne la possibilità di molti altri. Questo stato di ascolto alla potenziale ulteriorità infinita del gesto per me è fondamentale nella danza.

Pratica dello yoga e rappresentazione teatrale: qual è il loro rapporto? L’uno sembra richiamare uno sforzo di concentrazione e di ricerca sul sé, l’altro per sua natura non può prescindere dall’elemento della finzione. Qual è secondo te il loro terreno di incontro e di complementarietà?

Prima ancora che di finzione o di rappresentazione teatrale, in questo caso parlerei di struttura. Se c’è un’idea e c’è una struttura, allora abbiamo le condizioni affinché la materia viva dello yoga sia accolta entro un dispositivo teatrale e coerente con la visione e la percezione che il teatro richiede.

Altro rapporto importante tanto nel teatro-danza quanto nello yoga, è quello tra corpo, respiro e componente vocale. Ti chiedo sulla parte vocale, anche in relazione alla tua ricerca nell’ambito del centro Malagola di Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi.

Malagola è un bellissimo progetto, letteralmente un vivaio. Il respiro abita il corpo dalla testa ai piedi: fin sulla pelle se ne può percepire l’onda. Ogni respiro rinnova quella pulsazione primaria del corpo in rapporto allo spazio: l’alternarsi continuo di espansione e riposo/dissoluzione. Il respiro per gli indiani è il mantra originario, che se lo si ascolta suona so ham, ovvero io sono quello: io esisto ma sono pur sempre immerso in una trama generativa universale che mi ha emesso e che mi riassorbirà. La voce allora si origina da questa dinamica tra corpo e invisibile. A partire da questi presupposti, e pensando alla ricchezza delle tecniche yogiche che riguardano il respiro, la voce, l’ascolto, Ermanna ed Enrico mi hanno invitata a pensare per i ragazzi una strada che rendesse più percepibile il legame tra voce e “corpo sottile”. Il corpo sottile nello yoga è un concetto che indica la vita nelle sue espressioni invisibili. Abbiamo fatto un lavoro per sentire che la voce è a un tempo emanazione di tutto il corpo ed entità che addensa l’invisibile.

Cosa ci puoi raccontare della tua adesione, nel 2023, al progetto Scholé, una serie di proposte di studio sul corpo?

Scholé è una formazione di ricerca pura che coinvolge diversi docenti la cui poetica in qualche momento è entrata realmente in dialogo con l’anima del Teatro delle Moire, ovvero Attilio Nicoli Cristiani e Alessandra De Santis. Questo ha creato spontaneamente una scuola che è una comunità dinamica di ricercatori, sfaccettata ma risuonante. Ciascun docente porta i suoi temi e le sue pratiche ma nascono continui rimandi il cui merito va all’alchimia che Attilio e Alessandra hanno saputo predisporre. La formazione che porto avanti qui si chiama How to grow a lotus; si tratta di una serie di seminari sulla questione mai esauribile del corpo sulla scena: corpo come creazione che genera altra creazione ancora.

Il tipo di pratica teatrale che gravita intorno al pensiero filosofico orientale si propone di annullare il principio di individualità per giungere al principio del Tat tvam asi che porterebbe finalmente alla pace riconoscendo se stessi presenti in ogni forma di (apparente) alterità nel mondo vivente. Ti senti vicina a questo tipo di ricerca?

Di certo la scena induce una condizione permeabile, porosa, percettivamente unica. Non credo però che questo esaurisca la faccenda: c’è per esempio tutta la dimensione del rapimento, dell’ispirazione, del selvatico, e poi c’è la tecnica, che ha con l’ispirazione un rapporto misterioso e complesso. Penso che non sia possibile porsi in rapporto alla scena con un’attitudine troppo pacificata, o dominata da convinzioni troppo vincolanti.

Una considerazione infine sulla tua partecipazione, nei giorni scorsi, al Crisalide Forlì Festival di Gualdo con un’esperienza immersiva in un contesto naturalistico. 

Sarà una breve proposta, rivolta a tutto il pubblico, volta a indurre una maggiore disponibilità percettiva. Di certo la natura favorisce quella sensazione del sentire la risonanza delle cose nel proprio corpo. 

Quando hai iniziato la pratica yoga e quando la danza e la coreografia? Cosa ci puoi raccontare sulla tua formazione e quali sono stati i tuoi autori di riferimento per ciascun ambito?

Ho iniziato la danza e lo yoga nella primissima adolescenza. La pratica della coreografia è arrivata un po’ più tardi, intorno ai diciotto-vent’anni. Mi sono laureata in Conservazione dei Beni musicali e poi mi sono formata come insegnante di yoga a venticinque anni. In generale mi sono sempre spostata senza riserve per andare a incontrare i maestri il cui lavoro mi attraeva. Gli incontri importanti sono stati tanti ma non mi sono mai trovata nel desiderio di essere davvero, per lungo tempo, apprendista di qualcuno. Presto o tardi, anche nelle incertezze, ho sempre sentito che dovevo riprendere una strada mia. Sicuramente porto nel cuore il coreografo di danza butoh Masaki Iwana, per il quale sono stata danzatrice dai ventuno ai ventitré anni. Masaki univa in sé tanti aspetti contrapposti: una specie di  malinconia, finezza estetica, animalità, spirito; e poi Romeo Castellucci, che ritengo mi abbia insegnato a osare nella ricerca, a non risparmiarmi e a non avere paura di sbagliare né di non soddisfare aspettative, ma mi ha anche dato molto valore e questo mi ha aiutata a riconoscermi. Per lo yoga un mio riferimento sempre presente è il compositore e maestro di yoga Giacinto Scelsi.

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