Ai luoghi del Festival Teatro d’aMare si accede percorrendo a piedi dalla stazione ferroviaria una lunga strada in discesa, “a calata”, che si immette nel corso centrale lungo e stretto. Tra i negozi con le celebri cipolle rosse esposte e l’artigianato locale, tra i bar e i ristoranti, si mescolano e si confondono i suoni, i rumori, gli accenti di diverse provenienze geografiche con l’odore pregnante di fritture e grigliate di pesce. E poi, finalmente, si intravede via Glorizio, ripida e nascosta, alla cui sommità, superati altri ristoranti che diffondono una delicata musica di sottofondo jazz, si trova il palazzo del Museo Diocesano. L’atmosfera è rarefatta, bastano pochi passi in salita e ci si allontana dalla folla festante. Si entra in un’altra dimensione e chi si dirige là, non ci finisce per caso.
Tropea è fatta così: le discese e i tratti in salita, le luci soffuse dei vicoli e quelle sfolgoranti delle illuminazioni delle feste patronali, il silenzio e la vivacità, l’opulenza e la decadenza. Il luogo dove ogni forma è un’armonia di contrasti che ricordano e raccontano le storie di vite vissute tra speranze e sogni. Tra partenze e ritorni. Anche per me si tratta di un ritorno e la città è bella così come la ricordavo.
Sette sono gli anni trascorsi dall’ultima volta che sono stato lì nonché le edizioni del Festival Teatro d’aMare. Arrivo trafelato ma felice, un po’ in ritardo per l’opening Redreading #13 – Un giorno bianco (Esercizi sull’abitare), di e con Bartolini/Baronio.
Saluto rapidamente Francesco Carchidi che condivide l’amore per il teatro, la direzione artistica di Teatro d’aMare e il fecondo universo dei sentimenti con Maria Grazia Teramo. La prima serata è un rituale collettivo come il teatro. E il teatro è casa, è giardino di desiderio. È un “giardino in movimento”, per dirla con le parole di Gilles Clément (paesaggista, ingegnere agronomo, botanico ed entomologo), da La Vallée al giardino planetario. È comunità, fratellanza, è il bello che chiama il bello, è la prima pietra che viene posata là dove si è deciso di costruire, è l’educazione all’ascolto, allo sguardo attento, affinché si possa rinvenire ciò che nel mondo è invisibile e fondamentale.
Tamara Bartolini incanta e appassiona con le parole, come una pittrice usa i colori delle storie che vivono due volte attraverso la sua voce, i filmati, le fotografie e le registrazioni. Michele Baronio aumenta le suggestioni con una devota selezione musicale. «Ovunque andrai è lì che sarai» recita un proverbio amish. Con Michele e Tamara, dal vivo e non, ci sono anche Luigi Giffone, Domenica e Francesca Mamone, Ludovica Franzè con la sua testimonianza sulla “restanza”.
Ci sono i giovani musicisti e le persone che i due artisti hanno incontrato lungo il cammino e le strade di Tropea, c’è il vino rosso e il mare azzurro, ci sono impronte, tracce manifeste e nascoste, ci sono vite segnate dalla nascita, dalla morte e dalla rinascita, ci sono le lacrime di Maria Grazia Teramo che, commossa, sale sul palco per ringraziare. «Ma dove le avete trovate le nostre vecchie foto?» chiede visibilmente emozionata. È il mestiere, sono i segreti dei teatranti. Redreading #13 è un viaggio che parte da Napoli e arriva a Riace. Un viaggio che è fatto di tante finestre che si aprono. È l’attenzione e la cura in ogni saluto, in ogni abbraccio, in ogni promessa fatta a voce da Tamara Bartolini: «Noi partiamo domani, ma prima faremo colazione insieme».
L’allegria che si respira per le strade, di sabato sera, a Tropea, non è molto diversa da quella del venerdì. L’appuntamento con Francesco Carchidi è al giardino del Museo Diocesano, per fare due chiacchiere e scambiarci un po’ di informazioni. Per esempio l’iniziativa del giorno dopo, con i ragazzi del laboratorio “Mi ricogghiu (ritirarsi, ritornare a casa)”, una restituzione dopo tre giorni di ricerca, confronti e condivisioni sulla “restanza”. Il tema è quello sul quale Ludovica Franzè ha incentrato la sua testimonianza, la sera precedente, durante il Redreading di Bartolini/Baronio, traendo ispirazione dall’opera omonima dell’antropologo Vito Teti. “Restanza” è quella condizione umana a metà tra il sentirsi ancorati e disorientati in un luogo da salvaguardare e rinnovare.
Mentre aspetto, ne approfitto per fare due chiacchiere con Marilena Polito, la quale si occupa della direzione organizzativa di Teatro d’aMare. La mia curiosità è catturata dal viavai di tante signore che non sono lì per il Festival; si dirigono con fretta da qualche altra parte, oltre la curva in discesa. Là dietro si trova il secondo accesso di una chiesa e quelle signore impettite vanno ad ascoltare la messa e a recitare la novena in onore della Madonna di Romania. La Madonna venuta dal mare, in una nave, durante una tempesta. Al vescovo dell’epoca chiese in sogno di rimanere lì, diventando la Patrona della città. Marilena mi racconta che molte ragazze del luogo si chiamano Romina, Romana o Romania, per devozione. Un tempo Tropea veniva invasa dai fedeli che, in occasione dell’anniversario dell’incoronazione del 9 settembre, erano ospiti a pagamento nelle abitazioni private di famiglie che offrivano una o più camere. L’ospitalità del luogo è rimasta, anche se ha assunto modalità diverse nel corso dei decenni.
Il tempo scorre, i pensieri vagano, decido di ritornare a sedermi su quella che è diventata la mia postazione ufficiale, un nero case del servizio audio-luci. All’improvviso arrivano, provenienti da Melfi, la tappa di viaggio intermedia per “spezzare il sistema nervoso”, Paola Vannoni e Roberto Scappin, i Quotidiana.com e, quasi in contemporanea, Francesco e Maria Grazia. Ci salutiamo affettuosamente e ci abbracciamo. Ci sentiamo tutti a casa. Il dialogo è lieve, ironico e gradevole; scorre tra tutti noi quella che Scappin definisce una “serena buona educazione empatica”.
È già ora del primo spettacolo, Mio Padre non è ancora nato, il secondo capitolo di una trilogia sui legami familiari, scritta a quattro mani, di e con Caroline Baglioni, con la regia di Michelangelo Bellani. Una composizione per voce sola che è anche un dialogo sordo tra una figlia e un padre assente in scena. Un uomo di sessant’anni che ha avuto un’amnesia temporanea e che ha deciso di andare a vivere in un camper. Sette sono stati gli anni di un’assenza da decodificare e comprendere: «Quando lo guardo non è che provo disagio, è una specie di rabbia, sottile, appoggiata su un cuscino». Nonostante tutto lei prova dell’affetto per lui, ma forse perché è qualcosa che qualcuno le ha detto, qualcosa che deve essere fatta. Forse dovrebbe essere un sentimento viscerale. Quella figlia non sa cosa prova per suo padre, forse non lo conosce, anche se sa chi è lui.
Nel rapporto con il proprio padre è facile perdersi nelle distonie, nelle asimmetrie, nelle proporzioni imprecise di un quadro metaforico, tra un “piccolo muro di roccia” e un “piccolo rametto di felce” che spunta fuori a catturare l’attenzione, come a voler squarciare quella tela. «Ma perché se la montagna è più grande io non posso fare a meno di guardare la felce? Perché non importa la grandezza, importa la vicinanza».
Al termine del primo spettacolo, approfittando di una pausa, io e i Quotidiana.com ci dirigiamo verso un chiosco il cui nome, “La piccola fame”, cattura la nostra attenzione. Prima però incontriamo Mariano Dammacco e Serena Balivo, protagonisti del secondo spettacolo della serata di sabato. A bruciapelo, Mariano mi chiede: «Anche la tua vita è funestata dal teatro?». La risposta immediata di Roberto Scappin è inequivocabile: «Funestatissima».
«Accanto ai festival storici – mi racconta Dammacco – c’è un fiorire di nuove esperienze, festival alle loro prime edizioni, spesso frutto della volontà di teatranti o compagnie. In alcuni casi si tratta di festival con poche risorse economiche. Ciononostante, il teatro accade. E sempre si riparte per tornare a casa con un senso di “pienezza”».
A Tropea, Mariano e Serena sono presenti per la terza volta per completare, secondo il desiderio e la strategia di Maria Grazia Teramo e Francesco Carchidi, la Trilogia della fine del mondo. Dopo L’inferno e la fanciulla ed Esilio, questa volta portano in scena La buona educazione. «È il segno di un’affezione reciproca» confessa Dammacco, ricordando l’incontro con Francesco Carchidi e sua sorella Antonella a Primavera dei teatri, nel 2019, nell’ambito del progetto Finestre, ai laboratori di drammaturgia e sul lavoro degli attori. L’incontro successivo fu quello con Maria Grazia Teramo che Mariano definisce come una «figura esperta di prezioso presidio culturale del territorio attraverso le pratiche di teatro».
«Eccola la comunità teatrale, ecco le relazioni tra persone, lo scegliersi reciprocamente – ribadisce Dammacco. Non vedevo Francesco da prima della pandemia, il ragazzo ha lasciato spazio a un giovane uomo che parla con pacatezza e humor agli spettatori del festival tra un evento e l’altro, segue di persona ogni aspetto organizzativo e logistico e si prende cura dei suoi numerosi ospiti. Maria Grazia risolve grane e mi marca a uomo per essere sicura che io sia soddisfatto dell’allestimento tecnico». Di questa comunità teatrale fanno anche parte Enzo Matarozzo, il titolare del service che fornisce le strumentazioni audio e luci al festival, Daniele Zagari, colui che si è preso cura dell’allestimento scenico, Nunzia Schiariti che fa da padrona di casa nel palazzo del Museo Diocesano, dove una sala della biblioteca è stata allestita a spazio teatrale.
Lo spettacolo La buona educazione scorre fluido, in bilico tra l’assurdo della realtà e l’incanto, la poesia, gli straniamenti di cui è capace, nella sua prova di attrice, Serena Balivo. La “pienezza”, di cui mi parla Mariano Dammacco arriva puntuale, come testimoniano le sue parole del giorno dopo: «È domenica mattina e Serena ed io partiamo in macchina per un viaggio di mille e dieci chilometri, Tropea-Modena, ma l’umore è dei migliori. Guido, ascoltiamo musica e mi tornano alla mente tutti i momenti, tutti gli incontri, le persone, tutti i volti, tutti gli altri teatranti con le loro storie, li riassaporo in mente e sento di essere parte di una comunità, quella del Teatro. E così il viaggio, lungo, faticoso e pieno di traffico, si fa lieve».
Il terzo ed ultimo giorno del Festival inizia presto, alle 16 al Sedile dei Nobili, sede della Pro Loco e di uffici di rappresentanza del Comune. È domenica e fa caldo. Lì conosco Ludovica Franzé, Sebastiano Sicurezza e i ragazzi del laboratorio. Ognuno di loro ha un uovo, simbolo del Festival, un segreto/desiderio da custodire e proteggere, un’urgenza. Conosco anche Mariateresa Surianello che è al Festival per presentare il libro Uno strappo nella rete. Faremo una camminata tutti insieme, sostando in luoghi del cuore e della mente. Attraverseremo il paesaggio urbano osservando e ascoltando, nella modalità del laboratorio, mediante soste, dibattiti, ricerche e rielaborazioni.
Dammi un attimo è il primo spettacolo della serata conclusiva del Festival, firmato da Aiello/Greco e prodotto da Teatro Rossosimona. Parla dei modelli e delle relazioni sociali di una generazione che ha assorbito il sistema e le trasformazioni culturali del precariato. Il sodalizio tra Francesco Aiello e Mariasilvia Greco, originari entrambi di Cosenza, nasce all’interno del Festival Scritture, nel 2019, curato da Lucia Calamaro e conclusosi al teatro India di Roma.
«Da lì è partita l’idea di scrivere un testo a quattro mani – racconta Francesco Aiello. Dammi un attimo è una creatura che ci è costata molta fatica, ma che ci ha regalato molti momenti di gioia e soddisfazione. Io mi sento parte di Teatro d’aMare fin dai suoi esordi e ogni anno, d’estate, passo da Tropea con lavori presenti nella programmazione ma anche solo in veste di spettatore. E più volte ho approfittato dell’ospitalità di Francesco e Maria Grazia che mi hanno offerto un letto per permettermi di rimanere a Tropea e vedere spettacoli che difficilmente avrei potuto recuperare a queste latitudini.
Credo che un contenitore come questo sia diventato un luogo prezioso per il teatro di ricerca, per compagnie e artisti che si interrogano su temi e forme. Esperienze del genere devono essere difese e protette e – vorrei evitare i soliti piagnistei sulla Calabria, terra disgraziata, ma sono consapevole che il rischio è alto – nella nostra regione le programmazioni che riescono ad avere proposte e luoghi di confronto sono sempre di meno».
La scelta di concludere la rassegna con lo spettacolo dei Quotidiana.com, Io muoio e tu mangi risulta emblematico. Si finisce in bellezza parlando di morte. Morire e mangiare sono o non solo le due facce d’una stessa medaglia? Si usa l’espressione “morire di fame”, ma “Mangjâ e murî”, ovvero mangiare e morire, è un detto friulano che si usa per dire che una pietanza è davvero buona. Talmente buona che, dopo averla mangiata, si può lasciare questo mondo in pace. «Io muoio e tu mangi» nel caso dei Quotidiana.com è la frase che il genitore rivolge al figlio che smette di mangiare per accorrere al suo capezzale. La singolarità di Paola Vannoni e Roberto Scappin è che loro sono così anche nella vita: mordaci, pungenti, intelligenti, ironici in pensieri, parole e opere. Vederli fare in scena un uso sapiente di giochi di parole e tempi comici fatti di pause, accelerazioni, gesti, ripetizioni e vederli ordinare un panino è un’esperienza unica, un piacere simultaneo e multiplo.
All’apparenza la loro scrittura, l’eloquio può sembrare surreale; di fatto però viene nutrita dal reale. I racconti ospedalieri, i pannoloni, gli schizzi di catarro. Nuclei di realtà che attivano reazioni diverse. Perché rido, perché ridiamo – per esempio – quando non c’è nulla da ridere? Vannoni e Scappin non hanno come obiettivo né quello di far ridere, né quello di far piangere. Catturano l’attenzione del pubblico, senza mollare mai la presa. Si mettono in sordina. Si ovattano. Nei loro testi c’è violenza ed energia in parti uguali. I loro gesti sono volutamente compressi.
E, alla fine, riescono a mettere lo spettatore di fronte all’incapacità di dare un senso alla vita, nella ripetizione dei suoi fatti. Harold Rosenberg, in alcune pagine molto belle de La Tradizione del nuovo, ha evidenziato che gli attori creano quando si identificano con delle figure del passato. E, in questo senso, la storia è un teatro: «…La loro azione fu la ripetizione automatica di un vecchio ruolo… È la crisi rivoluzionaria, l’impulso a creare qualcosa che non è mai esistito che spinge la storia ad ammantarsi nel mito».
E così, quando finisce e si conclude la settima edizione del Festival Teatro d’aMare a Tropea, sulla Costa degli Dei, qualcosa che è realmente esistito c’è. È un albero che fa da cornice nello spazio scenico del giardino del Museo Diocesano. Una parte è secca, la parte rimanente ha le foglie verdi. «Mezzo vivo e mezzo morto – mi fa notare Roberto Scappin – come il teatro».
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.