Esiste negli esseri umani una irresistibile attrazione per le storie.
Siamo sedotti dalla narrazione.
Dalle favole di bambini, ai libri sul comodino.
Andiamo al cinema e a teatro per sentire delle storie. Ed anche per altre motivazioni, certo, ma alla fine sono storie. Ci piace ascoltarle, ci piace raccontarle. È capitato senz’altro ad ognuno di noi di osservare le persone per strada e giocare ad indovinare chi fossero, quale fosse il loro mestiere, la loro età, come potesse essere il suono della loro voce, inventare la loro giornata. Creare una storia, appunto.
Se non vi è mai capitato, sono pazza perché io lo faccio spesso!
Il punto è: perché?
Gottschall nel suo libro “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani “ esplora l’intuizione che l’attività umana di significazione possa aprire un ambiente virtuale dentro l’ambiente fisico, definendo la narrazione come un vero e proprio habitat, una biosfera aumentata che costituisce una nicchia ecologica ideale per lo sviluppo della specie umana”. Parole difficilissime ma andando avanti diventa tutto più chiaro: “la capacità di inventare e raccontare storie ha rappresentato per la specie umana un vantaggio evolutivo decisivo, uno dei tratti che l’hanno definita rispetto agli altri esseri viventi”.
Le storie anche quelle che produciamo nei sogni – allucinazioni notturne che il cervello si racconta – sono un allenamento mentale, il laboratorio di costruzione dell’intelligenza emozionale e relazionale, simulatori dell’esistenza che permettono di esercitarci a vivere. E la mente è il dispositivo programmato per processare storie e consentire alle stesse storie di modellarlo.
Esiste una spiegazione fisiologica.
Quando raccontiamo, facciamo affidamento su un’estesa rete di aree cerebrali situate in tutti e due gli emisferi. Molte di queste aree, inoltre, sono le stesse deputate alla comprensione del linguaggio.
Sapete cos’è la capacità di rispecchiamento neuronale?
I neuroni specchio sono neuroni che si attivano rispettivamente sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo qualcuno compierla. La conoscenza del loro funzionamento può suggerire che il momento in cui si ascolta un racconto crea il desiderio di raccontare in maniera quasi contagiosa: le storie agiscono su chi le ascolta inducendo una partecipazione corporea e mentale, che riproduce tutti gli effetti fisici e psichici impliciti nella situazione narrata.
Inoltre il nostro cervello funziona da grande risolutore di problemi. È quindi umano trovare una spiegazione, unire i puntini. Ogni input deve avere il suo svolgimento, il motivo di esistere e l’obiettivo finale e tutto deve essere dotato di senso, e a volte (come ad esempio quando raccontiamo ciò che ricordiamo di un sogno fatto) inventiamo delle storie per far si che i simboli coesistano e abbiano un senso.
Questo aspetto è strettamente collegato anche alle nostra creatività. Come la definiva Poincaré, la creatività è la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili; il criterio intuitivo per riconoscere l’utilità della combinazione nuova è “che sia bella”. Ovviamente non in senso strettamente estetico, ma riferito all’eleganza, così come la intendono i matematici: armonia, economia dei segni, rispondenza funzionale allo scopo. E infatti, ancora, citando quel simpaticone di Einstein “imagination is more important than knowledge”: la fantasia, l’immaginazione, sono processi creativi della mente che trasportano il nostro pensiero al di là della razionalità e del conosciuto. Come si potrebbe scoprire qualcosa di nuovo se non si avesse la possibilità di andare oltre ciò che è già noto? Come si potrebbe allargare la conoscenza se non si avesse il coraggio di “osare” verso l’irrazionale? Nessuna scoperta sarebbe stata fatta senza lo stimolo dato dall’emozione dell’ignoto.