L’Eterotopia di Castellinaria – Festival di Teatro Pop nella Valle di Comino
Esistono dei luoghi reali fuori da tutti i luoghi: cimiteri, manicomi, periferie abbandonate, cinema, case chiuse, quartieri a luci rosse, micronazioni, tra le altre. Essi, al contrario delle utopie, cioè dei non-luoghi, sono controspazi o meglio luoghi dell’alterità. «Luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o a purificarli»: le eterotopie, così definite da Michel Foucault in due conferenze radiofoniche del 1966, rappresentano tutte quelle espressioni localizzate della cultura di ogni epoca sempre in grado perfettamente di riassorbirle facendole scomparire o organizzarne altre che non esistono ancora. Più in generale, l’eterotopia ha come regola quella di giustapporre in un luogo reale più spazi che normalmente dovrebbero, sarebbero incompatibili fra di loro.
Effetto di una molteplicità di fattori interdipendenti che si influenzano reciprocamente in un’ottica di sistema, questi spazi altri, vengono identificati come una soluzione “di crisi” o di deviazione all’interno della società reale con cui stabiliscono una relazione di differenza, piuttosto che di identità, definendo così una ri-semantizzazione nell’immaginario collettivo degli ambienti e delle relazioni sociali. Le eterotopie sono zone di frontiera, vale a dire quei territori di confine in cui i fatti dell’ambiente sono tradotti in eventi dotati di senso e di importanza per la vita psichica e sociale dell’individuo, entrando così a far parte del suo spazio vitale. Esistono anche eterotopie “croniche”, cioè legate al tempo della festa, alla celebrazione di un rito comune, come nel caso del teatro, uno spazio mistico attraversato da una serie di luoghi e di soggetti estranei; così altre eterotopie legate all’avvento di un passaggio ciclico, alla fatica di una trasformazione, alla rigenerazione degli individui. Ci sono eterotopie che durano secoli, altre pochi giorni, una settimana per la precisione.
In un’epoca come quella contemporanea, in cui la proliferazione di diverse forme ed esperienze spaziali appare sempre più come un tentativo di dare respiro a nuove trame dell’esistenza, l’eterotopia costituita da Castellinaria – Festival di Teatro Pop è il felice coronamento del desiderio di delocalizzare i processi creativi e culturali dai grandi centri nazionali. L’impulso, nato dalla voglia di animare e valorizzare il territorio della Valle di Comino, ha ingenerato una rete socio-culturale di convivenza fra gruppi sociali eterogenei attraverso la valorizzazione della nuova drammaturgia e dello spettacolo dal vivo, con l’obiettivo principale di creare una comunità nuova che potesse modificare un luogo storico in una eterotopia di condivisione, di scambio e di confronto. Una frattura spazio-temporale del vivere quotidiano e una ricostruzione del contesto sociale esercitate, creando uno spazio reale altro, tanto perfetto meticoloso e ordinato quanto il nostro è disordinato, mal organizzato e caotico.
Sette giorni di festa fra spettacoli, incontri e laboratori, all’insegna delle arti e della coesistenza nel Castello di Alvito, splendido gioiello incastonato in cima alla Valle di Comino, per una manifestazione ideata e promossa dalla compagnia Habitas – composta da Niccolò Matcovich, Livia Antonelli e Chiara Aquaro – in collaborazione con Ivano Capocciama, sotto la direzione organizzativa di Anna Ida Cortese.
Gli spettacoli
A dare il via a Castellinaria è stato lo spettacolo E quindi uscimmo a riveder le stelle, tratto dalla Divina Commedia, con il celebre Giorgio Colangeli accompagnato da brani musicali scelti, composti ed eseguiti alla chitarra da Tommaso Cuneo a cui è seguito Teatro d’Arte dei Burattini del maestro burattinaio della Valle di Comino Fulvio Cocuzzo. Rappresentazioni che non abbiamo avuto la possibilità di vedere e di conseguenza non possiamo raccontarvi.
L’imbroglietto – Variazioni sul tema della Compagnia Habitas
Scritto e diretto da Niccolò Matcovich, il divertissement della Compagnia Habitas porta in scena Livia Antonelli e Valerio Puppo nelle vesti sgargianti di due mimi parlanti, intenti ad escogitare un piano per entrare in teatro forse per vedere il complesso teatrale, per attraversarlo oppure perfino per cibarsene.
Una composizione scenica surreale, tagliata e ricomposta secondo un’ironia clownesca, che si impernia sul lavoro accurato di rigorosa aderenza dei due attori rispetto alla forte caratterizzazione dei personaggi, dotati di un vocabolario coniato ad hoc di grande portata caricaturale. Fra loro e l’ingresso a teatro si presenta lo spettro di un Macbook Pro, automa meccanico di sbarramento burocratico, l’emittente vocale di una signorina virtuale alla biglietteria che deve pur richiedere un prezzo da pagare perché si possa entrare. Da lì comincia la corsa folle sulla scena dei due attraverso il tempo. Utilizzando ambientazioni stranianti e codici estetici sempre più esilaranti viene ripercorsa l’evoluzione della specie umana, dalle forme primordiali alle scimmie con dei chiari riferimenti alle scena cult di 2001: Odissea nello Spazio, fino ad arrivare in un futuro da Guerre Stellari combattuto con le spade laser.
Infine, i nostri, dopo tanto vagare, sono disposti a mettere in gioco sé stessi e tutto ciò che hanno, perdere ogni cosa per avere quel poco che in realtà è il loro tutto: il teatro. Una denuncia satirica verso la situazione paradossale del teatro entro cui molti sono costretti a sottostare; un monito e al contempo un impulso esilarante a porsi delle domande sulle condizioni di sfruttamento e di isolamento in cui molti lavoratori sono costretti a sopravvivere.
APLOD di Fartagnan Teatro
Concepito nel 2016, lo spettacolo APLOD rappresenta il primo tentativo di Fartagnan Teatro di coniugare la pratica teatrale all’interesse verso altre forme artistiche audiovisive digitali mantenendo alta l’attenzione sul tema della precarietà giovanile. La loro ricerca, infatti, prevede un’ibridazione fra la componente attoriale e quella drammaturgica finalizzate alla creazione collettiva e originale dei prodotti artistici, a cominciare dal dato autobiografico presente nella costruzione collettiva dell’opera.
Il modello drammaturgico utilizzato dall’autore Rodolfo Ciulla è quello di una puntata tipo da serie tv americana, giustificato dall’ambientazione distopica in un futuro non troppo lontano che, rappresentando un dispositivo estraneo alla forma propriamente teatrale, richiama a una dimensione cinematografica citazionista in cui sono facilmente ravvisabili i riferimenti a Pulp Fiction, Wolf of Wall Street, Il grande Lebowski, Fahrenheit 451, Breaking Bad e Black Mirror – come ci raccontano i componenti della compagnia. In questo senso, APLOD, rappresenta un’operazione da parte di Fartagnan Teatro di coinvolgere anche quel pubblico popolare maggiormente attratto da altre forme di intrattenimento, più accessibili e più facilmente fruibili rispetto allo spettacolo dal vivo.
Fartagnan Teatro, per trattare l’incertezza lavorativa dell’oggi, adotta la prospettiva di una società futura in cui la forte strumentalizzazione mediale diviene l’unica possibilità remunerativa, sebbene l’accesso e l’utilizzo dei più importanti siti di condivisione sia stato reso illegale dal governo. Una soluzione disperata che dà vita a una condizione paradossale declinata sulla scena tramite le figure iper-digitalizzate dei protagonisti – Michele Fedele, Matteo Giacotto, Ivo Randaccio, Federico Antonello – ossessionati dalla ripresa e dalla condivisione di video virali sulla piattaforma pirata APLOD, che li porterà, attraverso una escalation di situazioni tragicomiche, al culmine di un processo di disumanizzazione e di alienazione da cui è impossibile fuggire.
Questa è casa mia di Alessandro Blasioli
In Questa è casa mia, monologo scritto, diretto e interpretato dall’artista chietino Alessandro Blasioli, vengono ripercorse le vicende dell’infausto terremoto del 2009 a L’Aquila, attraverso la storia – dalle tinte fortemente autobiografiche – del protagonista, il giovane Paolo Solfanelli e della sua famiglia. A partire dal ricordo di quella notte maledetta in cui morirono 309 persone ha origine il racconto: la ricostruzione della città iniziata e mai conclusa, i cantieri, le tendopoli prigioni, il progetto C.A.S.E. e le New Town fanno da tetro scenario alla pièce.
Nonostante le tematiche tragiche trattate, lo spettacolo mantiene lungo tutto la sua durata quella carica satirica e dissacrante connaturata nella scrittura drammaturgica di Blasioli, abile nell’entrare e uscire dai diversi personaggi interpretati. In questa narrazione fra il serio e il faceto si alternano musiche popolari abruzzesi e conversazioni dialettali che con ironia si prendono beffa di certe usanze locali strappando quel sorriso intriso di amarezza.
Le notevoli capacità attoriali del performer abruzzese rendono quello di Alessandro Blasioli un teatro di impegno civile che non esitiamo a definire necessario, nella misura in cui all’intrattenimento, tipico di un certo teatro di narrazione più mainstream, abbina uno spiccato spirito di denuncia politica che ci porta a conoscere la realtà delle cose, a riflettere e sbatterci contro duramente fino a domandarci se «un giorno questo dolore ti/ci sarà utile».
SEMI di Vulie Teatro
Della discordia e dell’amore, dell’insoddisfazione e dell’incomunicabilità, del tradimento e della fedeltà: questi sono i semi piantati in scena da Ugo e Claudia. Dicotomiche frapposizioni che germogliano in un intricato labirinto relazionale raccontato dai Vulìe Teatro intorno a un tavolo da pranzo, luogo simbolo del confronto familiare. Una coppia satura, ormai in frantumi, che con il tradimento cerca di fuggire i soprusi di un amore al capolinea. Dialoghi serrati, dai ritmi frenetici, che Claudia conduce trascinando con sé il compagno Ugo in un vortice di amara comicità.
I Vulìe Teatro nascono dalla necessità di Marina Cioppo e Michele Brasilio – rispettivamente drammaturga e regista della compagnia ed entrambi attori di SEMI – di trovare un libero spazio d’espressione e di creazione entro cui mettere a frutto le proprie velleità drammaturgiche, attoriali e registiche. SEMI è uno spettacolo che parla di forti interazioni tra le persone, tutto giocato sull’esagerazione, sulla sopraffazione, sul superamento dei limiti, sulla scarnificazione dell’altro. Mettere in scena l’amore, tema ampiamente indagato in teatro, è un rischio che i Vulìe Teatro si assumono utilizzando la comicità per raccontare, con un’iperbole emotiva, il drammatico epilogo di una relazione amorosa.
Forte è il taglio cinematografico della regia con rimandi alla commedia francese, alla tradizione napoletana di Eduardo De Filippo e di Massimo Troisi echeggiante nel biascicato di Ugo, all’”unica situazione” da serie TV americana. Nell’assetto drammaturgico è lasciato ampio spazio all’improvvisazione, sostenuta dal dispositivo comico/spalla e dalla complicità dei due attori, che fa dello spettacolo un prodotto in continuo divenire.
La giovane compagnia casertana, lavorando su testi originali e su regie visionarie, ha l’obiettivo di produrre due spettacoli all’anno continuando a fare un teatro che svisceri i rapporti umani, in cui la suddivisione dei ruoli e delle competenze consenta uno spazio creativo indipendente, seppur all’interno di un progetto artistico comune.
Abu sotto il mare di Pietro Piva
Come un moderno Ulisse, nel maggio del 2015 il piccolo Abou, ivoriano di soli otto anni, viene trovato alla frontiera tra l’enclave spagnola di Ceuta e il Marocco nella valigia di una giovane donna che stava tentando di introdurlo in terra spagnola sotto compenso del padre. L’odissea di Abou finisce sul nastro dei macchinari a raggi x della frontiera, destando lo scalpore e l’indignazione dell’opinione pubblica rispetto alla ferocia delle condizioni di vita degli immigrati, disposti a sacrificare la propria dignità umana nel tentativo di realizzare il sogno di un futuro migliore.
In Abu sotto il mare, trasposizione teatrale della drammatica storia di Abou, portata in scena da Pietro Piva, la dimensione fiabesca fa da cornice al racconto del crudele viaggio che Abu affronta, immaginando ciò che il mondo gli riserverà dall’interno della valigia che lo trasporta. Piva, cerone bianco in volto, richiamandosi all’arte del mimo, indossa le vesti del piccolo migrante che dal buio della sua valigia emerge, illuminando il mare dell’immaginario in un gioco riflessi prodotti dalla rifrazione della luce sulla coperta termica che lo avvolge. La scrittura scenica si avvale di una struttura mobile che il performer abita sul palcoscenico per creare una stratificazione narrativa sospesa tra il racconto dell’esperienza del viaggio di Abou e la creazione di un fondale immaginario dove prendono vita le fantasie del bambino, fra sirene e pesci. Le possibilità della voce, importante supporto tecnico per la prova attoriale di Piva, sono ricamate su un tessuto drammaturgico che, insieme alla dedizione per l’impianto visivo dell’opera, crea un contrappunto emotivo di parole, luci, suoni e visioni di grande suggestività.
Rispetto alla costruzione visiva dell’immagine e alle soluzioni scenotecniche adottate da Piva, sono ravvisabili i riferimenti alle poetiche di grandi maestri come Claudio Morganti, Eimuntas Nekrosius, Roberto Latini – come lo stesso perfomer bolognese ci conferma nel dialogo post-spettacolo. Il teatro nella concezione di Piva è inteso come rituale catartico di matrice sacrale che sottende alla morte nella relazione fra l’attore e lo spettatore in uno spazio dove regna il silenzio puro veicolato da quel linguaggio che Beckett definisce “bucato” costruito su una partitura di pausazioni.
Laboratori
B-CLOWN Laboratorio a cura di Andrea Cosentino
Gioco, maschera e sguardo sono le tre tappe del percorso laboratoriale tracciato da Andrea Cosentino: una ricerca che fa dell’esibizionismo del clown e della fragilità della sua identità spettacolare, il punto di partenza per l’indagine del grado zero dell’esperienza performativa.
Celarsi dietro la maschera significa alterare la direzione dello sguardo, dunque la ricezione spettatoriale, ma anche avere la libertà di inventare delle azioni sceniche che, nell’improvvisazione, si fanno occasione drammaturgica per la scrittura teatrale. Giocare significa allora spogliarsi degli automatismi della tecnica, per riscoprire l’infantile emozione di un protagonismo che la primordiale stoltezza della performance nutre e rinvigorisce.
Bagaglio comune per i partecipanti al laboratorio è uno spunto narrativo che, senza volontà artistiche, stimoli una creazione scenica cosciente su base improvvisativa, articolata in brevi sketches. Che si tratti di esibizioni singole o comuni, ciò che Cosentino suggerisce è una attenzione all’interrogazione personale sulle modalità di sperimentazione, di lavoro e di realizzazione. Nella cornice del teatro comunale di Alvito, con un dialogo e un confronto costanti, Cosentino e i suoi, indossati i nasi rossi, producono dei numeri clowneschi la cui struttura, incerta per via dell’improvvisazione, è sostenuta dagli sguardi che gli attori si rivolgono in un contrappunto di contatto e scambio.
Com’è tipico del numero di clownerie, alla presentazione succede un momento di costruzione della scena in cui la creazione è fortemente enfatizzata per dar vita a qualcosa di inaspettatamente semplice. Guardare il pubblico con amore, affetto e ammirazione, vuol dire chiedere una partecipazione che non solo attiva il dialogo con lo spettatore ma che offre un’opportunità di potenziamento della gag, soprattutto se lo sguardo esibito è messo in contrasto con l’intenzione dell’azione. “B-CLOWN”, essere i clown di Cosentino, indica dunque la possibilità di tornare all’ingenua proposizione di sé stessi, liberi da finzioni e sovrastrutture tecniche ed esperienziali.
C’ERA QUELLA VOLTA CHE Laboratorio a cura di bologninicosta
Pubblico e privato si fondono nella rievocazione storica, in una ricerca archetipa da cui si origina una collazione di immagini e ricordi che danno forma al presente. Lo slancio creativo è il frammento mnemonico, il souvenir di un momento di vita che fa breccia nell’oggi, ora rileggendolo, ora rimodellandolo. La compagnia bologninicosta ha accompagnato i partecipanti al proprio laboratorio in quelli che gli abitanti di Alvito considerano i luoghi della memoria del borgo della Valle di Comino. Qui, la scoperta di eventi storici segnanti per la collettività indigena. La mistura di questi nuclei storico-narrativi e del ricordo personale dei partecipanti, ha fatto emergere la necessità di creare dei brevi racconti itineranti, imbevuti di sapere popolare, che sembrano in grado di dare una forma visiva e concreta alla tradizione orale.
Il rapporto con l’ambiente è forza motrice di un’azione scenica compiuta in site-specific e accresciuta dalla fisionomia dei luoghi, ottenuta mediante il totale coinvolgimento del corpo e dell’individualità degli attori. Ciò comporta una partecipazione volontaria quanto involontaria del tessuto cittadino, invaso dalle incursioni teatrali degli attori e delle attrici partecipanti al laboratorio. I violenti cambi di registro non destabilizzano l’attenzione dell’osservatore che, nella restituzione dei manufatti artistici del laboratorio, può trovarsi ad assistere al doloroso racconto di un conflitto a fuoco tra partigiani e tedeschi o al tragicomico sforzo di tre donne ciociare che, all’indomani della prima notte di nozze di una, tentano di provare agli occhi della comunità la verginità della sposa.
Nell’assoluta libertà di scegliere a quale personale ricordo attingere, gli attori e le attrici ottengono un risultato performativo la cui documentazione autentica e il cui processo immaginifico di creazione artistica disegna una dimensione soggettiva a partire dall’oggettività della realtà storica e comunitaria. Una ricerca, quella proposta da Sofia Bolognini e Dario Costa, teatrale e sociologica insieme mirante alla rielaborazione politica di antiche tracce di vita nella società moderna.
#Eteropiainaria
Sulle note di Mario Insenga e dei suoi Blue Stuff, cento lanterne cinesi sono volate in aria nella serata conclusiva del Festival. Ad accenderle il folto gruppo dello Staff e un gran numero di spettatori, autoctoni e forestieri, accorsi a sostenere una manifestazione capace di rinvigorire le possibilità aggregative delle arti performative nonché di rivitalizzare la proposta d’intrattenimento culturale della città di Alvito. Il successo di questa prima edizione, figlio dell’impegno, della passione e della professionalità della compagnia Habitas e di Ivano Capocciama per la direzione artistica e di Anna Ida Cortese per il comparto organizzativo, fa ben sperare circa la possibilità che questa eterotopia in aria possa divenire un appuntamento annuale in cui potersi sentire come i sognatori di Flaiano: uomini con i piedi fortemente appoggiati sulle nuvole.
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