Il Teatro Regio di Parma compie 190 anni

Il Teatro Regio di Parma compie 190 anni

Il 16 maggio 1829, con l’opera Zaira, composta per l’occasione da Vincenzo Bellini, Maria Luigia inaugurò a Parma il Nuovo Teatro Ducale, che la duchessa volle donare alla città. Dopo 190 anni, il Teatro Regio di Parma festeggia, giovedì 16 e sabato 25 maggio, con giochi, visite speciali e incontri aperti a chi vorrà ammirarne l’immutata bellezza e scoprire aneddoti e curiosità dei suoi quasi due secoli di storia.

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Il Regio ha vissuto e accompagnato le profonde trasformazioni che hanno caratterizzato la produzione operistica italiana e internazionale, mantenendo al contempo la capacità di interpretare un ruolo propulsivo per lo sviluppo culturale e sociale del suo territorio e della sua comunità. Tra i vari appuntamenti, la serata inaugurale del Nuovo Teatro Ducale sarà rievocata in un incontro, nel Ridotto del teatro giovedì 16 alle 17. La conversazione sarà impreziosita dall’esecuzione dal vivo di alcuni brani tratti dall’opera Zaira. La sala resterà poi aperta per visite gratuite fino alle 19.

LA STORIA:

La duchessa Maria Luisa (del Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla), sostenitrice della grande tradizione musicale, decise che il teatro Farnese era inadeguato alle esigenze della città. Nacque così, sul terreno già appartenuto al monastero di S. Alessandro e su progetto dell’architetto di corte Nicola Bettoli, il Nuovo Ducale Teatro, da 1.800 posti, la cui costruzione, che costò 1.190.664 lire, iniziò nel 1821 e si concluse dopo otto anni, nel 1829. Una scalinata porta alla Sala del Ridotto, dov’era il trono di Maria Luigia, che poteva accedervi direttamente dalle stanze del Palazzo Ducale. Fu inaugurato con scarso successo il 16 maggio 1829, in presenza della Duchessa, con l’opera lirica Zaira, appositamente composta da Vincenzo Bellini. Nel 1853 vennero attuate da Carlo III di Parma delle opere di rifacimento, affidate a Girolamo Magnani. Nello stesso periodo, con la presentazione del rinnovamento del teatro, venne inaugurato il lampadario che è tuttora in uso ed insieme ad esso anche il sistema di illuminazione a gas che sostituì il sistema con candele e lampade ad olio (l’elettricità arrivò solo nel 1890).

Nell’Ottocento la sala grande del teatro presentava delle sostanziali differenze rispetto alla struttura attuale: il palcoscenico si spingeva per qualche metro all’interno della sala nel luogo che è indicato come ‘proscenio’ che oggi è riservato all’orchestra, che a quel tempo occupava la zona designata per le prime file della platea. Nel 1847, con la morte di Maria Luigia e con il passaggio sotto il ducato dei Borbone, il teatro cambia nome, nel 1849 Teatro Reale e poi dal 1860 Teatro Regio. Fin dal Seicento i teatri erano stati per le città italiane motivo di onore e prestigio, oltre che strumenti culturali per il bene della società, ma dalla seconda metà dell’Ottocento vennero considerati un lusso non accettabile economicamente dalla comunità, perciò nel 1868 il Teatro Regio, fino ad allora proprietà dello Stato Nazionale (dal 1860), fu ceduto al Comune di Parma. Insieme ad esso vennero temporaneamente chiusi altri teatri molto importanti tra i quali la Scala di Milano (nelle stagioni dal 1892 al 1894), infatti era molto difficoltoso per i comuni il sostenimento di spese che neppure lo Stato era stato in grado di mantenere. Ma i cittadini parmigiani riuscirono grazie ad un referendum a far riaprire il Teatro Regio per la stagione del 1894-1895.

THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

Sono emozionato, ho trovato il biglietto per la prima del teatro “alla Scala” e con esso tra le mani attraverso, a passi felpati, il corridoio dei palchetti, pensando già alla meraviglia che da qui a poco si magnificherà davanti ai miei occhi. Con accuratezza tento di aprire la porta, devo fare forza, fino a che una volta riuscitoci l’imbarazzo più totale mi fa desistere dall’entrare. Chiedo scusa a chi, all’interno, dopo aver chiuso le tendine del palco, si sta scambiando effusioni; chiudo la porta. È lunedì 26 dicembre 1831, Santo Stefano; a alla Scala di Milano c’è la prima della Norma di Vincenzo Bellini e a teatro è possibile fare anche questo: l’amore, come in un moderno privé. Guardo bene il biglietto, è colpa mia, ho sbagliato palco, entro in quello affianco, quello giusto, ci sono due signorotti per bene che gentilmente mi salutano, ricambio, noto che hanno con loro del cibo, stanno mangiando, per ora, dopo chissà; nel dubbio mi siedo.

Nel XIX secolo il teatro di prosa perde la sua rilevanza, gli attori, quelli importanti, sono i tenori, considerati interpreti completi che danno forma al genere teatrale più in voga: l’opera lirica. Sono questi gli anni del grande attore. Qui, oggi, nel 1831, quando lo spettatore si reca ad uno spettacolo l’unica cosa di cui si interessa, anticipatamente, è sapere da chi l’opera sarà interpretata, quali sono gli interpreti protagonisti. Nasce il gossip, quello sui vip. Questo grazie anche ai giornali che si occupano sempre di più, seriamente (e non), di critica teatrale, seguendo spesso le vite dei protagonisti della scena e generando così il mito del grande attore che cambierà la concezione del teatro avuta finora: il teatro degli attori, la compagnia, diventa dell’attore, il divo.

Nel frattempo il sipario si alza, inizia l’opera, il coro canta: “Ita sul colle, o Druidi, Ite a spar ne’ cieli…”; ed io mi perdo nella magnificenza della scena che soddisfa del tutto la mia curiosità. Appena il coro finisce di cantare sento sbatter le porte degli altri palchi e poi anche quella che chiude il mio posto… è incredibile, gli spettatori si fanno visita tra loro come se fossero ognuno a casa propria ad ospitare l’amico. C’è chi è addirittura appoggiato al parapetto del palco con le spalle rivolte al palcoscenico, disinteressato completamente allo spettacolo. Ogni tanto qualcuno butta un occhio, qualcun altro esclama, “io vedo solo gli intermezzi ballati”, qualcuno poi, “ancora deve uscire Donzelli”, il tenore. Mi vien da pensare: possibile che solo io trovo insensato questo comportamento? Mi guardo meglio intorno e la risposta è: no! C’è pure chi con un monocolo all’occhio guarda interessato ma infastidito l’opera proprio come a chi, invece, sembra dar fastidio la musica che di sottofondo (dell’opera) disturba le sue ciarle. Il teatro è un momento centrale della vita degli uomini dell’Ottocento, un momento di svago, un occasione di incontro. Non c’è la televisione, il cinema, il campionato di calcio, Sanremo e le canzonette, il concerto, non c’è nient’altro che il teatro come fonte di divertimento. Ed è una macchina economica non di poco conto; proprio per questo lo Stato italiano nel 1868 introdurrà una tassa del 10% sugli introiti lordi delle rappresentazioni teatrali per far fronte ai debiti finanziari del Bel Paese.

Finita la prima della Norma, tra applausi scroscianti e gente in visibilio, tutti si portano all’uscita degli artisti, vogliono vedere, alcuni toccare, conversare con il tenore Domenico Donzelli e la soprano Giuditta Pasta, sanno tutto di loro; un signore mi ha mostrato su di un foglio le loro carriere, anno per anno, le opere a cui hanno preso parte, proprio come si farebbe oggi con i calciatori e le squadre in cui questi hanno militato. Io, mi allontano dalla calca, dalla confusione e gironzolo nella capitale del Regno Lombardo-Veneto pensando a quel che sarà il teatro negli anni venturi, non so cosa mi piaccia di più. Ora, immaginatevi questa situazione sociale del teatro e pensate a come un attore di prosa si possa inserire nel divismo perpetrato dall’opera lirica, a come possono reggere il confronto quelle piccole compagnie di guitti con le grandi compagnie iper-finanziate dell’opera. Per scoprirlo ci dobbiamo spingere giusto di qualche anno più in là del 1831 e andare a Firenze.

Tredici maggio 1865, in occasione di alcune celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri, al Teatro Cocomero (oggi Niccolini) di Firenze va in scena Francesca da Rimini di Silvio Pellico. Fin qui niente di importante per gli uomini di quel tempo, lo abbiamo detto, gl’interessa soltanto sapere chi è il grande attore che si esibirà. Lo spettacolo è significativo perché vede in scena, insieme, i tre attori considerati “i più grandi del tempo”: Adelaide Ristori; Ernesto Rossi; Tommaso Salvini. A guardarli in scena la prima cosa che si nota è la loro tecnica attorica con la quale riescono a fronteggiare il successo di quelli dell’opera lirica. Il grande attore di prosa è riuscito a forgiare un tipo di comunicazione che accomuna volto, gesto, voce, creando una tensione drammatica che riesce ad attrarre anche lo spettatore più distratto. Difatti l’attore Salvini, interpretando con la sua verità il personaggio cattivo del Lancillotto riesce a far affezionare il pubblico anche al suo personaggio negativo. La sua interpretazione sarà ritenuta da tutti fenomenale. Il grande attore di prosa si è adattato agli ampi palcoscenici dei teatri dell’opera con i suoi movimenti balenanti; con gli intervalli di musica sotto forma di partitura musicale. È il cosiddetto animale da palcoscenico: Salvini intona le sue battute con le tonalità da basso, Ernesto Rossi con quelle del baritono, Adelaide Ristori recita in inglese pur non conoscendolo. Nessuno ai loro spettacoli ha nostalgia del melodramma, recitano le parole in modo armonioso, il loro copione è un vero e proprio spartito musicale.

Il teatro di prosa alla fine dell’Ottocento è ad appannaggio del divo. Il grande attore non si preoccupa più del valore artistico del testo che è visto come una intelaiatura in cui agisce il personaggio da interpretare a proprio gusto, spesso lo stesso personaggio, infatti, infonde nel pubblico un’impressione contraria a quella prevista dal drammaturgo. Per meglio far comprendere la situazione ho tra le mani alcune lettere intercorse tra Adelaide Ristori e il drammaturgo Paolo Giacometti, in una in particolare si legge della preoccupazione dell’attrice sui costumi di Maria Antonietta, personaggio che la stessa dovrà interpretare in un’opera drammatica che l’autore, a cui l’attrice si rivolge, ancora non ha scritto; difatti la Rinaldi ci tiene a precisare al povero drammaturgo: “il costume viene prima del testo”.

Sto per lasciare Firenze e il 1865 con una certezza, questi appariscenti divi del teatro hanno donato l’intera vita alla loro arte attorica che non consiste nel ritrovare, “semplicemente”, ogni volta se stesso nel personaggio, ma piuttosto nello sforzo di annullare sé nel momento stesso in cui si crea il personaggio. D’altronde negli anni a venire la Rinaldi rinfaccerà alla sua erede, Eleonora Duse, il fatto che la giovane interpreti un repertorio limitato di personaggi tutti uguali, e sostanzialmente tutti eguali a se stessa, invece di cimentarsi nello sforzo dilacerante di annullarsi per dar vita all’altro. Un attore può avere tutte le doti possibili, ma se gli manca quella “della trasformazione della sua soggettività”, proprio come un autore fa quando compone, resta solo un semplice attore, afferma Ernesto Rossi che dà a questa attitudine, del grande attore, una malcelata qualità divina, innata, che non si può “acquistare mediante lo studio”.

Gli attori dell’Ottocento, dunque, vissero anche di vana gloria, ma gli va ascritta col senno di poi che la loro fama fu davvero costruita con fatica e meticolosa dedizione, oggi che i divi son ben altri, beh non vedo poi così strano il secolo del romanticismo e, come un grande attore, solo me ne vo per la città a intonare anche io la mia voce e non chiedetemi chi sono perché son pronto a diventare un altro.

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Theatropedia è un blog di Aniello Nigro concepito come enciclopedia essenziale, raccontata, del Teatro. Fonte di informazioni per un primo approccio alla materia e spunto prolifico di approfondimenti tecnici. Segue un suo percorso tematico (non sempre cronologico) dall’origine del Teatro ai giorni nostri, ogni voce è formata da una parte romanzata ed una parte tecnica dell’argomento in questione. Ad affiancare le voci principali ci saranno poi quelle correlate dei protagonisti che siano essi drammaturghi, registi, attori o altro.