#Incontri: il Teatro archetipico di Filippo Gili fra il classico e il contemporaneo
Filippo Gili, diplomatosi come attore presso l’Accademia nazionale d’arte drammatica “Silvio d’Amico” di Roma, dopo aver lavorato negli anni ’90 in diverse messe in scena di Luca Ronconi si rivela uno dei più prolifici e versatili artisti del panorama nazionale come regista e autore di numerose opere teatrali e cinematografiche. Ha diretto i lungometraggi Casa di Bambola, Prima di andar via, L’ultimo raggio di luce firmando le regie teatrali di Porte chiuse da Sartre, Spettri da Ibsen, Oreste da Euripide scritto a quattro mani con Marco Bellocchio, Tre sorelle da Cechov e l’Amleto con Daniele Pecci. Nel gennaio 2016 è andata in scena, con la regia di Francesco Frangipane, la sua Trilogia di mezzanotte, nonché, con la sua regia, l’Antigone di Sofocle al Teatro dell’Orologio e Zio Vanja al Teatro Argot nell’ambito del progetto Sistema Cechov sempre realizzati con Uffici Teatrali, la compagnia di cui è cofondatore. Lo abbiamo incontrato a pochi giorni dall’inizio delle rappresentazioni di Aspettando Godot per discutere delle condizioni storiche e delle espressioni artistiche proprie della nostra contemporaneità da cui prendono vita le creazioni sceniche di cui Filippo Gili è stato e sarà ancora artefice.
A cosa è ascrivibile il grande interesse artistico che, alla luce del tuo percorso di attore, di regista e di autore, hai rivolto in maggior parte al repertorio del teatro classico? Quanto è stata determinante la passione letteraria verso i testi classici nel favorire la tua produzione registica e drammaturgica?
Non lo so, per me è stato un percorso piuttosto composito. Non lego la mia attività di drammaturgo alla mia predilezione verso il teatro classico. Più come regista mi interessa il teatro classico, per classico intendo dire fino a pochi anni fa, Beckett ha scritto nel ’48 “Aspettando Godot”. Sono attratto dagli universali, dagli archetipi, il teatro classico ne è zeppo: da Eschilo fino a Beckett li abbiamo tutti. Ho proprio la sensazione di ritrovarmi sempre al centro dei problemi umani al di là della contemporaneità. La nostra contemporaneità si caratterizza di elementi e su temi che possono essere specifici di questa età, non nego a queste caratteristiche il loro valore ma certo quello che penso e sento è che rispetto alle problematiche fondamentali dell’uomo le parole più importanti sono già state dette, parecchio tempo fa, rispetto alla condizione dell’uomo, alla condizione della famiglia, dell’individuo. Quindi io sono – non so il perché – fatalmente attratto da questi senza una ragione che vada al di là di un sentimento armonico che mi fa vibrare di più. Se parliamo di crisi familiare per esempio ci sono dei testi anche contemporanei che ne sviluppano una straordinaria analisi però sono più attratto da quello che è stato capace di dirne e di implementarne Ibsen. Così vale per tanti altri temi legati alla questione postmoderna, sono attratto da Sartre o da Beckett piuttosto che da altri contemporanei. La mia attività di drammaturgo non so quanto c’entri direttamente con questo. Io scrivo spesso opere che trattano condizioni psicologiche piuttosto fondamentali. Anche qua vale lo stesso discorso: sono opere svincolate da una identificazione storica legata alla propria contemporaneità. Sono contemporanee perché l’ambientazione è sempre contemporanea però ci troviamo di fronte a temi che possono fare il filo con certi complessi antichi. Mi riferisco al complesso di Elettra, il complesso di Edipo oppure in “Prima di andar via” c’è la condizione dell’uomo che decide di suicidarsi ma per farlo lo comunica la sera stessa alla famiglia così identificando la questione dell’addio fra vivi. L’addio fra vivi è un patrimonio umano che è stato perduto, per colpa o grazie al fatto che il progresso e la tecnocrazia della contemporaneità nel Novecento hanno consentito il superamento di questo tipo di condizione però è una condizione che ha caratterizzato per millenni l’uomo.
Secondo questa prospettiva la drammaturgia coeva si sta spingendo sempre di più verso una dimensione sceno-centrica con il rischio che la figura del drammaturgo di professione come è stata per tanto tempo scompaia definitivamente. Cosa ne pensi a riguardo?
È una scommessa di cui non conosco la capacità di uscirne vittoriosi. Io so che ciò che rimane da sempre sono i problemi fondamentali. Le maschere o la cosmesi del realismo storico-ambientale ovvero le questioni che sembrerebbero più contemporanee di altre, sono sempre state in qualche modo alla fine al vaglio della lunghezza e del tempo che scorre, sempre soppiantate dall’eterno galleggiamento delle strutture di base. Ritengo che sicuramente oggi esista una drammaturgia che resisterà al tempo, io credo che in ogni epoca ci sia stata la drammaturgia contemporanea che poteva sembrare estremamente efficace ma di cui, al dunque dei 50 o dei 60 anni, si sono perse un po’ le tracce. Invece sono rimaste le tracce di quelle varie fasi di diverse contemporaneità che però sono state in grado di far risuonare delle corde, che, all’interno di un’ambientazione legata a una identificazione contemporanea, avessero la qualità di far risuonare dei timbri che riguardassero l’uomo nella questione fondamentale del suo essere. Chiaramente c’è la questione dell’essere del Novecento che è una questione differente rispetto a quella dell’Ottocento. A mio avviso nel tempo non rimarrà una tipologia di drammaturgia ma riusciranno a rimanere sempre quei culmini all’interno delle varie situazioni drammatiche che saranno stati capaci, nell’odore del tempo vivente, di proporre dei gusti più legati alle questioni eterne.
In questo scenario si inserisce perfettamente Aspettando Godot che esprime in maniera universale la sostanza irrudicibile dell’essere. Quali sono i parametri filosofici e artistici che hai perseguito per l’analisi e la rappresentazione di questo capolavoro?
Io credo che farò un seminario tra aprile e maggio e lo intitolerò Beckett ovvero tutt’altro che assurdo. I motivi mi che mi hanno spinto a lavorare su Beckett sono tanti: uno, un po’ più spicciolo però estremamente accattivante per me, è quello di accarezzare la possibilità di creare un presupposto di lavoro artigianale che si svincoli dal “beckettismo” e dal “beckettiano” quindi riuscendo a trovare degli orizzonti che sono piccoli passi ma che driblino questa specie di coazione a ripetere un po’ stilistica, molto legata a certi grandi autori, per esempio per Cechov c’è il “cechoviano” o per Beckett il “beckettiano”. Per me è sempre stato una piccola sfida il fatto di decechovizzare Cechov o debeckettizzare Beckett cioè uscire fuori da quei gangli coartanti dello stilismo strutturalistico, saggistico e scenicistico con cui hanno etichettato questi grandissimi autori. Per me Beckett non è beckettiano, Aspettando Godot non è affatto una situazione assurda o quanto meno è assurda nella misura in cui la si veda da lontano ma per chi la vive da dentro non è assurda. Aspettando Godot in particolare è uno studio sul linguaggio, uno studio sulla conversazione, sul posto moderno conversativo, sul postmoderno discorsivo, sul postmoderno riflessivo ma in ogni istante in cui viene affrontato questo studio estremamente realistico non è affatto consapevole di essere assurdo. Questo è sempre l’errore che fa la regia o fa l’attorialità nell’istante in cui interpreta un autore: è come se già imitasse il senso globale dell’autore stesso mentre il senso globale non va imitato, va ricostruito con la capacità di un mosaicista di lavorare tassello per tassello e alla fine poi vedere l’immagine. Mi sono avvicinato a Beckett innanzitutto perché è un genio assoluto e ha una capacità di inquadrare la questione fondamentale dell’essere ossia, messi sotto ipnosi, Vladimiro ed Estragone non vorrebbero mai incontrare Godot così come è chiaro il fatto che tutto si incentra intorno alla questione del domani. Il domani è l’invenzione più atroce e più perversa del contemporaneo positivista legato alla concezione post baconiana del progresso che in qualche modo disinnesca la capacità dell’immediatezza sul vivere oggi, l’hic et nunc, il now non esiste più. La tecnocrazia di cui in qualche modo il ‘900 è divenuto Sistema è legata alla connessione dell’aggiornamento del 2.0, del 3.0 e quindi alla religione del domani ma il domani è come un cane che si morde la coda, è l’uomo che cerca di afferrare la propria ombra. Il domani non esiste perché il domani, per definizione, sarà un oggi diverso che tende a un nuovo domani. Questo Beckett lo racconta benissimo ma questo domani che è la nostra religione in realtà è una cosa di cui psicologicamente Vladimiro ed Estragone sono meravigliosi portatori, qualcosa di cui non hanno nessuna voglia di liberarsi. La psiche non vuole liberarsi, non vuole l’inveramento del domani perché la psiche è reazionaria per statuto che si identificata in una modalità conservativa. Ciò che fonda questo testo non è Godot ma è il gerundio “Aspettando”: la vita è aspettando e se da questa attesa dovesse liberarsi la vita andrebbe totalmente in tilt.
Chi o cosa si cela sotto le spoglie irreali di Godot per Filippo Gili?
Io dovrei disturbare il mio inconscio e dirti chi è Godot – aggiungendo altresì che tutto voglio tranne che vederlo. Questa è la risposta seria per quanto mi riguarda, perché Godot non fa niente – come dice perfettamente il testo – e non fare niente in chiave parmenidea vuol dire non essere niente. In questo senso non essendo niente è evidente che Godot sia il concetto del domani cioè la protensione verso il domani. Il domani non esiste è un concetto che sarà sempre sfuggente, è una furbizia del post-moderno che giustifica la propria inadempienza all’immediatezza attraverso la divinizzazione. Dio è il domani, se togliessimo il concetto di domani a Dio, Dio non esisterebbe più. La morale di Josaphat sta alla fine dei tempi, e la fine dei tempi è il domani di tutti i domani ma Dio non c’è – per quanto mi riguarda. Quindi è un patto chiaro questo qua sui miei desideri che siano il nulla ma facciano finta di essere tutto.
Se in Godot si reincarna idealmente l’attesa umana del domani, cosa ti aspetti per il tuo domani come uomo di teatro?
Io spero di non avere Godot e credo di non avercelo: spero di imparare sempre di più della vita e dalla vita vivendo momento per momento, giorno per giorno, situazione per situazione. Poi è chiaro che il mio domani è ancora legato a un neo-romanticismo sulla questione della rivelazione della possibilità di fare questo lavoro in maniera più serena, più libera, più ricca con maggiori chance di libertà ideativa, creativa e realizzativa. Però in realtà il mio vero Godot è la possibilità di vivere con serenità la vita e di viverla cercando di soffrire il meno possibile e di essere all’altezza di ciò che siamo. Questo è il mio Godot.
Come è stato il periodo di lavoro insieme a Luca Ronconi? Cos’hai imparato dal Maestro?
Come attore poco perché a mio modo di vedere Ronconi era un regista che rovinava gli attori perché aveva un atteggiamento rivelazionale e meraviglioso. Era un grandissimo lettore dei testi e oltretutto un grandissimo attore realista. Poi non si sa per quale motivo, a un certo punto delle prove, durante il passaggio dal tavolino alla messinscena si creava una specie di effetto matrix che corrompeva chimicamente il bel lavoro fatto nella visione codificata di un atteggiamento recitativo cosiddetto ronconiano che tale non era – per me Ronconi non era ronconiano. Però Ronconi ha scelto il ronconiano in una specie di sua isteria identificativa nata da una voglia di rompere la tradizione della compagnia dei giovani, da quegli anni ’60 pesantissimi dove lui è stato un genio assoluto avendo già rotto con la tradizione; è come se si fosse portato un po’ troppo appresso fino alla morte la sua capacità di essere un giovane ribelle. Il suo “Aspettando Godot” cioè il ribellismo anti-realismo andava contro la sua stessa natura, una natura estremamente realista quando recitava e quindi anche quando leggeva il testo. Invece di portarlo a una deriva in qualche modo decodificata è rimasto una specie di anti-codice del codice teatrale filo-drammatico che ha creato lui in un altro mostro codificato. Ronconi con gli attori lavorava in maniera coartante, non favoriva la identificazione della natura espressiva dal punto di vista individuale con questa sorta di dogma dell’odio verso l’interiorità – che posso condividere perché l’interiorità è quasi sempre poca cosa. Però l’interiorità è una cosa e la natura espressiva è un’altra: io non potrei mai vedere a teatro un attore perché si esprime attraverso delle scelte espressivamente diverse dalle sua, va convogliato infatti come dico sempre agli attori: “per me questo mestiere è bello perché è un viaggio all’interno di sé stessi”. Che significa? Significa che io se ho cinquant’anni e sono una brava attrice e ho la mia vita e faccio Ecuba nelle Troiane il mio viaggio è quello di capire che cosa accadrebbe a me in quelle condizioni. Il viaggio non è la scoperta di ciò che si è ma di ciò che non si sa di essere, secondo me. Dato che tutti quanti noi abbiamo per nostra sfortuna una grande quota contemporanea legata a ciò che siamo adesso ma è impossibile che in noi non vi sia una quota archetipica sempre più distrutta dalla nostra contemporaneità – per me un attore deve essere messo in condizione di far risuonare la corda verso la questione archetipica. Il che vuol dire che se ti dice male ti ritrovi a Rigopiano con l’albergo crollato o stai a Norcia o ad Amatrice e ti cade la casa addosso e ti muore un figlio e lì tocchi l’archetipo. Se non ti dice male provi a fare questo mestiere nei panni di una che ha davanti Troia distrutta e ti ci devi mettere: il che non significa che Ecuba diventa te né che tu diventi Ecuba, significa che fai quel viaggio all’interno di ciò che non sai di te simulando e immaginando in chiave aristotelica, quali archetipi comportamentali scattano a fronte di certi archetipi situazionali.
Il teatro degli archetipi racconta delle cose che non sono più raccontabili oggi perché per fortuna o per sfortuna nostra la guerra non c’è più, i grandi drammi non esistono cioè quelle grandi cose che caratterizzano drammaticamente l’uomo sono mediate dal punto di vista giornalistico, quindi non sono più reali. Con Ronconi questo non accadeva, accadeva che lui non ti metteva in condizione di fare questi viaggi e ti imponeva il suo sguardo creando un marionettismo formalistico dal basso verso l’altro, con grandi attori marionetta e piccoli attori marionetta che in qualche modo portavano avanti un progetto piuttosto infantile ed egotico nel senso di rappresentare sé stessi. Per me è stato un amore Ronconi, mi ha insegnato tanto ma come regista e anche inconsapevolmente perché quando lavoravo con lui non pensavo che avrei fatto il regista. Molte delle questioni sull’apparato scenico le ho apprese da lui però me ne sono molto discostato nel corso dei tempi sempre di più, negli ultimi anni massivamente, rispetto alla questione della rappresentazione. Per me ciò che si vede in scena deve essere espressivamente concreto – si potrebbe aprire una forma di concretismo cioè che passabile o meno dal punto di vista uditivo – io non lo affronto diversamente da come affronterei il cinema. Non ne faccio una questione formale, però penso che quando gli attori dicono le battute devono essere concreti; poi la scommessa – qua ho imparato da Ronconi totalmente – sta nel fatto che il database delle battute non è il teatro ma la vita. Il teatro spesso è autoreferenziale, il teatro fa il teatro quindi non puoi rubare al teatro l’archivio dati delle varie intonazioni o dei vari modi che si associano a certi comportamenti ma alla vita: la vita è una maestra superiore al teatro, il teatro incoscienziosamente ha sintetizzato la vita in una serie di variabili tremendamente inferiori per numero. Ecco, rubare alla chimica della vita applicando un criterio di lettura il più possibile intelligente e profondo per trovare alla fine intonazioni, modalità, volumi, timbri o tonalità espressi da un attore che non li abbia mai utilizzati prima ma che siano i suoi. Non li ha mai utilizzati perché non è mai stato messo in condizione di doverli utilizzare però la voce è la sua, la timbrica è la sua, l’espressività è la sua, il naso, la bocca e il corpo sono i suoi.
Come hai affrontato il passaggio registico dal teatro al cinema? C’è una possibilità di ulteriore allargamento degli orizzonti teatrali in ambito cinematografico?
Il mio sogno è di fare grandi film delle grandi opere teatrali. Non ci sono i mezzi in questo paese e in questo momento per poterlo fare. Sono sempre stato una vela al vento, forse ancora infantile sotto certi aspetti. Quindi sempre un po’ bovaristicamente teso a sfuggire al complesso di responsabilità e quindi passare dal fare l’attore al fare al regista, dal fare il drammaturgo al fare lo sceneggiatore, non so se è una cosa molto sana e di maturità piuttosto che una sorta di indicatore di intenzionalità di mantenere viva la vita all’interno di cambiamenti che in qualche modo deresponsabilizzano paradossalmente rispetto all’esito di una scelta. Io per sfuggire agli esiti della scelta ho sempre cambiato, mi sono creato un mondo di competenza su vari aspetti ma non avendo mai focalizzato niente sono andato avanti più in là, questo per certi aspetti è meglio per altri è peggio. Io non mi sento un teatrante, mi sento una persona con la passione per l’indagine sulla vita e quindi quando mi sono ritrovato la possibilità di fare altro ho scelto altro per curiosità o perché in altro trovo altre possibilità di poter esprimere i risultati di certe ricerche. Se dovessi celebrare al livello di senso e di significato non saprei dire, mi sono trovato per caso a scrivere una drammaturgia o a dirigere – forse non per caso ma apparentemente per caso. Una condizione psicologicamente fondamentale è stata quella di non fare i conti con gli esiti di ciascuna scelta; la cosiddetta viltà della vita cioè la paura di sbagliare, di fallire, di rivelarmi come attore. A un certo punto c’è quella specie di macro-inganno che tutti corriamo, banalmente: “Ce l’ho fatta o non ce l’ho fatta? Non mi pongo il problema, mi faccio un altro viaggio”. Io vorrei avere più possibilità economiche per poter fare gli spettacoli, non ho ancora quel registro di riconoscibilità che mi consente di fare quello che mi pare, dal punto di vista artistico sono contento di ciò che sono. Mi rendo conto che il mio indicatore non è sulla questione del fallimento, quest’ultima non te la giochi mai dal punto di vista artistico, è sempre una questione sociale. Il rapporto con gli amici, il rapporto con i parenti, il rapporto con la persona che ami. Non è un problema artistico, mi sono sempre sentito all’altezza della situazione; è un problema di realizzazione sociale, è quello che ti fa fuggire. Il mio metro è basato sugli spettacoli che faccio, da quel punto di vista sono molto contento di quello che faccio, degli attori con cui lavoro, delle situazioni che creo, sono felice di questo e vorrei farlo un po’ di più. Anche se probabilmente negli anni precedenti abbiamo fatto tante cose, l’indicatore artistico è la mia centratura. Dal quel punto di vista mi sento molto equilibrato.
Redattore