Esserci, resistere e avere fiducia. Attraverso queste tre azioni il festival TorinoDanza ha portato avanti e concluso l’edizione 2020 in mezzo alle ben note difficoltà produttive, creative e logistiche che hanno indebolito il già delicato e precario sistema dello spettacolo dal vivo. Il festival invia una chiamata al suo pubblico, rilancia uno sguardo sul futuro che per un momento ci aiuta a comprendere in che direzione stiamo andando.
Tra i lavori presentati in questa edizione troviamo Toccare. The White Dancedi Cristina Kristal Rizzo. La coreografa porta sul palco un lavoro che risponde tacitamente a molte condizioni e riflessioni nate dall’isolamento del lockdown. In una dimensione dove la prossimità dei corpi e il contatto sono elementi esclusi dalla costruzione coreografica, Rizzo ridefinisce il “toccare” come modalità di condivisione comunicativa che non passa attraverso l’imposizione di una presa o la costruzione di gesti definiti e leggibili, ma si affida totalmente a una dinamica di equilibri fra spazio vuoto e corpo, accelerazioni e sospensioni.
Immagini aeree, eteree, fragili – con un rimando esplicito alle atmosfere da ballet blanc – che non temono di fermare il movimento e si lasciano decifrare come schemi iconografici ricorrenti. Si avvicendano, immersi nelle luci taglienti di Gianni Staropoli, le corporeità di Annamaria Ajmone, Jari Boldrini, Kenji Paisley-Hortensia, Sara Sguotti e la stessa Rizzo, attraverso continui rimandi a una co-presenza fra dimensione reale e virtuale, evidente nella presenza degli smartphone. I performers instaurano un rapporto di ascolto delicato e sensibile della partitura di Jean-Philippe Rameau (Pièces de clavencin) eseguita da Ruggero Laganà, Antonella Bini ed Elio Marchesini.
Un panorama totalmente diverso viene mostrato nel mixed bill composto dagli spettacoli di Alan Lucien Øyen, Wang Ramirez e Hofesh Schechter. Øyen presenta due pièce di repertorio, And…Carolyn (2008), su musiche di Thomas Newman e Sinnerman (2014). Il primo è un duetto che riporta lo spettatore a una visione della danza come atto coregrafico attraverso una modalità compositiva molto chiara, di sapore nordeuropeo.
Due corpi, quelli di Daniel Proietto e Mai Lisa Guinoo, in sintonia perfetta e che ci riportano ad un momento in cui la vicinanza e il contatto erano una prassi comunicativa consueta. Sempre Proietto danza l’assolo Sinnerman, infrangendo il virtuosismo accademico sulle note della cantante Nina Simone.
AP15 (2010) è il titolo del duetto composto da Honjji Wang e Sébastien Ramirez: una relazione ironica costruita attraverso il linguaggio dell’hip hop, come un ipercinetico processo di conoscenza fra due individui che raccontano contrasti, affetti e sfaccettature emotive senza mai cedere dalla precisione tecnica e musicale.
Schechter presenta invece Untitled(2005) ed è la sua stessa voce a raccontare “about life, love and death”. Un dialogo cadenzato come un metronomo attraverso il corpo della danzatrice “Elisabetta” (Rachel Fallon), rimettendo allo sguardo molteplice e solidale dello spettatore che si ritrova nella somiglianza con le altre persone, nella condivisione di uno spazio e di un respiro comune.
Dimitris Papaioannou riconferma con il nuovo progetto Ink. An in–between project la propria statura di artista visionario e mai scontato, in bilico tra l’estasi del corpo e creazione di un immaginario emotivo che si presta alla contemplazione. Il palco è invaso dall’acqua, il silenzio interrotto dal ritmo accelerato di un irrigatore e dal getto che colpisce i fluttuanti teli di plastica che chiudono la scatola scenica.
In questo spazio umido e in penombra lo stesso Papaioannou gioca con l’irrigatore, ne sperimenta le possibilità e lascia che questo getto inzuppi completamente i vestiti: un eremita, un individuo che pare affidare a questa abluzione lo scorrere dei pensieri e la cancellazione della memoria, in una sospensione temporale che pare eterna.
Papaioannou inizia una lotta nel tentativo di dominare uno strano elemento, una figura indefinita che emerge dal pavimento, come un rettile. Questa lotta svela un corpo nudo (Šuka Horn), dalla carnagione chiara che, liberatosi dalla trappola, ribalterà questo rapporto di sopraffazione, piegandolo a una danza di corpi che si tratteggia talvolta di seduzione e morbosa dipendenza reciproca.
L’immaginario della cultura mediterranea viene ribadito da un polipo – all’interno di una boccia di vetro –che diventa da feticcio, testa di neonato da accudire e poi distruggere per mantenere il potere. La bocca di vetro segna un rito di passaggio, un battesimo verso un nuovo immaginario.
Il viaggio che Papaioannou intraprende in questa creazione sospende il tempo in una dimensione cinematografica, attraverso un uso minimale di musiche d’antan, le cui note si percepiscono appena grazie al suono di un giradischi. Rappresenta una stanza della psiche, tra archetipi e oscure presenze della mente, costruendo una dimensione della memoria e del desiderio più recondito, tra immagini surreali che richiamano l’Ulisse di Giorgio De Chirico e chiari riferimenti a Vollmond di Pina Bausch.
Dimitris Papaioannou non cerca ispirazione, ma dialoga e recupera, attraverso la soglia tra due mondi, la weltanschauug della celebre coreografa, come già dimostrato nello stück creato per il Tanztheater Wuppertal dal titolo Seit Sie (Since She, 2018).
A 250 anni dalla nascita di Beethoven, Simona Bertozzi con il quartetto d’archi torinese NEXT porta al festival una creazione in cui la Die Groβe Fuge op.133 diventa ispirazione per un lavoro di sperimentazione sulla materia sonora: le tonalità contrastanti, le interruzioni inaspettate e il virtuosismo emozionale di questo quartetto si infrangono con le fluttuazioni e le intermittenze di Zwischen Den Zeilen di Wolfgang Rihm e con la calma apparente di Ad io di Riccardo Perugini.
Tra le lineedi Bertozzi si costruisce attorno ad un potente incontro tra questo complesso organismo musicale e una dimensione coreografica estremamente lucida: custoditi all’interno di bolle fluttuanti di nylon, cinque corpi (Giulio Petrucci, Manolo Perazzi, Sara Sguotti, Oihana Vesga, Simona Bertozzi) creano una ouverture che risuona come una eco, un’attesa che prelude all’impetuoso attacco.
Perazzi e Petrucci aprono a questo scenario definendo una partitura ricorrente e segnando con il corpo una precisa spazialità e una precisa caratterizzazione, lasciando spazio all’energico duo Sguotti/Vesga e alla danza tagliente e sempre al limite dell’equilibrio di Bertozzi. Le cinque traiettorie si tagliano, si intersecano e a volte trovano direzioni inaspettate in un dialogo con la musica che talvolta ridiscute, si oppone, cerca un’altra strada.
In dialogo con Anna Cremonini, direttrice dal 2018 del festival, si è discusso sulla sua personale esperienza nella progettazione e riprogrammazione degli spettacoli in questo periodo di emergenza sanitaria. Quali limiti sono emersi e cosa hanno permesso di scoprire? Cremonini vede nei limiti delle nuove possibilità, e sottolinea il fatto che il Teatro Stabile di Torino ha tenuto aperte le porte anche durante i mesi estivi con una programmazione ad hoc, dando un segno importante alla città e confermando la stagione di Torinodanza.
Anna Cremonini: La mia attitudine è stata di rivolgermi agli stessi artisti che erano stati invitati, confermando gli italiani previsti in programma, dando loro una “carta bianca”: stando insieme nella stessa situazione, possiamo ripensare alla programmazione con qualcosa di nuovo o attraverso la ripresa del repertorio.
Rinviare le date per gli artisti è dura, quindi l’idea di riconfigurare la loro presenza è importante. Ed è altrettanto prioritario poter mantenere la cifra internazionale che il programma ha sempre avuto, perché vedere ciò che viene realizzato all’estero aiuta anche la nostra coreografia a crescere. C’è chi infatti ha portato a sorpresa una produzione nuova come Sidi Larbi Cherkaoui e Dimitris Papaioannou.
Quali riflessioni sono emerse come programmatrice e quali sensazioni hanno caratterizzato questa esperienza?
AC: Sto capendo una cosa: noi stessi programmatori forse siamo meno tesi al “risultato a tutti i costi”; possiamo prenderci il gusto di lasciare più spazio agli artisti, di condividere con loro uno spazio di ricerca e sperimentazione che forse prima, con l’ansia di arrivare allo spettacolo, riceveva un’attenzione più limitata.
Questa cosa ha sottolineato i tempi e le modalità del processo, ci ha reso più complici con gli artisti anche verso l’ignoto. Io mi sento molo più partecipe di un percorso creativo: la situazione ci ha privato di un’ansia di prestazione e ha restituito al processo creativo una funzione più originaria.
E il pubblico?
AC: Anche il pubblico impara che ogni processo è ignoto e che il risultato può essere relativo: si insinua la sensazione di essere tutti in un terreno non familiare in cui dobbiamo scoprire quello che accadrà. Il distanziamento che vive il pubblico rende la sensazione dello “stare insieme” molto più rarefatta, e quasi si chiede aiuto al palcoscenico per restituire questo “respiro comune”.
Si sta affidando ad ogni individuo il proprio ruolo: all’operatore di rischiare sui progetto, all’artista di rischiare sulla propria identità e ricerca e al pubblico di essere il tramite e destinatario finale. Nel momento di difficoltà la funzione che svolgiamo nella società diventa determinante.
E gli artisti?
AC: Una delle cose più toccanti è stato vedere i danzatori entrare in scena dopo otto mesi che non calcavano un palco, è stato commovente, e questo trascolora nelle produzioni: ad esempio, in tutta la sua formalità lo spettacolo di Papaioannou è forse il più drammaturgicamente compiuto tra quelli che ha prodotto.
Questa esperienza dovrebbe aiutarci a essere forse meno autoreferenziali e ci invita a non fare finta che nulla sia successo. La menzogna in palco non è prevista: se menti in scena le cose non funzionano. Bisogna avere l’onestà intellettuale di guardarci dentro, nel microcosmo del teatro abbiamo la possibilità di farlo.
In un ottobre più caldo del previsto, mi ritrovo nel cortile delle Fonderie Limone, “una fabbrica delle arti” ricavata dalla struttura di questa ex-industria, nascosta tra la zona industriale di Moncalieri e quella residenziale di Nichelino, alle porte di Torino. Incontro Anna Cremonini, che è subentrata nel 2018 a Gigi Cristoforetti nella direzione di Torinodanza.
Esperta nel settore della produzione e organizzazione dello spettacolo dal vivo, si è formata al Teatro Due di Parma e ha collaborato con il Teatro Festival Parma. Successivamente ha lavorato per quattro anni alla Biennale di Venezia e poi al Mercadante di Napoli. Responsabile organizzativa per il festival Equilibrio all’Auditorium Parco della Musica di Roma, è stata nominata alla Commissione responsabile della valutazione qualitativa sul FUS per il settore danza. Emerge subito da questo incontro la capacità di Anna (mi ha puntualmente chiesto di chiamarla per nome) di mettere a proprio agio l’interlocutore e la sua volontà di “stare sul campo”, arrivando a ogni appuntamento del festival in anticipo e parlando con tutti gli spettatori. Come essere invitati a una cena, con tutti gli onori di casa. Ci siamo presi quindi qualche minuto per scambiarci delle impressioni sul festival, che ho cercato il più fedelmente possibile di riportare.
Mi sono trovato, dopo diversi anni passati a seguire il festival Torinodanza – e in particolare queste ultime edizioni – a definire questo evento come una tavola anatomica: ovvero un festival che mostra al pubblico diverse parti della danza di questi ultimi anni, sia nelle sue parti più conosciute e “popolari” – l’epidermide – sia nelle sue espressioni sperimentali, più interne al panorama. Lei si trova d’accordo con questa mia definizione? Inoltre ho rilevato che in questo festival trovano spazio coreografi affermati come Sidi Larbi Cherkaoui (con cui Cremonini vanta un lungo rapporto professionale di collaborazione, ndr) e Akram Khan, i quali ereditano il bagaglio dei grandi maestri europei, ma anche uno spazio dedicato alle sperimentazioni degli autori italiani.
La lettura che hai dato al festival è interessante in quanto è un punto di vista esterno al mio: forse proviene dal fatto che cerco sempre di darmi delle motivazioni per scegliere uno spettacolo. Cerco di lavorare con degli artisti perché in qualche modo restituiscono una visione della realtà, di una vita, di un qualcosa del nostro essere contemporanei: chi come Akram Khan lo fa in maniera più manifesta, con un sottotesto ideologico e politico che si porta sulla pelle (Khan è figlio di migranti dal Bangladesh in Inghilterra, ndr) e chi lo fa in maniera più astratta o traslata. Il comune denominatore di questi artisti credo sia la volontà di raccontare qualcosa di noi, attraverso il corpo: è un corpo moderno, contemporaneo, sensibile alle sollecitazioni ed ai contrasti. Gli artisti ci aiutano un po’ a capire il mondo in cui viviamo, un mondo che cambia tutti i giorni, si sgretola intorno o si ricostruisce.
Queste sono le parole che direbbe una persona che fa creazione, solitamente: io vedo sia una direzione artistica ma anche una precisa volontà creatrice.
Innanzitutto vengo dalla produzione teatrale, quindi ho una sensibilità al palcoscenico e so cosa succede a chi sta lì sopra. Non sono una creativa, ma seguo da sempre l’attività creativa: credo comunque sia più complesso fare uno spettacolo rispetto a un festival. In qualche modo però anche la composizione di un festival è in qualche modo una dichiarazione d’identità.
Torino ha un rapporto particolare con il teatro e con i festival, e anche con il progetto di rilevamento seguito dall’Università è emersa una diversificazione rilevante e un’attenzione a quello che avviene. Qual è stato il tuo impatto con questa realtà?
Quando ho seguito l’edizione del 2017, l’ultima diretta da Gigi Cristoforetti, ho potuto osservare in maniera più dettagliata gli spettatori, avendo la sensazione che il pubblico torinese sia di cultura medio-alta: percepisci una densità nell’osservazione, una forma equilibrata di assenso e dissenso. Non è un pubblico compiacente e anche se non ho avuto fortunatamente manifestazioni di dissenso, si rivela comunque esigente e costruisce un rapporto basato sulla fiducia.
In Italia si discute molto del fatto che un festival sia un momento di sintesi, una summa di quello che succede in questo settore: su che cosa si dovrebbe lavorare dal punto di vista dell’offerta e del dialogo con le istituzioni?
Io ho avuto il privilegio di essere arrivata in un festival che esiste da molti anni e ha costruito un rapporto con la città: sicuramente penso che una proposta di qualità – indipendentemente dal budget – crei un rapporto con il pubblico. Io mi sono inserita in una storia già tracciata. Noto con grande piacere che in Italia i festival di danza contemporanea esistono, crescono, hanno un pubblico, godono di un’attenzione più alta rispetto al teatro contemporaneo. La danza forse interpreta dei bisogni nuovi. In Italia non abbiamo i “Grandi Festival” – come ad esempio in Francia con Avignone – ma abbiamo delle dislocazioni, dove si è creata una maturità, un’esperienza. Sicuramente sono stati fatti molti passi avanti anche nei rapporti con le istituzioni; bisogna andare avanti, insistere, migliorare la qualità dell’offerta perché la stessa migliora la qualità della domanda, e questa significa una volontà collettiva più consapevole.
Un’ultima domanda: si parla poco di chi si affaccia al lavoro della direzione artistica: dal titolo di studi universitario, al tirocinio in ufficio, alla “gavetta dietro le quinte”: cosa consiglieresti a una persona che si affaccia a questo mestiere?
La mia esperienza suggerisce di avere tanto coraggio, ma soprattutto vedere tante cose: anche ciò che sembra non servire. Tutto aiuta a formarsi un’idea, un gusto, una visione. Io ho fatto tanti passaggi e cambi di visione, quindi ho rischiato. Sono fortunata, perché sono una donna e sappiamo che per noi l’evoluzione di un percorso professionale non è sempre facile – soprattutto nella fase che io chiamo “l’ultimo miglio” – ma credo si debba abbassare l’età media. Io ci sono arrivata tardi a questa maturità, ma credo che prima o poi debba arrivare una generazione di giovani: sicuramente fare esperienze diversificate e in luoghi diversi aiuta a formarsi un patrimonio personale spendibile.
Sidi Larbi Cherkaoui, celebre coreografo belga di origini marocchine, ha portato sul palco del Teatro Regio di Torino – per l’inaugurazione del festival Torinodanza, per il secondo anno sotto la direzione di sotto la direzione di Anna Cremonini – lo spettacolo Sutra, presentato nel 2008 al Sadler’s Wells di Londra. Un’opera che da più di dieci anni continua a girare per il mondo portando i frutti di un incontro – non inconsueto nell’ambito teatrale – fra Europa e Asia, nato da una visita che il coreografo ha compiuto in un tempio Shaolin in Cina. Da questo viaggio è emersa l’ispirazione per uno spettacolo in cui i monaci portano le tecniche e le pratiche del Kung Fu Shaolin. La scenografia, composta dallo scultore Antony Gormley (scenografo anche degli spettacoliBabel (Words), Icon, Noetic, Zero Degrees), consiste in una serie di scatole aperte, a misura d’uomo che ciclicamente trasformano i paesaggi in cui i monaci si muovono: sono letti, gusci, pesanti bare da portare nel percorso, montagne da scalare, simulacri di una lotta continua o di un rito ancestrale.
Cherkaoui e un bambino giocano con delle miniature che replicano la scena principale, sopra una di queste scatole dal colore argenteo: riconoscibile nella scelta illuminotecnica e cromatica, l’estetica “cinematografica” che contraddistingue la firma dell’artista, già riconoscibile in Noetic e Icon. La musica – dal vivo – è eseguita dietro il fondale semitrasparente e condotta da Szymon Brzóska. Un lavoro energico, cesellato con precisione in un continuo ripetersi di movimenti repentini, marziali, senza sosta e con il cambio delle scene affidato al gioco delle scatole simile a un Tetris. Emerge nel lavoro un momento in cui gli interpreti eseguono, seduti sopra queste strutture, una partitura composta con i gesti dell’alfabeto muto, come una preghiera rituale rivolta allo spettatore. La struttura performativa tipica dello spettacolo di danza contemporanea – con le sue attese, i passaggi calibrati e una visione organica della creazione – non si amalgama con la pratica del kung fu, destabilizzando lo spettatore e portandone la visione su un altro piano, quello dello spettacolo come momento di abbattimento di una frontiera a favore di uno spazio di verso una cultura lontana dalla nostra e dalle radici profonde. Il tema della lotta si materializza in una sequenza fatta di virtuosismi energici, che non si conclude nel rapporto binario vincitore – sconfitto, ma in una sfida che è parte della disciplina dei monaci.
Ma se da una parte il lavoro di Larbi Cherkaoui si colloca nella linea della danza teatrale europea con le influenze interculturali – che sono anche parte della storia dell’autore – coniugate alle tecniche ereditate dalla danza europea di fine Novecento, in questa edizione del festival viene riservato un grande spazio anche alla danza italiana, e in particolare in luoghi specifici della città sabauda.
Michele Di Stefano, autore di punta della danza italiana con la sua compagnia MK,in Orografiatrasforma la collina torinese in un palco verticale in cui la danza s’inscrive nel paesaggio semi-urbano, non catturando completamente l’attenzione – rapita in gran parte dall’ascolto della voce di Di Stefano che racconta, immerso nel paesaggio sonoro di Lorenzo Bianchi Hoesch, il suo percorso tra le montagne. Biagio Caravano apre questa “escursione” sulla terrazza del Monte dei Cappuccini portando il pubblico a seguire prima il suo gioco coreografico e successivamente quello di Roberta Mosca e Laura Scarpini, fino a strizzare gli occhi in direzione dei Murazzi del Po, dove si può vedere un corpo che danza vicino all’acqua, mentre un battello da cui si spande fumo colorato, risale verso piazza Vittorio. Come ha commentato Michele, “la danza è realizzata dalle persone che si trovano in quel luogo”.
Sempre sul Monte dei Cappuccini, all’esterno del Museo della Montagna, Marco Chenevier regala a un pubblico intimo e incuriosito di Torinodanza la sua visione di Purgatorio ovvero Aspettando Paradiso. Chenevier è coreografo, danzatore e regista valdostano e vanta una lunga esperienza professionale in Francia con Isaac Alvarez, fondatore della compagnia TIDA Teatro Instabile di Aosta e creatore del festival T*Danse. In questa sua creazionela struttura morale, topografica e narrativa ricreata da Dante è reinterpretata da Chenevier come in una fatica sportiva, agonistica, associabile alla salita verso il Paradiso cantata nella Commedia.
«Se voi la sapete, mostrateci la via per salire sul monte» II, 58
A mostrarci questa via al Torinodanza è Théo Pendle, danzatore di grande intensità e dotato di una plasticità fisica che si rivela solo con l’intensificarsi della danza e il cui vocabolario ricorda James O’Haranel Faun del già citato Sidi Larbi. Indossa una sorta di capospalla con piume nere, definite e pesanti come le scaglie di un pesce ed entra nello spazio come in un’immersione verso una dimensione altra, intermedia, cercando il passaggio che lo porterà a destinazione. Il centro dello spazio è occupato da una struttura cubica dalle pareti trasparenti e dal soffitto traforato. Una serra, una vetrina, un’incubatrice. Uno spazio in cui il Dante di Chenevier trova ristoro e purificazione: dal soffitto scende una pioggia salvifica, che dapprima scioglie il pesante cappotto del performer e gli permetterà di scivolare all’interno di questo lago, giocando con l’acqua e sciabordandola contro le pareti della struttura.
«Quando noi fummo là ‘ve la rugiada
pugna col sole, per essere in parte
dove, ad orezza, poco si dirada,
ambo le mani in su l’erbetta sparte
soavemente ‘l mio maestro pose:
ond’io, che fui accorto di sua arte,
porsi ver’ lui le guance lagrimose:
ivi mi fece tutto discoverto quel
color che l’inferno mi nascose. »
(I, 121)
Il lavoro termina con Alessia Pinto ed Elena Pisu che dipingono degli occhi sulle pareti della struttura, che come Catone L’Uticense traghettano il viaggiatore – e il pubblico – verso il Paradiso attraverso gli occhi di Beatrice. Non acquista particolare rilievo la musica dei Godspeed you! Black Emperor. Un lavoro al festival Torinodanza che dimostra la consapevolezza scenica di Chenevier e la dimestichezza con cui Enrico Pastore tratta una drammaturgia così delicata, dimostrando quella capacità – spesso latitante negli short pieces e negli studi della recente danza d’autore– di concepire un progetto-spettacolo nel suo impianto totale e multidisciplinare.
«E sì come secondo raggio suole uscir del primo e risalire in suso, pur come pelegrin che tornar vuole,
così de l’atto suo, per li occhi infuso ne l’imagine mia, il mio si fece, e fissi li occhi al sole oltre nostr’uso.»
Il festival TorinoDanza si riconferma anche quest’anno come una delle realtà più consolidate sul territorio nazionale per la diffusione della danza nelle sue declinazioni più variegate. Se la direzione di Gigi Cristoforetti con questa edizione è giunta al termine, questo evento rimane per la città di Torino un biglietto da visita e un appuntamento irrinunciabile per gli appassionati, ma soprattutto per il pubblico della città affezionato alla sua cultura teatrale.
In particolare questa edizione ha inaugurato e chiuso il suo programma nella splendida cornice del Teatro Regio di Torino: sotto la sua “nuvola” luminosa il festival è iniziato con lo storico Roméo et Juliette di Angelin Preljocaj, creato nel 1996 dal coreografo francese, fondatore della compagnia che porta il suo nome nel 1985. In questa rilettura del dramma Preljocaj, di origini albanesi, inserisce questa storia d’amore nel panorama dei totalitarismi nell’Europa dell’est, dopo la caduta del muro di Berlino. Nell’ambientazione futuristica, che richiama l’immaginario di una città sovietica, l’antagonismo non è fra le due famiglie ma fra due ceti sociali: uno benestante e difeso da uno stato militare – che richiama le ambientazioni di Fahrenheit 451 – e l’altro di homeless, una piccola società di esclusi senza regole. La partitura coreografica, agli occhi di uno spettatore odierno può risultare assolutamente anacronistica e l’aderenza alla struttura del balletto tradizionale risulta così forte da rendere prevedibile fin dall’inizio la drammaturgia dell’opera. Stridono talvolta i passaggi tra gli ensemble originali di Preljocaj e gli assoli dei giovani danzatori, assolutamente contaminati dalle tecniche contemporanee, in cui è evidente l’intervento creativo dell’interprete. Nonostante ciò, i ventiquattro danzatori rimangono coerenti in quanto a energia e dinamica alla partitura musicale di Prokofiev: in particolare notevole l’interpretazione di Mercuzio, che riscuote l’ovazione del pubblico, e il duetto d’amore di Romeo e Giulietta che mantiene il lirismo struggente della versione di MacMillan. L’unica nota debole dell’opera risiede nelle scene di lotta e della morte dei due giovani innamorati: Preljocaj cerca di rappresentare tutto, spesso arenandosi ad una pantomima poco credibile.
Al teatro Carignano è andata in scena la Candoco Dance Company, il cui nome significa “si può fare” (Can Do Company), che lavora in tutto il mondo con artisti diversamente abili. Questa compagnia si è cimentata in Set and Reset/Reset (2016), una rielaborazione del famoso Set and Reset di Trisha Brown del 1983, ricombinando con la coreografia di Reset, che i danzatori hanno eseguito per la prima volta nel 2011. Lo spettacolo di Trisha Brown è il simbolo della convivenza fra la danza e le arti nell’America dei ruggenti anni Settanta: la musica di Laurie Anderson e i costumi furono ideati da Robert Rauschenberg, il quale lavorò soprattutto con Merce Cunningham, Paul Taylor e Steve Paxton. Se Trisha giocava con le immagini, libere associazioni di idee ed elementi acrobatici, metteva in scena costumi ariosi e molecolari, la compagnia Candoco non manca di sottolineare la genialità dell’artista, in un tributo alla sua recente scomparsa. I danzatori sottolineano la necessità dell’altro per la creazione di una forma, di un corpo collettivo che rimane sempre in sospeso e gioca con le stampelle, con una sedia a rotelle, con l’assenza di un arto. Uno spettacolo che trasforma ciò che si definisce come disabilità in un punto di forza, che non fa mancare nulla a uno spettacolo che già in origine era di grande difficoltà.
Nella cornice post-industriale delle Fonderie Limone Moncalieri è andata in scena la compagnia italiana, Aterballetto, sotto la nuova direzione di Gigi Cristoforetti e con la supervisione artistica di Pompea Santoro. La serata inizia con Non sapevano dove lasciarmi…, ironico spettacolo di Cristiana Morganti, ex danzatrice solista del Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch. I danzatori di Aterballetto si cimentano con la voce, mettono in scena la propria storia professionale e le proprie vicende in uno spettacolo che non si risparmia in momenti di euforia virtuosistica e ironia: prendono in giro elementi kitsch della danza accademica ed elementi estetici della formazione di un danzatore, si interfacciano con il pubblico in un riconoscimento della propria identità di genere e della propria umanità. La Morganti cuce addosso a loro uno spettacolo intelligente, in cui il protagonismo del danzatore prevarica l’altro, si accumula in maniera ridonante nel passaggio del microfono tra tutti i performer. Se da un lato il tentativo di una comicità teatrale in certi momenti risulta sovraccarico, dall’altro in questo lavoro si ricorrono ad espedienti già ampiamente sperimentati nella storia della danza di ricerca: le urla sovrapposte e concitate verso il pubblico non hanno una reale risonanza nel corpo e l’uso del linguaggio accademico in alcuni punti sembra giustapposto. Nonostante queste perplessità, il lavoro risulta ricco e scorrevole, pieno di spunti di riflessione e di una concreta empatia con il pubblico.
Nella stessa serata Aterballetto va in scena con Wolf, nuova creazione del coreografo israeliano Hofesh Schecter. L’opera vede un corpo di ballo scosso da una coreografia estremamente precisa a livello musicale e ritmico, con un uso dei tagli, del controluce e delle ombre estremamente cinematografico che caratterizza da subito la cifra stilistica del coreografo. L’attenzione è sempre rivolta verso il basso, creando un rapporto diretto con lo spettatore non basato su sguardi e comunione di intenti ma su una sintonia fisica, sulle fila di ritmi e dinamiche rituali ed ancestrali. Hofesch abbatte le diversità fra gli esseri umani e cancella l’incomunicabilità fra le diverse culture attraverso la danza sola, senza espedienti di alcun genere. La compagnia Aterballetto in questo repertorio ha tirato fuori le unghie, allargando il proprio bagaglio a qualcosa di diverso dalla sua consistente nomea di compagnia di balletto contemporaneo: vero che in alcuni momenti i danzatori risultavano poco disinvolti in quel materiale, non tenendo quindi costante il livello di energia della scena, ma bisogna sottolineare la grande capacità dimostrata nell’incorporare il lavoro di Schechter.
A chiusura del festival la Gauthier Dance Company / Theaterhaus Stuttgart regala uno splendido trittico di grandi coreografi made in Israel: Hofesh Schechter, Sharon Eyal – Gai Behar e Ohad Naharin. Il primo è autore di Uprising, spettacolo tutto al maschile caratterizzato da continui attraversamenti dello spazio in cui i performer intrecciano relazioni che rispondono ai diversi caratteri dell’universo maschile: aggressività, fisicità, capacità di creare unione e reciproco sostegno, senza alcuna anelito estetizzante o sensuale. La coreografia di Schechter non abbandona la frontalità, né la rispondenza tra le varie sequenze che rispondono ad una – spesso esasperata – celebrazione della coreografia. Ma chi conosce l’opera di questo acclamato autore ne coglie subito la cifra stilistica. A seguire invece un lavoro di sole donne, un riallestimento in breve di Killer Pig: per Sharon Eyal e Gai Behar il corpo femminile è palesato in ogni sua curva, esposto ad una contemplazione dei suoi dettagli, avvolto in aderenti costumi dai colori chiari. La plasticità estetica di questo lavoro è assolutamente preponderante, mentre il linguaggio compositivo va a ricomporre i codici di una lezione di danza accademica, con schemi precisi e geometrici che ricordano le influenze di Impressing the Czar di William Forsythe. La magia ipnotica creata dalle danzatirci, assolutamente assimilabile alla parte solista di Feelings (visto a Reggio Emilia con la compagnia NDT II, sempre del duo Eyal-Behar), è appesantita da un tappeto musicale ripetitivo, persistente ma assolutamente non funzionale alla fruizione, che copre l’intero – forse troppo lungo – gioco di coreografie delle danzatrici. A chiudere lo spettacolo il celebre Minus 16di Ohad Naharin, pezzo iconico del 1999 della Batsheva Dance Company che mette insieme estratti da altri spettacoli. Il pubblico è ancora fuori per l’intervallo, o chiacchera amabilmente mentre il primo dei danzatori già danza con un leggerissimo cha-cha di sottofondo: quando finalmente il pubblico rientra all’interno dello spettacolo (perché questo Naharin ricerca), il sipario si riapre sulle compagnia intera, presa dall’energia di una danza rituale (Zachacha). Segue il leggero e magistrale duetto di Mabul (1992) sulla musica di Vivaldi: in questo duo Naharin parla della sua idea conflittuale di rapporto, che rimane sospeso fra un contatto grezzo di corpi e una preghiera di ascolto. Chiude questa parte il celeberrimo Echad me yodea, eseguito in maniera impeccabile dalla compagnia di Eric Gauthier: rituale, trascinante ed energico l’ensemble delle sedie, e perfettamente riuscito il coinvolgimento di alcuni spettatori portati direttamente sul palcoscenico a danzare con loro. L’unico elemento che strideva era nella declamazione rituale del canto, che risultava un grido esasperato.
Il festival TorinoDanza anche quest’anno ha dimostrato di essere uno degli appuntamenti fondamentali tra gli eventi di danza sul territorio italiano, allargandosi al pubblico di una città che si propone come laboratorio di idee, creazioni e rinnovamento.
Se rimane pur vero che i tempi che stiamo vivendo, per chi lavora in teatro, sono tempi oscuri e pieni di incertezza, il mantenimento di appuntamenti come Torinodanza (e molti altri) si pongono come punti di eccellenza del patrimonio di una città che negli ultimi due anni ha vissuto un vero e proprio taglio netto – e ingiustificabile – a molti dei suoi eventi culturali. Doveroso ricordare che la città sabauda è rinata dalle ceneri di fumoso agglomerato industriale grazie anche alle sue politiche culturali, che in anni di consolidamento hanno intrecciato rapporti con centri di eccellenza italiani ed europei e coinvolto la cittadinanza a conoscere patrimoni che altrimenti sarebbero stati dimenticati.
Il Festival Torinodanza omaggia Pina Baush, la coreografa tedesca morta nel 2009 tra le più note della storia della danza, con la presentazione il 29 settembre al Circolo dei Lettori di Torino del volume ‘Con Pina Baush’ (Jaca Book) di Jo Ann Endicott.
Jo Ann Endicott era una giovane ballerina australiana di tecnica e potenza elevatissime quando Pina Bausch, capofila del Tanztheater, la conobbe a Londra e ne comprese il carisma e il talento, facendola entrare nel suo gruppo. Da allora le due donne della danza furono inseparabili e Jo Ann Endicott, dopo la morte della Baush, decise di scrivere un libro per immortalare questa storia. A illustrare la vita e l’arte della Bausch, artista che cambiò per sempre la storia della danza contemporanea mondiale, sono al tavolo il direttore di Torinodanza, Gigi Cristoforetti e la giornalista e studiosa di danza, Leontetta Bentivoglio.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
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