Pane, amore e condivisione. La dimensione umana e teatrale di Tindaro Granata

Pane, amore e condivisione. La dimensione umana e teatrale di Tindaro Granata

Tindaro Granata sta a Situazione Drammatica come il lievito madre sta alla realizzazione di un ottimo pane. «Non esiste un rito più antico, più importante che fare il pane – dichiara Granata.  Tutte le usanze e le tradizioni sociali sono arrivate dopo perché abbiamo avuto da sempre l’esigenza di nutrirci. La trasformazione della panificazione è come la parola scritta che si trasforma in parola viva e trasforma chi l’ascolta».

All’interno di Romaeuropa Festival, nella sezione Anni Luce, due sono state le occasioni per conoscere alcuni dei più interessanti nuovi autori della drammaturgia italiana. Il primo turno, dedicato al Premio Hystrio, con il testo Amore storto di Christian Di Furia, vincitore del Premio Scritture di Scena, e con Anna, di Tommaso Fermariello, segnalato nell’ambito della stessa rassegna con una menzione speciale.  
Il secondo, invece,che ha visto in un’unica serata avvicendarsi Nicolò Sordo con il suo testo Ok Boomer, vincitore del Premio Pier Vittorio Tondelli e Pier Lorenzo Pisano con Carbonio, vincitore del Premio Riccione.

«Il format Situazione Drammatica nasce nel 2019, prima del grande cambiamento mondiale con la pandemia – afferma Tindaro Granata. È nato con l’idea che gli spettatori e le spettatrici riuscissero a far parte del momento di conoscenza del testo, del momento di creazione di passaggio che c’è tra la parola scritta e la parola viva, recitata».

Come si innesta e qual è l’influenza tra Situazione Drammatica e il tempo presente?

Ho sempre desiderato che le persone capissero quali sono i meccanismi che sono nascosti dietro l’arte teatrale. Alcuni potrebbero pensare che un po’ di fascino si perde con un’operazione così. Io credo invece che possa far acquisire maggiore consapevolezza, attenzione e cura nei confronti di un’opera da parte degli spettatori e delle spettatrici.

Trovo che Situazione Drammatica sia più che mai necessaria oggi. Innanzitutto perché si ristabilisce un rapporto molto intimo tra l’opera e gli spettatori, i quali scoprono e capiscono meglio cosa succede, che cosa c’è prima che uno spettacolo diventi concreto. 

È molto importante che il testo venga vissuto, che sia nelle mani degli spettatori, partecipi di un processo artistico non solo in modo concettuale, ma anche fisico. Avere il formato cartaceo permette non solo di staccarsi dalla quotidianità, ma anche di avere un rapporto diverso con le cose. Ultima cosa, ma non meno importante, in questo modo si prende parte al processo creativo e ognuno realizza questa esperienza in modo diverso

Durante la cosiddetta “prova a tavolino”, quella che si fa i primi giorni, quando ci si incontra con tutta la compagnia per la prima lettura di uno spettacolo, a me succede che mi si apre il cuore, osservando gli attori che cercano di arrivare alle cose, è come sentirsi parte di quella storia. Volevo che questo sentimento lo provassero tutti gli spettatori e le spettatrici.

Concludo dicendo che, in questa era Covid, in questa fase storica, ho sentito l’esigenza maggiore di utilizzare la musica dal vivo durante le letture, un forte desiderio di avere il live, il vero il qui e ora. Abbiamo imparato sulla nostra pelle che l’unico modo che noi abbiamo per comunicare è scrivere. Testi, canzoni, musiche. Abbiamo avuto bisogno di esprimerci, di raccontare, di dire la nostra e questo per ogni persona è veramente importante.

Il processo di scrittura è un processo di solitudine, di ricerca interiore. Qual è il tuo rapporto con entrambe le cose?

A questa domanda rispondo non solo da attore ma anche in qualità di drammaturgo. Recitare mi porta a confrontarmi con la vita, ad avere un approccio estroflesso con il mio lavoro. Come se avessi bisogno di esercitare una parte che non sta solo dentro di me ma anche fuori. L’esposizione, mettere il proprio corpo davanti agli spettatori, alle spettatrici, vivere le proprie sensazioni, porta inevitabilmente a essere collegati con l’esterno. La scrittura, invece, è proprio l’opposto. Per scrivere c’è bisogno di chiudersi, di stare dentro, di vivere nel proprio mondo interiore. È come chiudere le finestre del corpo senza nessun affaccio verso l’esterno. 

E questa cosa è molto importante perché dà la possibilità, in un certo senso, di fare una sorta di autoanalisi, ai fatti della propria vita e del mondo. Chi scrive ha la fortuna di possedere due cose uguali e opposte: una grande analisi del mondo, di sé stesso, di ciò che ci circonda e questo permette di scendere in profondità al tema che si vuole trattare. Dall’altro lato, però, la parte faticosa è che questo ti costringe a fare i conti con sé stessi in maniera molto spietata perché nella scrittura difficilmente si può essere bugiardi con sé stessi.  

Teatro e drammaturgia: in quale direzione ci stiamo muovendo?

Quello che noto rispetto ai testi di tanti giovani che leggo è una caratteristica comune, quella di essere racconti molto indefiniti, dove non ci sono i personaggi così come li intendiamo noi, è tutto molto più confuso.  In questa parola, di cui non so quale sia l’etimologia esatta, mi piace pensare che ci sia una fusione, una “cooperativa diffusione” inventando un’origine che non è quella precisa. 

Una cosa che registro è che i ragazzi e le ragazze di oggi che scrivono fanno fatica a stare ancorati con la realtà, nel senso che hanno sempre l’esigenza di far entrare nei loro testi qualche elemento strano, assurdo. Televisori parlanti, personaggi alieni, l’acqua colorata di rosso.
Non so bene se avviene questa tendenza perché il mondo della tecnologia permette di creare realtà virtuali oppure perché non si è capaci di gestire qualcosa di molto più semplice e quindi si ha bisogno di ricreare mondi fantastici. È come se ci fosse una forma di  iperrealtà. 

Un’altra cosa che sto notando, e questo purtroppo è un problema del teatro europeo, è che la drammaturgia, in un certo senso, è asservita alle mode, alle tendenze del momento. Faccio un esempio: ultimamente non si parla d’altro che di clima, giustamente, perché è un problema centrale, importante e tocca tutti. Mi si può dire che la drammaturgia e i drammaturghi seguono le esigenze, raccontano il nostro tempo, ed è anche vero. Il problema è che viene chiesto tutto in maniera molto meccanica e quindi diventa una moda. 

Poi, però, succedono delle cose e si capisce che un testo può essere bello a prescindere, quando va oltre le mode, quando supera la richiesta che fa il mercato e buca ogni sua regola, arriva, sta lì ed è presente. Noi Italiani abbiamo la fortuna di essere così tanto diversi, sono differenti le nostre lingue, i nostri dialetti, è diverso il nostro modo di pensare e questa è la ricchezza, la risorsa più grande che abbiamo. Se comprendessimo meglio questa nostra diversità, avremmo tanti autori, tante autrici in più che parlano e scrivono usando la loro lingua vera. E di conseguenza sono unici, sono uniche.

Una panoramica globale, uno sguardo e una riflessione personale sulle due serate di Situazione Drammatica a Roma.

Innanzitutto sento di fare un grande ringraziamento al pubblico che è stato presente in quelle serate. È stato un regalo meraviglioso, momenti di festa e di scambio. Dico sempre una cosa agli artisti selezionati per fare le letture: Situazione Drammatica non è una serata di dimostrazione, nessuno deve dimostrare quanto ha scritto bene, quanto recita bene ma è una serata di condivisione. Chi ha scritto una storia porta la gioia di condividerla con le persone che vengono ad ascoltarla, la natura di questa serata è la comunione di un percorso drammaturgico. 

Ringrazio tutti gli scrittori, le attrici, gli attori che ho coinvolto nelle serate a Roma, ringrazio  Carrozzierie n.o.t. e Maura Teofili, senza la quale difficilmente saremmo stati a Romaeuropa Festival e ci ha dato ospitalità in Anni Luce. È una splendida organizzatrice, ma ha anche un occhio artistico molto sensibile, alcune scelte artistiche le abbiamo fatte insieme. 

Infine è importantissimo ricordare il ruolo di Fabrizio Grifasi, il direttore del Festival che ha fatto sì che fosse possibile realizzare queste letture, nella precedente edizione e anche quest’anno. Un direttore che gestisce fondi pubblici e decide di aprire le porte alla nuova drammaturgia è un direttore illuminato, questo bisogna dirlo, è una cosa importante. Sono state delle serate molto particolari, i testi e gli autori che abbiamo presentato sono i vincitori dei concorsi più famosi e prestigiosi.

Tommaso Fermariello ha presentato Anna, un testo che ha vinto la Menzione di Situazione Drammatica per il premio Hystrio, ispirato a un fatto realmente accaduto. Quando la protagonista di questo episodio di cronaca nera è stata rimessa in libertà, Fermariello ha notato che su Facebook c’era una miriade di insulti indirizzati verso questa ragazza. Nel mondo c’è tanta violenza e Fermariello ci racconta che i violenti non sono soltanto quelli che commettono un omicidio ma anche chi giudica sommariamente. Tommaso ha una bella qualità di scrittura, è molto moderno. 

Christian di Furia è il vincitore del premio Hystrio. Lui si è ispirato a Bianca Garufi e a Cesare Pavese, ha inventato questo incontro al bar e lo ha raccontato con delle didascalie come se ci fosse la voce di una coscienza che descrive il corpo, i movimenti, le sensazioni di questi due personaggi, con la loro difficoltà di incontrarsi, con il loro desiderio di stare uniti. Ed è molto bello anche perché ha utilizzato una modalità di scrittura letteraria, creando un mondo e un racconto alto.  

Nella serata dedicata al Premio Riccione abbiamo presentato Carbonio di Pier Lorenzo Pisano. Credo che lui sia uno degli autori più prolifici e interessanti che abbiamo perché spazia dal cinema alla drammaturgia teatrale, fa il regista, ha vinto tutti i premi più importanti e ha una scrittura molto bella. Sa utilizzare benissimo il meccanismo drammaturgico che collega gli spettatori con il ragionamento. La sua scrittura, secondo me, è scanzonata, ironica. Serve per porre lo spettatore di fronte a delle questioni che hanno a che fare con il proprio io, con l’intimo, con la propria vita. Carbonio è un incontro tra due persone, uno dei quali ha avuto un incontro con un alieno e questo ha modificato la sua percezione di vivere. Ci sono degli intermezzi con una voce off che racconta che noi siamo fatti di carbonio e al carbonio fondamentalmente interessa solo generarsi e generare vita, non interessano tutte le problematiche della mente e della coscienza.

L’ultimo, Niccolò Sordo è un ragazzo di 29 anni che ha scritto Ok boomer (Anch’io sono uno stronzo). È il vincitore del premio Pier Vittorio Tondelli e mi è piaciuto molto perché la sua forza sta nel fatto che è un autore giovane e contemporaneo; lui si descrive e ci restituisce come ragionano i ragazzi di questo tempo che stanno sui social, vivono le loro prime esperienze amorose molto spesso chattando e trascorrono molto tempo a guardare i video anziché leggere un libro. Secondo me sordo ha il dono di riuscire a scrivere a raccontare questa generazione, la sua è una scrittura molto interessante che per noi “boomer” disvela la realtà attuale. 

La sua storia parla di un ragazzo che è anche la voce narrante del testo e che va a rubare in un centro commerciale delle Nike Air. Si rende conto che in quel negozio di scarpe di un centro commerciale ogni sabato pomeriggio si riuniscono tantissimi personaggi che vanno lì per rubare. È la metafora di una società che non aspetta altro che andare a rubare in un giorno preciso, in un luogo preciso come se fosse un’attitudine naturale. Questi sono i quattro testi che abbiamo portato e ognuno di essi, a modo suo, è piccolo capolavoro perché racconta  parti diverse di questo momento storico che stiamo vivendo.

Sentirsi e far sentire a casa, a proprio agio con sé stessi e con le persone che sono con noi. E questo il senso del Teatro per te?

Un professionista, una professionista del nostro settore si deve porre sempre la domanda sul perché sta facendo questo lavoro e non un altro. Considerando il fatto che è faticoso, si lavora con le miserie degli esseri umani, non si lavora soltanto con le cose belle, si guadagnano pochi soldi non ci sono aspettative ed è a fondo perduto. Io dico a me stesso che se è questo è il prezzo che bisogna pagare, allora deve essere fatto in certo modo e deve avere un valore preciso. Io credo che questo è un lavoro come un altro, ma serve per far stare bene gli altri, per dare un servizio alla società nella quale viviamo.

Da qui nasce la mia esigenza di dover occupare le stanze della mia solitudine parlando della solitudine degli altri, le stanze del mio amore analizzando l’amore degli altri, le stanze dell’affetto guardando gli affetti degli altri, vivendo con gli altri. È un tutto che lega tutti insieme. Quando l’obiettivo principale non sono le persone a cui ci rivolgiamo, la società allora è come se noi prendessimo una piccola sbandata rispetto alla missione che ognuno di noi ha come artista. Per me, l’incontro tra gli esseri umani è come un rito ed è molto importante. Se il Teatro è lì dove ci sono una persona che racconta e una persona che ascolta, in quel preciso momento si realizza qualcosa di più grande delle singole unità. Si realizza qualcosa a cui diamo noi la vita.

Situazione Drammatica. Intervista a Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore

Situazione Drammatica. Intervista a Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore

Il Copione è una rassegna di sei incontri dedicati alla conoscenza e alla lettura di testi di giovani autori italiani contemporanei organizzata allo Spazio Banterle di Milano dall’11 novembre 2019 al 6 aprile 2020 dall’Associazione Situazione Drammatica di Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore, in collaborazione con il Teatro de Gli Incamminati

Con il costo di ingresso lo spettatore non acquista un biglietto, bensì il copione che verrà letto quella sera, ad una cifra promozionale e non commerciale.

Abbiamo intervistato Tindaro Granata, Carlo Guasconi e Ugo Fiore:

Per quale target avete concepito questa iniziativa e che tipo di pubblico avete incontrato nei primi due appuntamenti?

Ugo: Situazione Drammatica vorrebbe far avvicinare alla scrittura teatrale chi non è abituato ad avere a che fare con il teatro perché in un mondo utopico la Parola teatrale dovrebbe riguardare tutte e tutti. Promuovere la drammaturgia contemporanea e organizzare incontri per parlare con questi giovani drammaturghi parte dalla voglia di cancellare la distanza tra chi sta sul paco e chi sta in platea. Nel corso dei primi appuntamenti siamo stati sorpresi di vedere che, a poco a poco, quest’obbiettivo si avvicina. L’altra sorpresa è stata che quasi la metà del pubblico avesse meno di venticinque anni.

Carlo: Non è stata concepita per un target particolare, si rivolge agli amanti del teatro e della letteratura, non per forza addetti ai lavori. Il pubblico incontrato fino ad ora si è infatti rivelato molto eterogeneo, sia in termini di età che di conoscenze della materia drammaturgica. La cosa molto bella è che è stato un pubblico attivo, molto partecipe, appassionato e curioso.

Tindaro: Volevamo fare in modo che la lettura di un testo teatrale fosse fruibile a tutti quelli che fossero interessati al processo di messa in scena, nascosto, che ogni testo ha. Ovviamente noi presentiamo una minima parte di quel processo, perché le prove di un testo che diventa spettacolo sono ben diverse e molto più complesse, ma avere l’autore che si racconta e seguire la lettura dal copione, vedendo gli attori che trasformano la scrittura in parole, è davvero emozionante. Finora abbiamo avuto il tutto esaurito per tutte le repliche.

Come avete selezionato i testi e cosa hanno in comune dal punto di vista formale e contenutistico?

Tidnaro: Per prima cosa abbiamo scelto gli autori. È la loro festa, il loro matrimonio, il loro Natale, sono loro stessi i principi della nostra rassegna. Quindi i testi sono arrivati con loro e spesso abbiamo chiesto agli autori stessi di proporci una delle loro opere. 

Carlo: Hanno in comune che ci piacciono i loro autori, siano essi più o meno conosciuti. Rispetto alle strutture, invece, fortunatamente ogni testo è un universo a sé e ciò è un gran pregio, perché ogni incontro è un’esperienza diversa.

Ugo: Abbiamo tentato, al di là del nostro imprescindibile gusto personale, di proporre dei testi che fossero eterogenei nel modo di approcciare la scrittura.

Ogni incontro si apre con una presentazione dei testi da parte degli autori: essi stessi fanno da mediatori tra il pubblico e l’opera. La critica è ancora in grado di assolvere questo compito di mediazione?

Tindaro: Oh, difficile questa domanda. Il lavoro del critico è una professione come quella dell’attore e del drammaturgo: dietro alla professione c’è un essere umano, con la sua complessità e capacità. Mi verrebbe da dire che in generale la critica di oggi, alla quale sono state tolte le pagine scritte e che ha subito centinaia e centinaia di affiancamenti con anonimi opinionisti online, non riesce ad essere un tramite di conoscenza e di approfondimento per le opere teatrali, ma spesso si limita a descrivere la trama. La critica assume valore in base alla persona che scrive: se chi scrive è una persona con talenti, cultura e sensibilità, la critica assolverà il suo compito di analizzare un’opera teatrale, altrimenti sarà solo un riassunto di quello che va in scena.   

Ugo: Se per mediazione s’intende un modo di decodificare un’opera, sicuramente dovrebbe essere un compito della critica. Tuttavia, la presentazione dei testi fatta dagli autori stessi non è un’operazione di decodifica, che richiederebbe un’impossibile obiettività. È piuttosto un modo per avvicinare il pubblico a un testo.

Carlo: Credo che a volte ne sia perfettamente in grado ed accade quando chi fa il critico ha gli strumenti e la capacità di comprendere e sublimare in un articolo quello che sta vedendo. Tantissime altre volte invece no, mi capita di leggere recensioni che si perdono in loro stesse e fanno perdere tempo a chi le legge; non per forza sono negative rispetto ad uno spettacolo, sono solamente fatte molto male.

L’evento si svolge presso lo Spazio Banterle, nel cuore di Milano, che nel vostro programma definite “una città sulla soglia di una nuova, grande trasformazione, che ha bisogno di essere continuamente ri-fondata”: che progetti avete in mente e quali collaborazioni state avviando con le realtà culturali milanesi?

Carlo: Non te lo dirò mai. Scherzo, per il momento mi sento di mantenere della riservatezza sulla questione.

Tindaro: Siamo ancora molto “giovani” abbiamo molte idee. Per adesso diciamo che stiamo cercando di capire come gestire al meglio questa prima rassegna. C’è da imparare ogni volta e ogni sera per fare meglio la volta successiva. 

Ugo: La nostra volontà sarebbe quella di proporlo in vari luoghi più o meno pubblici e più o meno teatrali della città.

Tra i vostri progetti c’è la realizzazione di una scuola permanente di drammaturgia, in collaborazione con le università milanesi, che coinvolga studenti di tutte le discipline, anche scientifiche, in percorsi di scrittura teatrale legati ai singoli saperi. Di cosa ha bisogno la drammaturgia in Italia in questo momento?

Ugo: Credo che abbia solo bisogno di essere sostenuta. La drammaturgia italiana contemporanea esiste ed è ricca. Ha solo bisogno di sostegno.

Tindaro: Abbiamo il desiderio di fare una compagnia/scuola permanente che si occupi della lettura dei testi e della drammaturgia giovane italiana. La drammaturgia e i drammaturghi hanno bisogno di cura di attenzione di avere più possibilità di essere messi in scena e più possibilità di sperimentare i loro lavori con gli attori e con i registi. C’è bisogno di più lavoro, i talenti non mancano.

Carlo: Credo che più di ogni cosa abbia bisogno di diffusione e di supporto concreto, di fiducia da parte delle istituzioni e del pubblico. Abbiamo ottimi autori in un momento non brillante per l’istituzione teatrale italiana, e questa è un’occasione, creare una “nuova scuola” magari sbagliando, prendendosi dei rischi, senza aver paura. Credo che questi giovani autori siano il terreno su cui far ricrescere il teatro. Continuare a guardare al passato pensando solo a soddisfare gli abbonati con spettacoli triti e ritriti su testi visti un’infinità di volte non mi sembra una risposta migliore di quella che potrebbe dare un cane anziano che ama mordersi il mozzicone di coda che gli rimane in bocca. Bisogna capire che quelli che oggi sono classici una volta erano drammaturgia contemporanea che ha trovato messa in scena.

Le partenze e i ritorni dopo venti anni di attività teatrale. L’Antropolaroid di Tindaro Granata

Le partenze e i ritorni dopo venti anni di attività teatrale. L’Antropolaroid di Tindaro Granata

Era il maggio del 1999 quando un giovane ragazzo partiva dalla provincia di Messina per andare a Roma e realizzare il suo grande progetto di diventare un attore di cinema. Lasciava la sua famiglia e la sua terra. Quella Sicilia impressa nel suo nome: Tindaro Granata. L’ultimo a essere nato a Tindari, una frazione situata sulla fascia costiera tra Milazzo e Capo Calavà, con il promontorio che dai monti Nebrodi domina il mar Tirreno e il santuario della Madonna Nera. La scultura in legno di cedro che, secondo la leggenda, fu abbandonata dai marinai di una nave per poter salpare nuovamente senza avversare la volontà divina.

Molti uomini e donne, come e prima di lui, avevano già attraversato lo Stretto e il mare, con la morte e la speranza nel cuore, per raggiungere quello che i siciliani definiscono il “Continente”. Chi ha vissuto quella esperienza ricorderà per sempre il rumore dei motori della nave traghetto, la salsedine del mare contaminata dall’odore del carburante. Le case, i palazzi e la lunga striscia di spiaggia rimpicciolirsi sempre di più, man mano che ci si allontana dalla terraferma. La Madonnina sulla stele con quella scritta “Vos et ipsam civitatem benedicimus”. Gli attimi trascorsi sulla balconata e le interminabili ore precedenti alla partenza. Frammenti di immagini che diventeranno ricordi incancellabili, come le riprese di un film. Come gli scatti fotografici di una Polaroid che conservano gli elementi antropologici. Luoghi, cose e persone.

Tindaro Granata - Antropolaroid

Tindaro Granata – Antropolaroid

Antropolaroid è come un album di fotografie con tracce di memoria storica. Tindaro Granata racconta le diverse generazioni della sua famiglia ed è possibile scorgere e ritrovare, in quelle storie, anche un po’ delle nostre radici e di noi.

L’inizio risale al settembre del 1925: Francesco Granata muore impiccandosi.“U dottoreddu”, il suo medico, gli comunica di avere un tumore incurabile allo stomaco e di aver bisogno della morfina per lenire le sofferenze. Sarebbe morto piano, anzi “chiano chiano”. Sua moglie rimasta da sola e incinta si reca spesso al cimitero per portare sulla tomba del marito non i crisantemi, ma sputi e bestemmie.
Il loro figlio, Tindaro Granata, nel 1944 conosce una ragazza, Maria Casella la quale si innamora di lui durante una serata di ballo organizzata dal padre di lei, per presentarle il suo futuro sposo, un ufficiale tedesco. Tindaro e Maria scappano facendo la “fuitina”. Un anno dopo nasce Teodoro Granata e nel 1948, suo padre viene coinvolto in quella che viene apostrofata come la“notte nera”, un omicidio di mafia. Da grande, Teodoro si trasferisce in Svizzera, ma ritorna in Sicilia per sposarsi con Antonietta Lembo e apre una falegnameria con l’aiuto del dottor Badalamenti.

Tindaro Granata nasce nel settembre del 1978. Un bambino con la bocca a forma di cuore a cui la sua nonna gli regala una stella, la più luminosa nel cielo della notte. Insieme con l’astro del firmamento gli fece anche tre doni immateriali, mediante un rituale antico di benedizione: la bellezza, la fortuna e la sofferenza perché quest’ultima è il viatico delle prime due. Quella donna semplice di altri tempi disse in anticipo ciò che Leonardo Sciascia scrisse nel 1977 in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia: “Una felicità ottenuta facilmente prima non è la stessa di una felicità ottenuta difficoltosamente dopo; non si può nemmeno dire felicità quella di cui si gode inconsapevolmente, senza essere passati attraverso la sofferenza”.

Antropolaroid, in scena dal 7 al 12 maggio, è stato accolto dal calore, dall’energia dirompente dei lunghi applausi di un pubblico emozionato e riconoscente, la sera del suo debutto. La cornice di un teatro suggestivo nella sua intimità, come l’Off/Off Theatre di via Giulia a Roma, era calzante. Quelle di Antropolaroid sono tante schegge di storie memorizzate da bambino, come le favole per dormire, raccolte e tramandate di generazione in generazione. Fanno rivivere la tradizione ottocentesca del “cunto”, fonte di trasmissione orale. Ed è proprio in questa caratteristica che il siciliano diventa la lingua dell’anima. Una risorsa e una testimonianza di un’identità, di un’espressione umana e artistica, di un mondo interiore che risulta familiare anche a chi il siciliano non lo parla perché quei codici di amore e di morte, di partenze e di ritorni, di paura e di coraggio possono essere facilmente compresi e decodificati.

Tindaro Granata - Antropolaroid

Tindaro Granata – Antropolaroid

Sono trascorsi venti anni da quel momento così intimo e personale, da quel viaggio verso il “continente”, da Sud verso Roma, più al nord della Sicilia. Tindaro Granata è diventato l’attore di oggi, senza perdere quella sensibilità, quella profondità che è presente in lui da sempre. In scena, l’attore indossa gli abiti da lavoro di quando faceva il cameriere in un ristorante in via dei Chiodaroli a Roma e regala a tutti un’autentica lezione di vita quando con orgoglio afferma che quei pantaloni e quella giubba servono ancora per ricordargli “Chi sono e da dove vengo”. Un bagaglio di esperienze incisive il suo, reso prezioso grazie ad ogni incontro con grandi personalità del teatro. Da Maurizio Scaparro a Carmelo Rifici, da Valerio Binasco a Serena Sinigaglia e Andrea Chiodi.

Nel suo percorso artistico ha saputo alternare l’attività in proprio. Come autore, regista e interprete delle sue opere esordiva proprio con Antropolaroid. Quel debutto avveniva nel 2011 ed era la sera del 29 gennaio, a Ponteranica in provincia di Bergamo. Otto anni dopo, Tindaro Granata conserva ancora un ricordo preciso con tutti i dettagli significativi. Il suo lungo pianto prima di entrare in scena, i pensieri che affollano la sua mente. Fuori pioveva, dentro c’erano diciassette spettatori seduti e quattro in piedi.

Tindaro Granata - Antropolaroid

Tindaro Granata – Antropolaroid

Granata è ritornato a Roma, con La bisbetica domata al Teatro Vascello ad aprile e Antropolaroid a maggio. Nel mezzo c’è stato il workshop Musica in Te(atro), organizzato da Theatron 2.0. È stato il modo migliore per ritrovare amici e rivedere luoghi, ma soprattutto per festeggiare un anniversario. Venti anni di carriera ricordati dal palco dell’ Off/Off, con un pizzico di ironia e di leggerezza, come un viaggio al contrario, dal Nord al Sud, adesso che lui vive a Milano. E se è vero che ogni ciclo ha le sue fasi e conclusioni, è ancor più vero che la vita non è fatta soltanto di partenze, ma anche di ritorni e di ricordi e, spesso, ci riporta esattamente lì dove tutto è iniziato. Perché l’esplorazione è continua e fino a quando il nostro cuore non smetterà di battere e di pompare sangue, spegnendo lentamente le attività del nostro cervello, nessuno potrà mai dire di aver superato il punto di non ritorno.

Musica in Te(atro). Intervista a Tindaro Granata

Musica in Te(atro). Intervista a Tindaro Granata

Nella presentazione del laboratorio “Musica in Te(atro)” a cura di Theatron 2.0 che condurrai a Roma dal 2 al 5 maggio, scrivi che “attraverso una canzone si può raccontare la propria storia”. Perché al provino con Massimo Ranieri, nel 2002, hai portato “Lu pisci spada” di Domenico Modugno? Che storia volevi raccontare?

Se hai qualcosa da raccontare, riuscirai a trasmettere il tuo pensiero e la tua storia qualsiasi forma tu utilizzerai. Io, da contadino che ero, l’unica porta che potevo usare per entrare nel mondo dei miei sogni era la musica e proprio facendomi guidare dalle sensazioni date dalla musica ho costruito mille e centomila vite parallele alla mia, immaginando storie. Ancora adesso faccio così. Per esempio, mentre guido in autostrada, metto la musica ad alto volume e durante il viaggio divento un principe, una regina, un supereroe, un panettiere, un politico che deve salvare il mondo, un santone che sposta le montagne con la forza della magia, un alchimista che inventa un’azione per fermare il tempo, un angelo che interviene prima che accadano gli incidenti, un pesce che gira sotto i mari e vede al buio, un uccello che vola sopra montagne innevate… oppure un gran figo che fa innamorare tutti quelli che mi piacciono! Mimmo Modugno è stato ed è il mio idolo di tutti i tempi, lo considero un grande artista, un padre, un modello, una fonte di ispirazione e al provino con Massimo Ranieri, quello che poi mi ha iniziato al mondo del teatro, volevo raccontare tutto quello che avevo ricevuto dalle sue canzoni, tutta la sua storia, che era ed è un po’ anche la mia e la nostra storia. Con “Lu pisci spada” volevo raccontare di un ragazzo che non ha paura dei secoli e non ha paura delle notti per poter arrivare a raggiungere la sua luce, o meglio, la luce che i cieli gli hanno destinato. Ognuno di noi ha una stella che il destino gli ha donato e non sempre si riesce a capire qual è la propria stella, lo si capisce solo dopo che si è ottenuto parte di ciò che si desidera… io l’ho capito molto dopo qual era la luce della stella destinata a me.

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Hai una formazione non accademica: chi consideri i tuoi maestri e quali insegnamenti ti hanno trasmesso?

Tempo fa avrei risposto Massimo Ranieri. Adesso, a distanza di 17 anni, posso dire che non ho dei veri maestri ma degli artisti che per me sono stati e sono fonte di ispirazione e li divido in quattro gruppi. Nel primo gruppo cito tre registi con cui ho cominciato un percorso di crescita che vorrei durasse altri mille e mille anni, perché che mi hanno insegnato a confrontarmi con una parte di me che non conoscevo e a trovare gli strumenti per dar vita alle loro richieste: Carmelo Rifici mi ha dato la consapevolezza che è possibile cercare quello che è nascosto dentro/dietro le parole, il senso della scrittura; Serena Sinigallia mi ha dato la forza di spingermi oltre i limiti che avevo e che ho, e mi ha insegnato a vivere il nostro mestiere come un insieme del lavoro di tante persone; Andrea Chiodi mi ha dato la possibilità di seguire il mio istinto fino a quella libertà che toglie la paura di sbagliare. Nel secondo gruppo ci sono i miei colleghi. Credo che gli attori, quelli bravi, siano fonte di grande ispirazione per migliorarsi e per raggiungere di volta in volta mete sempre più lontane da ciò che ci rassicura e da ciò che ci rende infecondi automi. Ci tengo a precisare che per me bravi significa tante cose insieme, tipo: essere generosi, prendersi cura del lavoro, cura assoluta dei colleghi, avere desiderio di far bene e donarsi con umanità al progetto che si sta facendo e alle persone che ne fanno parte, avere rispetto assoluto del pubblico, che preveda un reale confronto.
Nel terzo gruppo metto la gente che guardo per strada. Nel senso che io osservo molto e quando vedo una cosa che mi colpisce mi annoto la scena che ho visto. Per esempio, se vedo due che litigano, cerco di capire le loro reazioni, come mettono il corpo, come usano la voce, chi è che attacca e chi è che si deve difendere, come poggiano i pedi a terra, come usano le mani, tutto… Prendo nota di ciò che mi colpisce per poterlo usare quando dovrò scrivere, dirigere o interpretare un personaggio che litiga in scena.
Il quarto gruppo è formato dai miei grandi idoli di sempre, da sempre presenti in me e nei miei lavori: Eduardo De Filippo, Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Ettore Scola, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Gianmaria Volontè, Mariangela Melato, Federico Fellini, Anna Magnani, Roberto Rossellini, Aldo Fabrizi, Totò, Domenico Modugno e Mina. Ovviamente adesso seguo con la stessa passione e attenzione anche molti artisti contemporanei e ci tengo a precisare che non sono un amante del vecchio o del passato, amo ciò che per me è arte, senza tempo e senza categorie.

Il tuo ultimo spettacolo, Dedalo e Icaro, racconta l’autismo attraverso il mito greco. Qual è il labirinto più oscuro che hai attraversato nel tuo percorso teatrale?

Mentre penso alla risposta sorrido sotto i baffi che attualmente non ho. Forse è banale dirlo, ma il labirinto più oscuro, perverso, disumano e senza speranze è Tindaro Granata. Non riesco a scindere me dal mio lavoro, perché ci metto l’anima, nel bene e nel male e spesso io sono il labirinto di me stesso dentro al quale mi perdo. Possiedo, come tutti, delle zone d’ombra che mi fanno paura e che tengo nascoste a tutti, a volte riesco a starne fuori, altre invece mi ci perdo dentro e faccio fatica ad uscirne. Posso risponderti però, ritornando al teatro, dicendoti che alcune volte ho accettato dei lavori dei quali mi sono vergognato e pentito perché non stavo bene con me stesso e con le persone con le quali mi trovavo. Ecco, quello è stato il labirinto peggiore dal quale sono dovuto uscire.

Ogni mese mandi una newsletter speciale al pubblico che ti segue, raccontando storie e pezzetti della tua vita. Quando prendi questi appunti?

Mentre cammino per strada, mentre piango per qualche cazzata che ho combinato o mi hanno combinato, mentre mi succede una cosa strana e me la stampo in testa per poi raccontarla, mentre sono seduto la notte a sentire il vuoto, mentre ho paura di morire, mentre mi spaventa l’idea di non aver dato nulla a chi amo, mentre ho voglia di fare l’amore e non posso, mentre penso ad un film che mi ha fatto piangere, mentre piango per una mia incapacità, mentre sono solo.

Da dove parti per scrivere un testo?

Da una storia che mi colpisce, che mi si impasta nel cervello e non si stacca fino a quando non la metto su un file Word. Se capisco che quella storia potrebbe essere mia come potrebbe essere tua, se intuisco che quella storia vuole dire, suo malgrado, qualcos’altro oltre il semplice racconto dei fatti, significa che è la storia giusta da raccontare, o perlomeno lo è per me.

Nel 2016 il tuo “Geppetto e Geppetto” ha vinto l’UBU come migliore novità drammaturgica ed è stato definito da Renato Palazzi “uno degli spettacoli più importanti dell’anno”. Secondo te cosa rende importante uno spettacolo? 

Non lo so. Credo che ognuno di noi abbia un parametro personale che gli fa dire cosa è e cosa non è importante. Alcune volte, come nel caso di Geppetto e Geppetto, è importante perché la storia di questa famiglia omosessuale diventa universale poiché tutti si possono ritrovare o rispecchiare in quei personaggi e in quelle dinamiche, pur appartenendo ad una famiglia tradizionale. In altri casi per esempio se parliamo di un genio come Kubric le sue opere erano importanti perché non si basavano su un riconoscimento universale di una storia ma erano lo svelamento di un qualcosa che l’uomo non era riuscito a comprendere fino ad allora. Quindi mi viene da rispondere che uno spettacolo è importante se dal momento che esiste riesce a cambiare il modo di pensare della gente.