THEATROPEDIA #4 – Il teatro romano, dall’osceno al mero divertimento

THEATROPEDIA #4 – Il teatro romano, dall’osceno al mero divertimento

Muovendo coscienziosi passi tra le sterpaglie di un bosco dell’Etruria meridionale del 390 a.c. siamo alla volta di un villaggio che prende il nome di Fescennium, ci stiamo dirigendo verso questo luogo perché in questi tempi di semina dei campi, si svolge un evento, per così dire, teatrale. Invero in quest’epoca gli eventi non sono così puntuali, avvengono quasi all’improvviso nelle feste dedicate a dei loro particolari dèi campestri. Fatto sta che sento delle grasse risate provenire da molto vicino, segnale che siamo giunti, probabilmente, allo scopo della giornata. Infatti, ecco un capannello di persone che in modo chiassoso ride e si dimena, al centro di quel capannello due uomini con delle tuniche buffe e rozze, vestiario che sembra imitare il chitone indossato dagli attori del Teatro greco, gridano fonemi spesso incomprensibili. Sono due histeres, così mi dice un uomo che in disparte, forse per timidezza, guarda la recita buffa e grottesca dei due. Gli “attori” in scena emettono dei rumori che potrebbero definirsi frizzi e lazzi ma ciò che noto è che quello che stanno mettendo in scena è qualcosa di osceno. La cosa è molto evidente: perché sulle tuniche ci sono simboli fallici e poi i loro gesti non sono propriamente gentili, anzi, si toccano continuamente le parti basse vantandosi uno della forza virile, interpretando probabilmente un “uomo” che si “complimenta” delle sue prestazioni sessuali, l’altro mostrando la sorpresa alla virilità del primo, interpretando molto probabilmente una “donna”.

Non c’è dubbio, stiamo assistendo a un fescennino, citato per la prima volta dallo storico Tito Livio nella suaHistoriae. Una composizione spesso improvvisata di frasi oscene, volgari doppi sensi e contornata da una mimica gretta che sembra piacere molto alla popolazione di quel villaggio. A me, tra l’altro, sembra di aver vissuto quest’epoca in tempi più recenti, chissà perché?! Ma quella scenetta che poco fa abbiamo visto non è cosa di secondo piano essa ha un’importanza capitale nella nascita del dramma latino, anzi si può dire che è uno dei semi dello stesso. Infatti, le prime rappresentazioni svoltesi a Roma dal 364 a.c. fino allo sviluppo del teatro romano, erano opera di attori etruschi, con i loro fescennini e di attori osci, con le loro farse atellane.

Per non lasciare, dunque, nulla d’intentato, mi sembra doveroso spostare la nostra attenzione anche sulle atellane, dopo un cammino di tre giorni siamo adAtella, una città osca di notevole importanza. Non è difficile capire dove dirigersi per vedere una fantomatica farsa del luogo. Qui già nel 390 a.c. sono molto organizzati, ci sono, infatti, piccoli gruppi che si sono uniti come minuscole compagnie girovaghe di teatro e alcuni già da un anno frequentano Roma. Basta chiedere e, difatti, prontamente, alcune persone, appena scoperto il nostro interesse, ci invitano ad andare in una sorta di campo incolto e all’improvviso indossando in fretta e furia delle maschere saltano su un carro e incominciano a improvvisare una scena mentre altri amici ci offrono del vino: è bene accettare, altrimenti qui si offendono. Guardo con molta attenzione la messa in scena mentre quelli intorno a me non sembrano poi così attenti: commentano, fanno chiasso, come se sapessero le battute anticipatamente.

Anche in questo spettacolo, seppur drammaturgicamente più complesso del fescennino, il tema sembra girare sempre su facili battute a scopo sessuale.  Erennio, un amico del luogo, mi fa praticamente da sottofondo con le sue anticipazioni drammaturgiche, conosce i personaggi, perché sono sempre gli stessi ad agire in storie che partono da piccoli, brevi, canovacci: c’è Maccus il mangione sciocco, Pappus il capro espiatorio, un vecchio stupido, Bucco che parla sempre a vanvera e il Dossennus il gobbo astuto che spesso l’ha vinta.

Erennio e altri suoi amici sembra, però, stia aspettando un personaggio su tutti: Kikirrus maschera teriomorfa di un gallo. Tutti infatti dicono nella loro lingua: “mo che arriva Kikirrus siente!”. Ed infatti giunto Kikirrus la gente ride anticipatamente, a me sembra di vedere Pulcinella ma non dico nulla, lascio in silenzio il campo mentre frasi lascive mandano in visibilio il pubblico, gridano parole sconce, si lanciano in manifestazioni quasi orgiastiche… meglio allontanarsi, mentre nella mia mente ancora penso di aver vissuto già queste scene… Che fossero i miei coevi tornati a quest’epoca? Chissà?

Di sicuro ci conviene, per ora, figurarci nell’Urbe, il 13 settembre 166 a.c., siamo nel periodo dei Ludi romani, le festività per eccellenza della Repubblica. Davanti a noi vediamo una folla di persone che accorre verso una struttura in legno, una grossa piattaforma, non voglio esagerare ma sono circa diecimila le persone assiepate in un grossa cavea montata pochi giorni prima per l’occasione. L’ingresso è gratuito perché finanziato dallo “Stato” e si vede, anche perché c’è un apposito ingresso per le autorità dove entra solo chi è fornito di un biglietto speciale, noi lo chiameremmo “omaggio istituzionale”. Ad andare in scena è una commedia: L’Andria di PublioTerenzio Afro, un giovane autore d’origine cartaginese. Fuori alcuni frequentatori del teatro già sparlano del presunto autore straniero che non può che essere una copia del più famoso commediografo di quei tempi Tito Maccio Plauto. Ciò che si nota è che a differenza del pubblico attico, quello romano è molto più disordinato, caciarone e tra l’altro non proprio interessato, sarà perché il teatro qui a Roma non è associato a manifestazioni religiose e per di più l’offerta spettacolare è molto più ampia. Nello stesso giorno infatti vanno in scena spettacoli di mimi, giocolieri, funamboli, combattimenti tra gladiatori e bestie feroci (Venatonies), corse dei cavalli, battaglie navali (Naumachie). La gente ha dunque l’imbarazzo della scelta e, soprattutto, sceglie l’offerta più spassosa: il pubblico romano esige il divertimento non la catarsi del Teatro greco. Ecco perché, molto probabilmente, dei tragediografi Quinto Ennio, Marco Pacuvio e Lucio Accio non è giunto a noi nulla.

 

Finalmente entriamo nel luogo teatrale, inizia lo spettacolo, per mio stupore noto che il dramma latino manca di un coro, come quello greco, e che alcune battute e azioni sono accompagnate dalla musica, cantate (cosa che non accadeva nella commedia ellenica). I gesti, poi, sono davvero molto convenzionali ed eccessivi perché devono essere visibili a una folla di diecimila persone ed anche la voce ha bisogno di maschere amplificate con delle bocche aperte all’esterno tipo megafono per essere sentita da ogni spettatore. Anche se, l’amplificazione, non sempre serve, in quanto, attorno a me c’è un gran baccano: non è molto educato il pubblico romano. C’è chi si alza continuamente e va a comprare carrube, asparagi, funghi, uova, vino dagli appositi venditori posti davanti al teatro, qui c’è un uso smodato del consumare un prandium (pasto frugale) durante lo spettacolo, chi abbandona per andare a vedere un altro genere di spettacolo, chi parla di tutt’altro. Tutto questo mentre in scena c’è una commedia detta del genere palliata che a differenza della commedia togata prende ispirazione da vecchie storie della commedia nuova greca soprattutto di Menandro, Difilo, Filemone. E, soprattutto, nella palliata eraconcesso di rappresentare i servi più intelligenti dei padroni mentre nella togata, che parlava spesso degli usi e costumi dei romani, era severamente vietato e questo non è cosa di poco conto, poiché spesso le commedie latine hanno come perno della storia un personaggio su tutti: il servo astuto (servus callidus).

Alla fine, storditi dall’esperienza “teatrale”, capiamo che evidentemente solo chi è in prima fila può capire davvero lo spettacolo. Ci accingiamo così a uscir fuori, dietro coloro che hanno avuto questa fortuna e, ascoltiamo i commenti, dicono che: a differenza di Plauto, Terenzio ha musicato di meno la sua commedia e che è meno poetica, usa un linguaggio quotidiano che rende la storia troppo complicata e questo per un pubblico avvezzo alle opere farsesche  risulta troppo rivoluzionario.

La figura di Terenzio ne esce un po’ come quella di Euripide nel Teatro ellenico, contestato soprattutto per le innovazioni che apportò al teatro. In effetti, quel che si riscontra tra il celebrato teatro plautino e quello terenziano è che mentre il primo rimane fedele ai canoni della fabula palliata di Aristofane e Menandro, dove sono continui i giochi meta-teatrali, in cui l’autore-attore interviene direttamente rivolgendosi al pubblico e ponendo in evidenza così l’illusorietà dell’azione scenica, il secondo nasconde l’autore per mettere in scena uno spettacolo quanto più naturalistico e oggettivo possibile. Egli era molto più attento alla vicenda che ai personaggi, per questo deviava spesso il pubblico con le false piste per accrescere la suspense dell’intera trama. A sentire parlare ancora questi romani acculturati, sembra proprio che d’ora in poi Terenzio non avrà vita facile, lo accusano di aver offeso la memoria del nomenLivio (Livio Andronico), il primo drammaturgo latino (che a dire il vero non fece altro che tradurre le più importante opere greche), che gli preferivano Luscio Lanuvino e che Plauto fosse tutt’altra cosa: “una spanna sopra”. Eppure l’autore dell’Asinaria, non fu certo ligio alla Commedia Nuova, anzi, apportò delle innovazioni rivoluzionarie, come ad esempio: l’opportunità di far recitare a diversi attori i diversi personaggi e non più esclusivamente a tre attori, come avveniva nella commedia nuova; spesso si dice che addirittura in alcuni spettacoli abbia provato a far recitare senza maschere; l’accompagnamento musicale anche nel dialogo, con l’inserimento di vere e proprie canzoni, quindi, di conseguenza, l’accrescimento dell’importanza psicologica dell’accompagnamento musicale. Evidentemente le innovazioni a Terenzio non gli si perdonavano perché non propriamente romano ma berbero e figlio di umilissima famiglia.

Giunti a questo punto accresce la voglia di vedere una tragedia romana, quella che qui chiamano fabula crepidata ma almeno a queste persone pare non interessi e ci fanno cenno di non conoscere eventi di tragedie che, per la verità, restano in quest’epoca quelle greche con l’unica differenza di essere state tradotte in latino. Il maestro di questo sarà Lucio Anneo Seneca ma dovremmo fare un altro salto temporale e spostarci nella Roma del 54 a.c. ed ora si è fatto proprio tardi e, poi, sarebbe comunque vano visto che le tragedie di Seneca non furono nemmeno mai rappresentate a Roma semplicemente perché la maggior parte dei romani pensava solamente a divertirsi e di tragedie non ne volevano sentire parlare, figurarsi recitare.

THEATROPEDIA #2 – Le radici del teatro: Eschilo, Sofocle, Euripide

THEATROPEDIA #2 – Le radici del teatro: Eschilo, Sofocle, Euripide

Atene, 522 a.c., all’incirca il 21 marzo di quell’anno: siamo in un agorà di Atene, si parla tra amici e si discute di chissà chi sarà ad aggiudicarsi il concorso delle Grandi Dionisie, la festa di inizio primavera. Scherni, boccacce, urla e risate sono il segno passionale che fanno intendere che davvero, a quella gara, le dieci tribù dell’Attica ci tengono molto. In cosa consiste il concorso? È un concorso “teatrale”, vince il rappresentante di una delle dieci tribù che meglio esegue un inno ditirambico scritto da sé, è una gara tra i poeti tragici. In questi anni però l’evoluzione “artistica” delle interpretazioni ditirambiche ha portato cambiamenti tecnico-strutturali evidenti, come l’aggiunta di un attore che si staglia dal coro, grazie all’intuizione di Tespi. Ed è per questo che il dibattito si fa più avvincente: si discute, infatti, di Tespi, Cherilo, Pratina, Frinico, cioè di veri e propri drammaturghi riconosciuti per il loro ruolo sia di poeta che d’attore mascherato.  Al concorso è l’autore a parteciparvi con tre tragedie più o meno collegate tra loro, tragedie spesso basate su trame mitologiche, anche perché discendenti dirette del mito di Dioniso.

Il teatro, quindi, grazie alle Grandi Dionisie accresce il suo fascino e il suo interesse. E le esigenze intorno all’evento si distaccano sempre da più da quelle sacre legate a Dioniso, per interessarsi anche della vera e propria spettacolarizzazione. Così nel 501 a.c. gli organizzatori, interessandosi all’autore Pratina, aggiungono alle tre tragedie partecipanti, un nuovo genere di sua creazione: il dramma satiresco, perlopiù una parodia comica e dissacrante dei miti.

Al concorso “teatrale” di questa festa primaverile parteciparono anche i tre drammaturghi più noti della tragedia greca, grazie ai quali gli studiosi del teatro sono riusciti a basare la loro conoscenza di quest’ultimo: Eschilo, Sofocle e Euripide.  Anche se bisogna dire che le opere ritrovate dei tre sono solo un campione delle oltre mille tragedie scritte in quel secolo da tanti altri autori mai conosciuti.

Figuriamoci ora di essere lì, sul declivio d’un colle, seduti sul theatron (una gradinata di legno) a guardare una rappresentazione tragica di Eschilo, saremmo coinvolti dalla monumentale spettacolarità fatta di doppi cori, personaggi mitologici, terrificanti, bighe tirate da cavalli e danze movimentate; insomma, un flusso continuo di spettacolarizzazione. Questo ci stupirebbe tenendo conto di quel che eravamo abituati a vedere, ovvero un solo attore mascherato che si cambiava continuamente di ruolo e controbatteva le sue battute con il coro. Difatti, Eschilo, apporta davvero delle grandi innovazioni alla rappresentazione, non ultima quella dell’aggiunta di un secondo attore, elemento che rende la trama più fruibile e credibile. Una novità che segna un punto di non ritorno, un’utile regola drammaturgica da rispettare a beneficio della propria opera.

Dopo la rappresentazione tragica di Eschilo, il pubblico attico rimane stupito, conscio che quello che ha visto rivoluzionerà il modo di intendere quella forma di teatro che sembra sempre di meno un ditirambo. Se Eschilo da una parte magnifica il teatro, poco dopo Sofocle lo drammatizzerà psicologicamente, facendo attenzione alla caratterizzazione dei personaggi (che diventano molto più complessi), aggiungendo un terzo attore e riducendo l’importanza del coro, che da qui in poi sarà escluso dall’azione tragica e interpreterà più il ruolo di spettatore giudicante che di attore agente della trama.

Ma arriviamo al 468 a.c., marzo. Il popolo ateniese non sa che di lì a poco sarà partecipe di una sfida epocale: al concorso drammatico delle Grande Dionisie parteciperanno Eschilo e Sofocle, per la prima volta sfidanti. Lo spettacolare contro il drammatico, l’incantevole contro l’umano. Uno scontro tra titani, padri del teatro classico, fondamenta di tutto il teatro moderno. Ansia, stupore, senso di giustizia, pianti, tutto questo si ode all’interno della cavea. Sofocle vince il primo scontro tra i due grazie alle sue innovazioni ma, in realtà, a vincere è quel pubblico che nemmeno immagina chi ha di fronte.

Tra gli spettatori di quell’edizione così particolare, quasi sicuramente, era presente un ventitreenne molto interessato, Euripide. Un giovane molto attento al teatro, tanto da analizzarlo fino a fondo e trovare in esso qualcosa che turbava il suo acerbo impeto drammaturgico. Ed infatti, di lì a poco Euripide sarà considerato il ribelle del teatro dell’epoca. L’autore ateniese sperimenta molto con la sua drammaturgia. I suoi testi, i suoi spettacoli fecero grande scalpore,  perché in essi i personaggi acquisirono un’espressività molto più realistica e quotidiana e questo era considerato come irrispettoso e poco adatto per la tragedia. Per giunta i suoi personaggi osavano criticare spesso il senso di giustizia degli dei, attribuendone la causa delle miserie umane. Euripide, forse inconsapevolmente, stava operando un distacco netto tra la tragedia e i ditirambi di origine sacra. La sua struttura drammaturgica, spesso confusionaria, sciolta, poneva le basi per la sperimentazione futura di nuovi generi teatrali, che sfoceranno nella tragicommedia e nel melodramma. Euripide dimostrò che era possibile una drammaturgia avulsa dagli eventi mitologici, che il caso fosse una forza più potente di quella divina nell’intreccio della trama, che anche i miti minori o storie inventate di sana pianta potessero avere una propria dignità drammatica. Questa silenziosa rivoluzione drammaturgica fu, ovviamente, un successo per Euripide che riscosse molto interesse negli anni e questo spiega il numero relativamente ampio delle sue opere rimaste ai posteri, diciassette a differenza delle sette degli altri due tragediografi.

Eschilo, Sofocle ed Euripide, sono per questo l’origine della drammaturgia. Essi, in un ipotetico albero genealogico del teatro, supponendo che vi sia già la terra fertile della sua origine, del mito e del rito, s’impiantano come le radici di tutto quello che sarà il teatro negli anni a venire ed il fatto che ancora oggi ad Atene, Siracusa, negli anfiteatri greci, nei teatri classici, risuonino le parole dei tre è segno che il cordone ombelicale con la loro tradizione è indissolubile.

THEATROPEDIA #1 – Le origini del teatro

THEATROPEDIA #1 – Le origini del teatro

Siamo in un’epoca a noi molto lontana, potremmo dire nella notte dei tempi, in una sorta di palude, un uomo, qualcuno, emette un fonema, fa un gesto. Ad ascoltarlo, seguirlo, un altro essere umano, questi gli crede, sì, crede in quel fonema, in quel gesto, dà un significato al significante ed ecco le origini di quello che poi in tempi molto più vicini a noi si chiamerà: Teatro.

Da quel gesto, da quel suono, poi si può dire si consolideranno altri fenomeni, nasceranno uomini che per aver una certa dimestichezza con quei suoni e con le forze naturali acquisiranno, agli occhi dei più, un’aura magica che permetterà questi di accumulare ricchezze, terreni e divenire dei capi o dei re. Gli stessi, consci della loro potenza sovversiva, creeranno dei riti e dei miti che, trasmessi oralmente nelle generazioni successive, diverranno le tradizioni da cui partirà ogni cognizione di senso di un’intera popolazione. Ma in quel tempo, così lontano, probabilmente a distanza di pochi secoli se fossimo passati per quella palude, in quello stesso luogo avremmo sentito parlare di uomini saggi che di lì a poco, magari, avremmo potuto vedere esibirsi (ovviamente per quegli strani tipi così diversi da noi non era certo un’esibizione ma qualcosa di più importante, magico, sacro). Ed infatti pare già di sentirlo: è un vecchio uomo, indossa strani oggetti pieni di carica simbolica e gli uomini che lo attendono sono impazienti di guardarlo ballare, muoversi, dimenarsi e credono fortemente ai suoni che egli emette… il vecchio saggio alza verso il cielo quegli amuleti dal suo corpo, tutti i presenti si dimenano, gridano suoni a me ignoti ma che capisco essere di puro godimento interiore. Non ho dubbi, quel vecchio saggio è un attore-sacerdote, la prima forma coscienziosa del ruolo d’interprete anche se non minimamente accostabile a quella del futuro attore nelle odierne, sconsacrate accezioni di questa parola.

Si evince, dunque, che definire un periodo storico o peggio ancora una data certa sulla nascita del fenomeno teatrale è impossibile, com’è difficile spiegare che cosa significhi la parola Teatro. Potremmo, prendendoci il grosso rischio di essere incompleti, ridurre il teatro ad un assioma difficilmente discutibile: Il teatro è un evento spettacolare dal vivo che si ha quando vi è un attore (emittente) e uno spettatore (destinatario) e perché esso possa avere un esito apprezzabile sullo spettatore c’è bisogno che quest’ultimo firmi una sorta di “contratto fiduciario” e dia credibilità all’emittente.

Ed è proprio grazie a questo “contratto fiduciario” che i miti, i riti, possono interrompere poi tradizioni e cambiare interamente il comportamento di una società, tramite dei veri e propri “drammi sociali”, come direbbe l’antropologo Victor Turner. Il rito assolve dunque, in campo sociale, la stessa funzione che assumerà poi il teatro: quella di dare forma all’idea del mondo esterno, ignoto e imperscrutabile, e si propone come uno strumento perfetto per superare il conflitto che l’uomo per sua indole ha nei confronti di una realtà che spesso appare ai suoi occhi, indomabile.

C’è da dire che per attestare però la nascita del teatro, lo storiografo ha bisogno di segni tangibili e inconfutabili. Dobbiamo lasciare la palude dell’attore-sacerdote e giungere in tempi, si fa per dire, più recenti. Superare l’era glaciale, osservare i primi graffiti parietali ritrovati in alcune caverne d’Europa e d’Africa risalenti a ventimila anni fa, primi segni tangibili dell’esistenza effettiva dei riti e giungere al 600 a.c. circa, quando uno di quei riti, il ditirambo, un canto corale dedicato al dio Dioniso, eseguito tradizionalmente nell’antica Grecia, fu trasformato in una composizione letteraria da Arione di Metimna. Arione rivoluziona così definitivamente il rito. Infatti, esso, diviene d’ora in poi un segno tangibile e per la prima volta è possibile sapere dello stesso, non solo oralmente ma anche visivamente tramite lettura diretta.

Nel 534 a.c. un giovane greco, Tespi, probabilmente assistendo ad uno di questi cori tradizionali, sentì l’esigenza di qualcosa che rendesse il racconto più drammatico e realistico. Incominciò a fantasticare, pensò a come potesse fare e gli venne in mente che servisse qualcuno che in modo più o meno realistico recitasse alcuni passi salienti del ditirambo. Il passo dalla teoria alla pratica fu molto breve e aggiunse così per la prima volta l’attore, che altri non era che egli stesso, un attore, munito di maschera, che interpretasse vari ruoli a cui il coro facesse da contrappunto. Inoltre, non contento, per rendere la storia più avvincente inserì alla trama recitata del ditirambo brevi passi tratti dai poemi epici in voga nell’Attica del suo tempo, l’Iliade e l’Odissea.

Tespi inseriva quindi nell’impianto tradizionale rituale del ditirambo un elemento fondamentale di quello che poi sarà il teatro a venire, il dialogo. Cosicché, d’inerzia, il rito acquisiva un potenziale evolutivo molto ampio. Il neo drammaturgo ateniese aveva creato una rottura del sistema, un nuovo modo di intendere il rito. Stava mettendo in scena un “dramma sociale” difficile da far accettare al popolo abituato tradizionalmente a un genere di esibizione che intendevano sacra, ancora più arduo poi da proporre agli uomini di cultura di allora (il poeta Solone, ad esempio, s’oppose con durezza con appelli alla popolazione a disertare tali esibizioni) e, soprattutto, la libertà che Tespi si sarebbe presa, di solito, non è mai piaciuta ai tiranni e Atene era governata da Pisistrato, un dittatore, per l’appunto.

Non appena nata, quindi, l’idea di un nuovo rito/teatro si trovava a contrastare le prime censure, le prime difficoltà a cui Tespi seppe riparare con creatività. Si fece costruire, al di sotto d’una piattaforma lignea (adibita a palcoscenico), un carro movibile che permise all’attore/autore greco di girare tutta l’Attica con la sua compagnia teatrale, lontano dalle pressioni della tiranna censura, dando inizio alla prima tournée teatrale della storia e al teatro come “istituzione specializzata”.

Bibliografia essenziale:

– OSCAR G. BROCKETT – Storia del teatro, Marsilio

– CESARE MOLINARI – Storia del teatro, Laterza

– VICTOR TURNER – Dal rito al teatro, Il Mulino

– PIETRO SCARDURELLI – Antropologia del rito, Bollati Boringhieri

– MARCO DE MARINIS – Capire il teatro, Bulzoni