THEATROPEDIA #10 – La Calandria, il primo spettacolo moderno

THEATROPEDIA #10 – La Calandria, il primo spettacolo moderno

Siamo in un gran salone d’un nobile edificio (Palazzo Ducale di Urbino), seduti su delle gradinate, in ordine, noi maschi guardiamo dirimpetto, laddove sono disposte le panche, intervallate da grossi finestroni, sopra le quali sono accomodate le donne. Gli uni di fronte agli altri, tra un brusio educato, ci lanciamo vicendevolmente degli sguardi con fare timido mentre su d’un podio, in fondo, confabulano tra loro musici e danzatrici. Davanti al podio c’è un muro scenico che crea una sorta di fosso. Attendiamo si dia inizio alla rappresentazione di una commedia, La Calandria, composta dal cardinale Bernardo Dovizi da Bibbiena. L’attesa però non è di quelle snervanti, anzi, per alcuni sembra che lo spettacolo sia solo una fastidiosa interruzione di un momento ben più agognato. È il 1513 e i cortigiani in questi tempi si recano volentieri a questi eventi per conoscere e corteggiare le donne. Difatti le rappresentazioni teatrali, come pure le messe, spesso vengono “seguite” più per uno scopo aggregativo che per quello più specifico dell’intrattenimento. Anzi, a testimonianza di ciò, è il Salone che, lasciato libero da ogni orpello o aggeggio scenografico, è già pronto per diventare “pista” da ballo per i cortigiani. È il 6 febbraio e sono invitato alla festa preparata in onore del duca Francesco Maria I della Rovere e di sua moglie Eleonora Gonzaga ma, col senno del poi, potrei dirvi che sono presente al primo spettacolo dell’età moderna, composto da un drammaturgo, messo in scena per la prima volta da un regista e con le scene di uno scenografo professionista.

Nel mentre gli spettatori continuano a incrociarsi con gli sguardi, in scena si svolge la vicenda de La Calandria che dal punto tematico non propone nulla di nuovo, una classica commedia influenzata dal teatro romano della commedia plautina, fatta di scambi d’identità e di una serie d’agnizioni, del resto è quello che la cultura umanista dell’epoca richiede: l’adesione piena dei nuovi drammi ai fasti mitologici dell’antica tragedia greca e alla spassosa commedia romana. Tra l’altro anche il personaggio è conosciuto già tra gli intellettuali è un protagonista boccacesco del Decameron, Calandrino, uno sciocco, credulone, che si crede furbo e per questo deriso da tutti e, il protagonista dell’opera del Dovizi, oltre ad avere questo carattere finirà col subire la stessa beffa finale. Quello che sconvolge è che per la prima volta va in scena una commedia che parla di fatti all’uso moderno, in volgare e senza versi, in prosa. Per di più le scene sono costruite dall’architetto scenografo Girolamo Genga secondo le regole prospettiche e, come aveva già fatto nel 1508 a Ferrara il collega Pellegrino da Udine in occasione della messinscena della Cassaria di Ariosto, dipinge scene rappresentanti la città in cui l’opera è ambientata, Roma. Ciò che introduce per la prima volta sono le quinte completamente praticabili, tridimensionali, artificio che rende l’intero impianto scenografico molto realistico, tanto è vero che davanti ai miei occhi ci sono delle vere e proprie torri abitabili.

Se i cortigiani presenti non fossero distratti dai loro istinti sessuali, dalle tattiche di primo “abbordo”, si accorgerebbero inoltre che il flusso dello spettacolo ha davvero qualcosa di inconsueto, tra una scena e l’altra agiscono ballerini e attori con degli intermezzi non a sé stanti: sono scritti, preparati, da Baldassarre Castiglione che, come un moderno regista, li crea appositamente per collegarli alla trama della commedia del cardinale. Una cosa mai vista finora. Lo spettacolo, per la contentezza dei cortigiani pronti a danzare con la donzella penetrata per lunghi minuti con gli occhi, finisce. Niente di nuovo, un lieto fine ma possiamo dire innovatore, perché se è vero che è comunque un lieto fine, è pur vero che la commedia non finisce con il matrimonio dei protagonisti i quali, essendo fratello e sorella, devono accontentarsi di un matrimonio con personaggi minori. Mentre si dà via alle danze e la festa diventa completamente evento mondano i cortigiani sono ignari di quello che io so, col senno del poi: con questo spettacolo, inizia una nuova epoca del teatro.

L’anno successivo sono a Roma, non molto distante dal Campidoglio, mi si para davanti un grosso edificio di marmo, come il mio solito chiedo in giro ad un romano dove mi trovo, mi risponde che quello è il teatro del Campidoglio che il papa, Leone X, aveva fatto ricostruire dopo che fu smontato quello che un anno prima era servito per l’organizzazione d’una serie di spettacoli allo scopo di festeggiare la cittadinanza onoraria di Giuliano e Lorenzo de’ Medici, fratello e nipote del pontefice e dopo due giorni fu dismesso. A queste parole rimango basito, Cosa? Un teatro di 3.000 posti dismesso solo dopo due giorni? Alla mia perplessità il signore romano con una certa ironia, mi fa capire che in queste occasioni non si deve badare a spese e che i 6.000 ducati sborsati sono pure poca cosa davanti a certi avvenimenti e, toccando un angolo del teatro, mi fa notare che quello non è marmo ma legno dipinto. Lasciandolo mentre ancora è intento a parlare delle feste pontificie io attraverso un arco di trionfo, anche questo “dipinto” in marmo, è l’entrata del teatro. Oltrepassato l’arco mi si para davanti agli occhi una cavea a forma di una U ad angoli retti, una scena architettonica a due piani con una scenae frons romana. Sono a Roma nel 1500 o nel 100 d.c.? Certo che gli intellettuali di quest’epoca sono davvero rispettosi dell’epoca romana, la ritengono così perfetta che la ricostruiscono meticolosamente al punto quasi di riviverla. Ciò che mi stupisce è quello che stanno per costruire, non credo ai miei occhi, non capisco davvero l’epoca in cui sto sbalordendomi: son passate delle ore e davanti a me s’innalzano dei veri e propri corpi tridimensionali rappresentati la città di Roma, archi, obelischi, palazzi, tra i quali c’è una vera e propria via prospettica. Sono stupito e girandomi incantato chiedo ad un operatore di scena l’anno, conferma la data e mi dice che domani ci sarà la rappresentazione de La Calandria, quella che un anno prima avevo visto al Salone del trono di Palazzo Ducale ad Urbino. Dunque non solo io mi ero accorto di quell’evento, l’eccezionalità di quella rappresentazione ha varcato i confini del ducato di Urbino e ora l’architetto-scenografo Baldassarre Peruzzi sta cercando di superare il Genga nell’architettura scenica.

In vent’anni la scenografia è cambiata in un modo radicale: nel Medioevo v’erano le mansion casette scenografiche sparse per il Paese, poi hanno unito le casette per avere un’unità di luogo, dopodiché si è giunti alla scena dipinta, piatta, ed ora eccoci qui, davanti ad una scena tridimensionale. Mi salta in mente un libro su tutti, che sarà scritto nel 1537, il secondo libro d’Architettura di Sebastiano Serlio, in cui l’architetto-teorico bolognese disegna le tre scene tipo del teatro, in maniera prospettica: scena tragica, fatta di architetture mastodontiche e monumentali; scena comica, con un paesaggio urbano e popolare; scena satirica, rappresentante un ambiente naturale, in genere un bosco. Ma oltre a questo trattato che sarà il vademecum per la scenografia del futuro, il pensiero mi conduce a quello che possiamo definire l’esemplificazione pratica dello stesso libro dell’architetto felsineo: il Teatro Olimpico di Vicenza, costruito sull’interpretazione del trattato del Vitruvio, De architectura, libro dal quale lo stesso Serlio attingerà per il suo trattato.

 

 

Intanto esco dal teatro di legno, La Calandria, l’ho già vista, mi basta lo spettacolo di questa scena che cambierà le sorti della scena in tutto il mondo e forse quel signore romano aveva ragione per certe occasioni non bisogna badare a spese.

 

 

 

 

THEATROPEDIA #9 – Interviste elucubrate: Shakespeare

THEATROPEDIA #9 – Interviste elucubrate: Shakespeare

23 aprile 1612. È da un giorno che sto viaggiando su un carro per giungere da Londra ad un paesino che dista 150 km, Stratford-upon-Avon e mi dicono che siamo arrivati, mancano pochi metri, l’emozione è palpabile, stiamo per fermarci davanti casa del drammaturgo più noto al mondo: William Shakespeare. Da un anno circa si è ritirato nel suo paese natale, dopo una vita di successi londinesi, e cerchiamo di “estorcergli” bonariamente un’intervista nel giorno del suo compleanno. Ecco giunti a casa Shakespeare, ci viene incontro una ragazza, Susanna, sua figlia, mi dice che il bardo mi sta aspettando, non c’è più tempo, è l’ora.

THE: Salve, sir Shakespeare, siamo quelli di Theatron 2.0.
 
SHA: Siete quelli di cosa?
 
THE: Theatron 2.0.
 
SHA: Cos’è una compagnia teatrale, da dove venite? Londra? Birmingham?
 
THE: Italia.
 
SHA: Ah, italiani, cioè?
 
THE: Scusate… (tra sé) dimentico sempre di ricordare che io vivo nell’Italia unita ma che adesso è un po’ diverso… (al bardo) Siamo del Regno di Napoli, di Sicilia e di Sardegna, dello Stato della Chiesa e dei Presidi, del ducato di Modena, di Firenze, di Parma, di Milano, di Savoia, del marchesato di Monferrato, di Mantova e della Repubbliche di Genova, Lucca e Venezia.
 
SHA: Va bene, lasciamo che sorvolino in altre sponde le provenienze delle vostre membra, ditemi il vento che vi ha sospinti qui al mio cospetto.
 
THE: Ah, perché siamo qui? Per farvi alcune domande.
 
SHA: Alcune, alcune… hm… alcune… perché non farle tutte? Quale cernita avete adoprato per sceglierne alcune invece d’altre?
 
THE: Ehm… diciamo che sono tutte.
 
SHA: Io non so se fidarmi ancora di voi, non sareste mica messi della compagnia The King’s Men, io non scrivo più, già lo dissi a Burbage che…
 
THE: …sentite, vi dobbiamo dire che non siamo di quest’epoca, siamo del 2016, veniamo in questo giorno perché sappiamo che è il vostro compleanno e vorremmo porgervi gli auguri.
 
SHA: Già è cambiato il vento che vi ha sospinti da me, signori io rimango senza parole davanti a chi mi offre moltitudini di fonemi alla rinfusa.
 
THE: Andiamo alle domande, scusateci. Conoscete la nostra epoca?
 
SHA: Adesso si ritorna alle questioni. Mi si domanda se conosco la vostra epoca. Devo rispondere, orbene vi rispondo così: avrei preferito conoscerlo di notte, il vostro tempo, nell’oscurità delle tenebre per racchiuderlo in un mistero da scoprire e che non si svelasse alla luce del giorno quel che invece potei osservare.
 
THE: Che cosa ha osservato?
 
SHA: Niente, niente e poi niente e tutti questi niente uniti facevano il troppo, l’insopportabile.
 
THE: Ma lo sa che lei ancora oggi è il drammaturgo più rappresentato anche nell’odierno teatro?
 
SHA: Già, io poi vorrei dimandare a chi ne ha potere chi ve lo concede questo permesso?
 
THE: Beh, in Italia, la SIAE.
 
SHA: Cosa, chi è questa signora?
 
THE: No, è un ente che tutela i diritti degli autori. 
 
SHA: Ed io sarei da tutelare?
 
THE: Certo, è un patrimonio.
 
SHA: Scusatemi ma un patrimonio per chi? Per me?
 
THE: Ehm… non proprio, per chi sfrutta la vostra opera.
 
SHA: Prima mi sfruttate, deturpate, poi vi prendete anche i ricavi del sopruso?
 
THE: Ehm… ma non siete contento che le vostre opere a distanza di cinquecento anni vanno ancora in scena?
 
SHA: Lo sarei, forse, se fossi in vita… e scriverei magari lì da voi altre cose che non ebbi modo di scrivere perché vissi in quest’epoca odierna. Mi dimando però: cosa fanno gli uomini nella vostra epoca? Non scrivono? Non urlano il marcio dei regni moderni? 
 
THE: Ehm, c’è chi scrive ma chi li ascolta? Non sono tante le persone che vanno a teatro, e poi è troppo dispendioso. Non ci sono tournée per drammaturgie contemporanee.
 
SHA: E le compagnie reali del re, cosa mettono in scena?
 
SHA: Da noi non ci sono regni monarchici, sono quasi tutte repubbliche, stati.
 
SHA: Compagnie di Stato, allora.
 
THE: Ehm, beh lo Stato non è che proprio abbia compagnie, è un po’ diverso da questa vostra epoca, non tutela il teatro, siamo in crisi.
 
SHA: Beh, che siete in crisi si era inteso dalle prime lettere pronunciate e dai miei primi intendimenti del vostro mondo. Tutto è strano lì, tutto è marcio… voi tutelate me e non tutelate il teatro dove le mie opere vanno in scena? Cos’è questo, un ossimoro o io non odo più bene parole che si dicono?
 
THE: Noi la tuteliamo e ancora oggi abbiamo una stima immensa della vostra opera, guardi le mostro queste locandine. (gliele mostra) Sono migliaia di suoi spettacoli in scena.
 
SHA: (guarda le locandine) Mi volete far credere che vanno in scena ancora spettacoli che denunciano gli immani problemi politici di fine cinquecento britannico?
 
THE: Anche… ma i problemi sono sempre più o meno gli stessi, il potere cambia veste ma non la sostanza.
 
SHA: (c.s.) Ma io leggo spesso questa parola dispregiativa: adattamento… per quale ragione dovrei essere, allora, adattato?
 
THE: Beh, spesso per mettervi al passo con l’attualità e spesso anche perché così, per la verità, i diritti dei vostri testi vanno agli elaboratori, traduttori o adattatori delle vostre opere… per dovere però vi citano.
 
SHA: Ma come? Gli altri si prendono i miei diritti per dovere?
 
THE: Ma voi siete morto!
 
SHA: Ma perché non scrivono loro?
 
THE: Ma chi adatta e elabora è uno scrittore dalle nostre parti.
 
SHA: Ah beh voi lo chiamate scrittoio, noi lo chiamavamo scrivano, più o meno…
 
THE: No, non avete capito: scrittore, autore, drammaturgo.
 
SHA: Sentite, mi si tolgano queste pagine offensive di dosso e porgetemi le vostre terga dinanzi alla mia faccia nel mentre si accomodano fuori.
 
THE: No, ma perché fate così? Non ce lo aspettavamo.
 
SHA: Quando io scrivevo un’opera, il mio intento segreto era quello di giungere a comunicare certe cose agli spettatori. “C’è del marcio in Danimarca!”, l’avete presente questa frase?
 
THE: Sì, Marcello nell’Amleto.
 
SHA: La gente lì fuori sa che quel personaggio, Marcello, sta dicendo in realtà che c’è del marcio in Scozia, dopo lo scandalo di Maria Stuarda. Pensavo che il teatro avesse preso questa strada, la strada della denunzia sociale, politica, quella stessa ragione per cui nacque la tragedia greca.
 
THE: Ah, conoscete la tragedia greca?
 
SHA: Ma per chi mi avete preso, per un povero di mente? 
 
THE: Beh, però anche voi, si sa, non avete rispettato le unità aristoteliche, ve ne siete un po’ infischiato delle regole drammaturgiche.
 
SHA: Certo, questa non è l’epoca delle unità aristoteliche, c’è bisogno di ampliare gli orizzonti. Ve ne infischiaste voi delle mie regole, allora sì che vi divertireste.
 
THE: Beh, guardate, noi in realtà da tempo ce ne siamo infischiati, lo conoscete il cinema?
 
SHA: Sì.
 
THE: Noi pensiamo che voi siete il primo sceneggiatore ante litteram del cinema. La complessità dei vostri testi, rendono i vostri copioni più cinematografici che teatrali.
 
SHA: Ah, pensa, noi li eseguiamo in teatro e non abbiamo alcuna sorta di problema.
 
THE: Sì, lo so. Ma è un po’ inverosimile, permetteteci, poco realistico. Solo per farvi alcuni esempi, come mettere in scena: La foresta di Birnam che si muove del MacBeth, l’isola de La tempesta, L’orso e la nave in scena, la Sicilia e la Boemia di fronte ne il Racconto d’Inverno?
 
SHA: Se la dici, è già scena. Se indichi che una bandiera è la Danimarca quando la bandiera si innalza si è in Danimarca. Ma anche un bambino lo saprebbe.
 
THE: Al cinema invece noi facciamo vedere la Danimarca grazie a scene realistiche.
 
SHA: A che pro?
 
THE: Per verosimiglianza.
 
SHA: Cosa fate dei quadri? Io racconto storie, metto in scena dubbi, sentimenti, rabbia, divertimento, voi cosa fate? Mettete in scena, montagne, mari, fiumi, nazioni?
 
THE: Non potete negare che il cinema sia più realistico, se lo conoscete.
 
SHA: Il cinema è dittatoriale, è per poveri di menti, vi dirige lui sul personaggio e quello che vuole sia il vostro personaggio, vedete tutto con l’occhio di quel personaggio. Al teatro, cari voi, vedete sempre in scena i personaggi anche quando non parlano, loro son lì, non se ne fuggono, non si eliminano, sono ombre, presenze, vestigi di coscienza. Siete voi i protagonisti, voi decidete chi deve vincere e chi perdere. Quindi il teatro è molto più realistico del vostro cinema.
 
THE: Capito, con voi non la si spunta.
 
SHA: Cosa dovete spuntare, qual arma dovete impugnare? Contro chi?
 
THE: No, è un modo di dire dei nostri tempi, scusateci.
 
SHA: Modi di dire? Ma non dite quello che dovete dire e dite modi di dire?!
 
THE: Un’ultima domanda, non vogliamo abusare della vostra pazienza, cosa consigliereste al Teatro dei nostri tempi?
 
SHA: Di farsi teatro. Di fare teatro. Non di mettere in scena del Teatro. Il teatro è un modo di vivere degli individui. Se gli individui non sono interessati alla vita si annoieranno al teatro perché in scena c’è un concentrato della vita. Se non sono interessati alla politica, al sociale, si annoieranno perché si parla di quello.
 
THE: Ma forse ci sia annoia perché è una cosa già saputa, seria, la gente è piena di problemi, per questo oggi è di moda il cabaret, il teatro comico, perché la gente vuole ridere, vuole dimenticarsi i guai.
 
SHA: Vuole dimenticarsi di se stessa. Si disinteressa di se stessa. La gente non è più la gente, è un insieme di corpi umani resi corpi e non più umani. Non vuole sapere, non è curiosa, non è viva e quindi non è teatrale. Che si crede, che ai miei tempi non c’erano problemi? Appunto per questo la gente non doveva ridere.
 
THE: Caro bardo noi la salutiamo e portiamo questa preziosa e stravagante testimonianza ai vostri posteri e ai nostri coevi.
 
SHA: Scusate, voglio porvi io una questione a voi prima che andiate. Leggevo spesso sulle locandine che il 2016 è un anno speciale shakespeariano, i cinquecento anni di Shakespeare… perché?
 
THE: Beh, perché… sono passati cinquecento anni dal 1616.
 
SHA: E cosa c’entra il 1616, cosa succederà fra quattro anni?
 
THE: Beh… ehm… lo scoprirà solo vivendo o forse…
 
THEATROPEDIA #8 – Teatro elisabettiano, il potere delle parole e della vita reale

THEATROPEDIA #8 – Teatro elisabettiano, il potere delle parole e della vita reale

Londra 1548, in una piazza centrale della città c’è subbuglio, due fazioni distinte d’individui parlano animatamente, non vengono alle mani ma la concitazione è davvero chiassosa. È stupefacente scoprire come ancora una volta si disquisisce di teatro, d’altronde è quello lo svago che ha questa gente in quest’epoca. Da poco è successo qualcosa di strano nella città londinese, per la prima volta il re Enrico VIII, ha permesso di mettere in scena spettacoli che non trattano di storie religiose ma basati su trame molto più terrene.

Come sempre c’è una contrapposizione tra i conservatori, che vedono oramai il teatro come un qualcosa d’inscindibile dalla Chiesa cattolica, e i “rivoluzionari”, che stufi della tradizione, vedono in una forma alternativa di teatro un’altra possibilità di divertimento. Per la prima volta andranno in scena, infatti, spettacoli comici a discapito dei seriosi Corpus Christie plays e Miracle plays che non sono altro che messe interpretate.

La mia curiosità mi spinge a indagare e, trovandomi fisicamente dal lato dei moralizzatori, chiedo a uno di essi com’è stato possibile che il re abbia acconsentito ad un nuovo genere teatrale. Mi risponde un ecclesiastico che indica le Moralities (o Morality plays) la causa di tutto ciò: una forma teatrale che nata in precedenza come religiosa è diventata nel tempo laica, per colpa di alcune società culturale gestite da buontemponi. Le Moralities in realtà sono piccole scene allegoriche che, seppur a sfondo religioso, s’allontanano dalla storia biblica e in scena pongono l’uomo e il rispetto delle virtù del buon cristiano, spesso i personaggi sono antropomorfi posseggono un linguaggio popolare e danzano balli macabri per terrorizzare i peccatori. Col tempo però questi personaggi s’allontanarono dall’originario intento didattico religioso e divennero dei veri e propri interludi divertenti, incentrati su temi profani e sulle problematiche politiche e sociali.

Li lascio alla disputa e col beneficio che il futuro mi assicura so bene come va a finire, per cui, gradasso, sorrido alla loro ignoranza e mi siedo su uno sgabello di un teatro che ancor’oggi è conosciuto in tutto il mondo: sono al Globe Theatre precisamente nel 1602, è un giorno di dicembre, sono le 2 del pomeriggio: attendo in una galleria del teatro di vedere la prima dell’Amleto, una tragedia di un drammaturgo inglese che dicono sia “un autore eccellentissimo tanto nel genere comico che in quello drammatico”, il suo nome è William, William Shakespeare. A metterla in scena sarà la compagnia teatrale The Lord Chamberlain’s Men, una delle più famose. Questo lo s’evince dalla folla assiepata ovunque, in piedi giù in platea, seduta nelle gallerie e alcune persone, addirittura, hanno avuto la possibilità di sedersi sul palcoscenico. In scena non andrà nulla di religioso anzi, dal vociferare degli addetti ai lavori si tratta di qualcosa di strettamente politico con riferimenti all’attualità. Sono curioso, inizia lo spettacolo e cala il silenzio.

Quel che non sapevano le persone incontrate nel 1548 è che circa una ventina d’anni dopo successe qualcosa che sconvolse definitivamente il panorama teatrale europeo. Infatti la regina Elisabetta I succedendo al trono di suo padre Enrico VIII, nel 1574 con un decreto reale stabilì il diritto delle compagnie teatrali di dare rappresentazioni ogni giorno e questo fece sì che l’interesse per il teatro accrescesse e che sempre più evoluzioni drammaturgiche e scenografiche venissero create. Non a caso il teatro in cui mi trovo è frutto di quell’era che prende il nome proprio da Elisabetta I. Il teatro elisabettiano era frutto di studio dei teatri antichi dell’epoca greca-romana e di quelli più recenti, d’epoca medievale. L’edificio costruito per le rappresentazioni è di forma circolare o anche rettangolare e forma una vera e propria arena (un piccolo Colosseo), le gallerie sembrano delle mansion (piccole casette utilizzate come palcoscenici durante tutto il medioevo) che qui cambiano d’utilità, non servono più alla scena del dramma ma prettamente a luogo di comodo per gli spettatori più abbienti. Il palcoscenico poi è una piattaforma lignea (come ligneo è tutto il teatro), di 12 metri di lato che avanza fino a metà dell’arena, il quale viene completamente circondato dagli spettatori. Alla metà dei lati del palcoscenico ci sono due colonne che reggono una specie di tetto da cui per mezzo di una botola calano giù o tirano su degli oggetti scenici. Ma la particolarità maggiore è dato dall’upper stage inner stage, un palcoscenico superiore che serve come praticabile per eventuali scene e un palcoscenico interno che può essere luogo di scena non a vista. Al di sopra di tutto si erge una specie di torre da cui sventola una bandiera con l’emblema del teatro. Però oggi accanto se ne vede un’altra quella della Danimarca, già, segno che la storia a cui sto assistendo si svolge in quel luogo.

Ritornando allo spettacolo siamo a un momento topico, l’Amleto sta pronunciando il suo soliloquio più famoso: “essere o non essere”, l’attore che lo interpreta, Richard Burbage (un grande interprete dei testi shakespeariani, nonché grande amico del bardo), non ha un teschio in mano e interpreta il ruolo del principe di Danimarca d’impeto, molto affascinante.

Tutta la tragedia è stata recitata con semplicità senza cambi di scena, né artifizi particolari, anche se lo stesso palcoscenico del Globe Theatre può essere definito un artifizio. Difatti il suo spazio scenico, come quello d’ogni teatro elisabettiano, ha delle capacità enormi, innanzitutto è molto ampio e questo da agio agli attori di attraversarlo da un lato all’altro e dal davanti al fondo, gli usci sono molteplici e poi la peculiarità più originale è che spesso la scena è recitata anche in verticale, cioè dall’alto al basso, di sovente si son visti scambiar battute dei personaggi sull’upper stage con altri personaggi sul palcoscenico inferiore. Il teatro dal punto di vista drammaturgico fa fede alle parole, le scenografie dei testi shakespeariani le scrive lo stesso Shakespeare ma con le parole, per questo si supera la difficoltà scenografica di testi troppo complessi da realizzare scenicamente. Infatti, le opere di Shakespeare sono composte da decine di scene, azionifantastiche (una foresta che si muove nel MacBeth, la Boemia e la Sicilia in una sola opera quale Il racconto d’inverno) inoltre, l’autore dell’Avon, non prevede atti, per cui ogni cambiamento andrebbe fatto a vista (o nell’inner stage). Quindi i segni distintivi di cambi di scene sono simbolici: bandiere, squilli di trombe, cambio di costume (che ha un’importanza maggiore della scenografia). 

A spettacolo finito rimango impressionato dalla forza delle parole di questo testo e di questo teatro che crea soprattutto con l’immaginazione luoghi distanti tra loro, scene d’azione complesse, e indaga, scoperchia, misfatti legati all’attualità politico-sociale: molti spettatori bisbigliavano collegando la storia di Amleto ad un assassinio avvenuto nel febbraio del 1566 in Scozia. Henry Lord Stanley, re consorte, marito della regina Maria Stuarda, fu assassinato dal conte di Bothwell, nel maggio dello stesso anno, tre mesi dopo l’omicidio del marito, Maria Stuarda sposò l’assassino, il conte di Bothwell, appunto, come non collegarlo con l’assassinio del re padre di Amleto e la salita al trono dello zio Claudio, autore dell’omicidio, dopo essersi unito con Gertrude, madre del principe di Danimarca? Il teatro acquisiva l’originale stimolo del carro di Tespi, quello di mettere a nudo il re o l’imperatore tiranno, rendendolo un’arma popolare.

Questo portò ad un accrescimento del bisogno del teatro e grazie al decreto di Elisabetta I, grazie al bisogno della crescente popolazione londinese di trovare svago

 dopo la repressione culturale che ci fu nei decenni precedenti, si ebbe la necessità, come già detto, di nuovi drammi che servivano alle sempre più numerose compagnie teatrali, costrette a proporre sempre qualcosa di nuovo per accaparrarsi il pubblico. Il risultato fu che oltre al genio di William Shakespeare in Inghilterra fiorirono altri degni rappresentanti del rinnovato teatro britannico, uno su tutti Ben Jonson, che come Shakespeare si rivolgeva al contemporaneo ma con uno sguardo meno politico e più sociale questi mise a fuoco le debolezze dei “caratteri” dei suoi coevi preoccupandosi di correggere il comportamento umano, prendendo spunto dai grandi classici delle opere dell’antica Grecia.

Intanto, davanti a me il sole è quasi tramontato, la gente confabula e si rianima, visto che durante l’esibizione sono restati in silenzio ad ascoltare e immaginare il lorospettacolo, quel che si dirà di loro: una folla chiassosa che guarda uno spettacolo è assolutamente falso. Queste persone pagano in moneta il loro spettacolo e vogliono gustarselo per intero. Anzi devo esservi sincero non ho trovato ancora la donna a cui pagare il mio posto, sì perché qui non esistono botteghini ci sono delle persone che attendono davanti ai settori e riscuotono, il mio posto costava circa trenta penny, prima di assolvere il mio debito mi avvicino ad una locandina, la stacco e la porto via con me, un souvenir dal 1602Globe Theatre, Londra.

THEATROPEDIA #6 – L’attore indiano e il teatro dell’estetica

THEATROPEDIA #6 – L’attore indiano e il teatro dell’estetica

Siamo nel 1050 in India e ci troviamo in una sala rettangolare, molto simile a quella di una chiesa, lunga 30 metri e larga 15, divisa in parti uguali. La gente è seduta in terra, in una sua metà, attende che di lì a poco dall’altra parte avvenga qualcosa di annunciato, uno spettacolo. È un pubblico composto immerso in un brusìo d’attesa. Quando gli spettatori arrivano, notiamo che per prima cosa si fermano vicino a una colonna e poi si siedono con compostezza. Le colonne della sala sono colorate, e ogni colore indica i posti riservati per casta: bramini, guerrieri, artigiani, servi. D’un tratto il brusìo s’arresta, entra qualcuno su quello che crediamo essere il palcoscenico: è uno stregone, si dimena e credo stia mettendo in atto un rito propiziatorio. Alla fine della sua performance la gente impressionata resta ammutolita. In seguito si alza un cantante e prende in maniera naturale e decisa a cantare di qualcuno, un personaggio. Finita l’esibizione, infatti, entra un attore con dei braccialetti e degli orecchini vistosi che contraddistinguono convenzionalmente una tipologia di personaggio e inizia ad interpretare qualcosa mimicamente. Solo ora notiamo lo spazio scenico della sala: è diviso anch’esso (come la sala) ulteriormente in due parti uguali, la parte verso il pubblico è quello che noi chiameremmo palco, la parte retrostante, dietro a due porte, fa da retroscena e tra questa parte e lo spazio scenico c’è posizionata, stranamente, l’orchestra.

Soffermandoci però sull’esibizione di quell’attore restiamo davvero colpiti, si muove così preciso, sinuoso, quei gesti sembrano essere frutto di anni di studio ed hanno insiti un significato che noi non conosciamo ma che il pubblico in sala sembra conoscere bene. Tutta la scena è accompagnata dalla musica, i dialoghi seguiti da grossi tamburi e spesso intervengono i cantanti per rafforzare il racconto. Siamo impressionati.

Alla fine dello spettacolo mi avvicino all’attore, Abhishek, dicono si chiami così, sono curioso, gli chiedo se esistono maestri che insegnano quell’arte, di come egli è arrivato ad essere così bravo. Da come risponde, capisco che davvero in India l’attore è un professionista, già negli anni 1000. Mi dice che quella gente va per vedere soprattutto la bravura dell’attore e non per seguire una trama, è quello lo spettacolo. La prima cosa che è insegnata a una persona che vuole fare quel mestiere sono le quattro risorse fondamentali dell’attore. Gli chiedo di svelarmele ma egli dice che non c’è nessun segreto e che tutti gli spettatori le conoscono e, anzi, sono i metri di giudizio per giudicare le performance. Anche il pubblico quindi ha una sua competenza. Abhishek chiama un suo ammiratore che timidamente s’avvicina lo guarda paterno e poi gli fa cenno di dirmi le quattro risorse fondamentali che un attore deve avere, il suo ammiratore con la scrupolosa memoria di uno scolaretto, mi dice che l’attore ha a sua disposizione: il movimento e la gestualità; la parola e il canto; il costume e il trucco; la penetrazione psicologica.

 

Abhishek nota il mio stupore davanti alle parole del suo spettatore e solo con lo sguardo riesce a farmi capire che vuole che lo segua. M’incammino così con lui e mi dice: “Ora ti farò conoscere il mio maestro”. Sono curiosissimo e ansioso, entriamo in una saletta vuota, lui si ferma e con gesti rispettosi si gira incantato e proferisce una sola parola, rotta quasi dall’emozione: “Eccolo”. Indica un libro, si chiama Nātyaśāstra (in sanscrito, Trattato sulle arti drammatiche) scritto tra il 200 a.c. e il 200d.c. daBharata Muni, un leggendario autore che secondo la tradizione ricevette il libro, addirittura, daBrahmā, il dio della creazione dell’universo. Da come Abhishek spiega sommariamente il contenuto del testo potrei direi che possa essere definito l’equivalente della Poetica d’Aristotele per gli occidentali, solo che il Nātyaśāstra è molto più particolareggiante sulle regole della recitazione, della musica e della danza.  Se lo si legge si scopre che lo scopo del dramma in scena è quello di giungere a quello che viene definito in sanscrito rasa, cioè un puro piacere poetico, dissociato dall’estetica dell’esperienza, dalla verosimiglianza della scena o dal carattere dei personaggi come avviene invece nel teatro occidentale.

Leggendo il Nātyaśāstra ci si stupisce della maniacalità o potremmo dire meglio, della meticolosità con cui l’autore specifica lo scopo e la tecnica per giungere alla risoluzione finale della messinscena. Ci risulta davvero difficile spiegarlo brevemente, si richiede un’attenzione “indiana” per poter comprendere la loro antica arte segreta del teatro. Per questo solo con un ardire tecnico e una curiosa pazienza potremmo cercare di dipanare il tutto nel breve tempo che ci concediamo a questa lettura.

Il Nātyaśāstra specifica i nove rasa possibili da poter esteriorizzare che sono: erotico, comico, patetico, furioso, eroico, terribile, odioso, meraviglioso e tranquillo. In seguito specifica i corrispondenti bhāva (che definiremo stati d’animo) per giungere ai succitati rasa (che potremo definire volgarmente, e forse impropriamente, generi teatrali): piacere, allegria, dolore, rabbia, forza, paura, avversione, ammirazione e pace. L’attore-autore della performance deve inscenare un evento che può avere anche molti stati d’animi (o bhāva) colleganti con i vari rasa ma deve stare attento a mantenere un equilibrio tra questi e far prevalere sempre uno su tutti il rasa della rappresentazione che può essere solo uno. Il teatro si configura quindi come una mimesi del mondo e quindi dei rasa che lo compone ed essendo il Teatro un evento rappresentativo del mondo svolto nel mondo e a sua volta il mondo per forza di cosa una parte del teatro, imitando le azioni della società nella loro universalità piuttosto che nella loro attualità, il teatro risulta essere per il pubblico più “reale” rispetto al mondo vero e proprio perché depauperato della sua complessità rende una parte di essa lampante. Per questo dopo aver apprezzato l’equilibrio della vita fatta dei tanti stati d’animo si concede al teatro l’unica sua attitudine tecnica la prevalenza di un solo rasa.

Questa può essere la fortuna o la sfortuna di un attore perché se non rende comprensibile quale sia il rasa predominante della performance non viene considerato un buon interprete e il pubblico indiano sembra essere davvero molto preparato, possiede una virtù in particolare: è un ottimo giudicatore. Il ruolo del giudizio competente del pubblico è fondamentale per questo teatro che è possibile proprio grazie ad un interlocutore attento ed è fautore inoltre principale dell’evoluzione attoriale sviluppatasi già negli anni 1000 in una maniera ineccepibile.

Non mi resta, non ci resta che lasciare quel luogo teatrale che sembra collegare l’arte della rappresentazione ai suoi primordi, quando questa aveva una stretta relazione col sacro. Prima di avviarci verso altri luoghi ci viene da fare un veloce parallelo con l’odierno teatro e la prima cosa che ci sovviene è la sostanziale differenza di pubblico per cui vien da esclamare: “Ci fosse oggi, dalle nostre parti un pubblico così…”. Però distogliamo l’attenzione da questo pensiero e ci affrettiamo a lasciare l’India e i suoi anni 1000 definitivamente, anche perché presto arriverà il dominio religioso islamico, che com’è successo con il propagarsi del cristianesimo per il teatro occidentale, porterà all’abolizione di questo tradizionale e straordinario patrimonio culturale e l’involuzione quindi è dietro la porta. 

THEATROPEDIA #5 – Religione VS teatro, l’attore si fa ombra

THEATROPEDIA #5 – Religione VS teatro, l’attore si fa ombra

<<Melius est, pauperes edere de mensa tua, quam istriones>>, quel che dice questo ammonimento del Basso Medioevo latino fa intendere quanto difficile fosse il mestiere del teatrante in quell’epoca: <<È meglio alla tua mensa dar da mangiare ai poveri che agli attori>>. In effetti, nel 700 d.c. quello che nei primi secoli dell’Impero romano sembrava essere il seme di un’evoluzione teatrale deluse le aspettative e, invece di migliorarsi, involse fino alla sua fine. Essere attore nell’epoca bizantina divenne sempre più difficile. Se nei primi anni della Costantinopoli capitale dell’impero romano (dal 330 al 1202/1261 al 1453), in giro per la città si potevano ritrovare teatri costruiti sui modelli di quelli greci e romani, ippodromi in stile Circo Massimo, a cominciare dalla fine del 600 la varietà degli spettacoli si affievolì sempre di più perché contrastati dalla religione cristiana. Nel 692 gli attori erano numerosissimi ma nel Concilio della Chiesa di Roma tenutosi in quell’anno a Costantinopoli gli ecclesiastici decretarono la messa al bando degli spettacoli teatrali. Fu deciso, inoltre, che sia gli attori professionisti che le loro consorti dovevano essere espulsi dalla chiesa. E, addirittura, se qualcuno ospitava degliistriones rischiava in prima persona delle punizioni, gli attori erano visti alla stregua dei ladri, delle meritrici, e furono privati di numerosi diritti civili.

 

Il silenzio increscioso dell’arte teatrale d’improvviso è interrotto in una strada principale di Costantinopoli del 700. Sentiamo voci lamentevoli proferite in cori che si avvicinano lentamente, sono molto simili a quelle delle litanie liturgiche, un abitante dell’epoca mi fa capire che è una folla di gente che sta cantando o biascicando, non si capisce bene per la verità, delle frasi suggerite dal sacerdote: “La processione!”. Già, ecco cosa è rimasto di teatrale nell’era bizantina, e quando quella folla di persone ci passa davanti, salta agli occhi e alle orecchie qualcosa di strano. I sacerdoti interpretano frasi, recitano azioni della Passione di Cristo. Da un’iscrizione di uno di questi leggo la parte iniziale di una loro lettura drammatica: <<Ora, alla maniera di Euripide, vi racconterò la Passione che ha salvato il mondo>>. Alla maniera di Euripide? Ma qui si parla di teatro? Non abbiamo detto che fosse bandito? Hai capito questi ecclesiastici che furbi? Il teatro è vietato agli attori ma non ai sacerdoti che interpretano. Non fu quindi, l’arte in se per se bandita ma i significati della stessa che spesso erano pagani. Hanno sostituito il bisogno di quell’arte oramai divenuta popolare con altre espressioni e con la stessa veicolano i loro messaggi. Qualcuno, ironicamente, potrebbe dire che non c’è niente di scandaloso basta ricordare che in fondo le arcaiche origini del teatro ci dicono che i primi attori erano molto simili ai sacerdoti. Ma sarebbe ovviamente solo sarcasmo.

Intanto però nell’Europa occidentale, con la caduta dell’impero romano d’occidente e la cessazione dell’ordinamento politico e amministrativo dello stesso si pone fine all’arte rappresentativa sovvenzionata dall’Impero: il teatro classico. Le compagnie dei mimi, non avendo più ragione di esistere, si dissolsero e i più convinti si trasformarono in cantastorie, menestrelli, acrobati, giocolieri, equilibristi. Le scenette erano sempre quelle degli anni avanti Cristo, rozze, lascive, discendenti dirette dei Fescennini e delle Atellane. Questi liberi attori girovaghi ebbero successo soprattutto nel 900, e crebbero di numero, questo lo si capisce proprio perché si hanno molti editti emanati dalla chiesa contro i mimi, histriones e ioculatores in quel periodo. Insomma la battaglia era tra la chiesa e l’arte rappresentativa e dovunque la chiesa cristiana arrivava, tramite i romani, distruggeva ogni figura di “libera informazione” e di rappresentazione. Nell’Europa Settentrionale ad esempio vi erano dei narratori di storie a più voci che raccontavano delle imprese degli eroi nordici e, siccome questi erano depositari anche della storia e della cronologia della tribù a cui egli appartenevano, gli scop, così erano detti, nutrivano molta considerazione dagli abitanti della zona. Bene, in seguito alla progressiva conversione al cristianesimo delle tribù nordiche, intorno al VII e VIII secolo, la chiesa si schierò contro di essi e finirono di essere trattati allo stesso modo dei mimi, cioè uomini non meritevoli di avere diritti civili e per questo marchiati infami.

Lo scopo della Chiesa era chiaramente quello di direzionare tutte le attenzioni extraquotidiane su di essa. Questo lo faceva non solo emanando editti contro le tradizioni pagane, ma stando attenta a sostituire l’evento tradizionale, a cui la gente era legato, con quello religioso appropriandosi così delle feste preesistenti. Per questo motivo gli studiosi affermano che la data di nascita di Gesù fu fissata al giorno 25 dicembre solo nel 300 circa, proprio per sostituire le feste pagane svolte in quel periodo dell’anno. Allo stesso modo si fece con la Pasqua che andava a sostituire le feste della fertilità che si tenevano nei mesi primaverili. Come si è, però, già detto l’arte rappresentativa, non veniva del tutto eliminata ma cambiata di senso, l’evento pagano diveniva religioso e il religioso recitava il permesso, cioè, appunto, la storia della Passione di Cristo, la sua nascita, la resurrezione. Questa pratica fu così perfezionata che nel 900 si sviluppò quello che poi sarà chiamato il dramma liturgico che nasce da un testo in primis il Quem quaeritis, un dramma in forma dialogata che raccontava dell’incontro delle tre Marie con l’angelo al sepolcro di Cristo.

Si potrebbe però, per ironia della sorte esclamare: “Chi di religione colpisce di religione perisce!”. Difatti, nell’aria d’oriente dominata dai romani, dopo la morte di Maometto (632), il nascente impero dell’Islam, da questo evento generato, esercitò una pressione politica e militare contro l’Impero. Il suo dominio si espanse rapidamente dall’Arabia alla Persia, al Nordafrica, alla Spagna, spingendosi fino alla Francia dove fu arrestato da Carlo Martello nella battaglia di Poitiers (732). L’avanzata ottomana portava con sé novità e proibizioni nel campo artistico e scientifico, una delle quali era il divieto assoluto dell’arte rappresentativa, di conseguenza con la conquista di Costantinopoli del 1453, da parte degli islamici ottomani, anche la forma liturgica di teatro sparì da quelle zone. L’attore in quei siti non esisteva più.

Solo in alcune zone governate dai musulmani: Turchia, India, Indonesia, Giappone, permisero un’unica forma di teatro, quella delle ombre. L’attore non ha più le sembianze solide di carne ed ossa, non ha nemmeno la somiglianza legnosa di un burattino, l’attore diventa l’ombra del suo passato che proietta immagini, create da sagome principalmente di cuoio, su di uno schermo bianco. Il grandioso teatro classico greco e latino che aveva comunque resistito alle mille difficoltà imposte dall’impero bizantino sopperì a favore di quello misero e spartano delle ombre.

L’attore, seppur mai riconosciuto come uomo dignitoso, nei primi anni d’impero romano aveva comunque trovato un suo ruolo all’interno della società, alla fine del primo secolo invece si ritrova di nuovo senza ruolo e peggio ancora bandito.