Il Generale al Brancaccino di Roma. Intervista al drammaturgo Emanuele Aldrovandi
In vista del debutto dell’8 e del 9 Marzo al Teatro Brancaccino in Roma de Il Generale diretto da Ciro Masella, con Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini e Ciro Masella, intervistiamo l’autore teatrale Emanuele Aldrovandi per analizzare le tematiche trattate nello spettacolo a partire dalle origini creative del testo scritto dal drammaturgo emiliano le cui parole ci offrono numerosi spunti di riflessione per ragionare secondo una prospettiva comparativa sugli sviluppi della drammaturgia contemporanea in Italia e in Europa.
Dopo essere stata vittima di numerosi attacchi terroristici, una potenza mondiale invade militarmente un piccolo stato considerato responsabile degli attentati, ma il generale che comanda la “missione di pace” si comporta, fin dal suo arrivo, in modo imprevisto: chiuso fra le quattro mura del suo ufficio impartisce al sottoposto ordini apparentemente contraddittori che in un parossismo di distruzione portano all’annientamento del suo stesso esercito. Qual è la genesi della drammaturgia “Il Generale” e qual è stato il processo creativo dall’inizio della stesura del testo fino alla messinscena?
L’opera è nata come prima bozza di scrittura nel 2010 quando frequentavo la Paolo Grassi come esercizio di un corso all’interno dell’Accademia. Ovviamente aveva una forma molto diversa rispetto al testo attuale perché negli anni l’ho riscritta e cambiata. Nel mezzo ha vinto alcuni premi e ha avuto qualche studio e mise en espace e questo mi ha dato l’occasione di cambiarla. Dopo era lì già codificata ed il fatto che Ciro Masella l’avesse letta e avesse voluto metterla in scena mi ha dato lo stimolo per chiudere il processo di scrittura.
Parlando e confrontandomi con lui sono arrivato a una versione definitiva quindi in realtà è una scrittura che è andata avanti sei anni a partire dal suo nucleo originale del 2010 e cambiando alcune cose fino a quando ha debuttato. L’idea di questa storia, senza fare spoiler, nasce dalle vicende di un generale pacifista che sceglie di combattere la guerra con le stesse armi di chi fa la guerra. Questa idea mi è venuta nel 2002 quando, dopo gli attacchi dell’11 settembre e dopo le guerre americane in Afghanistan e in Iraq. Io ero in seconda liceo e sono andato coi miei compagni di classe a manifestare contro le guerre americane in una manifestazione pacifista.
Durante la manifestazione hanno messo la canzone Contessa dei Modena City Ramblers che diceva: ”Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra vogliamo vedervi finire sottoterra”. Tutti coloro che erano lì per manifestare per la pace hanno cantato vogliamo la guerra. Quindi ho pensato che per far smettere di uccidere chi uccide bisogna ucciderlo quindi per far smettere le guerre c’è bisogno di fare un’altra guerra e questo mi è rimasto in testa. Poi c’è stata l’occasione di scrivere questo testo che era nato come commedia ma poi ha preso un tema, come le migliori commedie da Molière in poi, molto profondo nonostante sia trattato in maniera molto divertente. Il tema è come ci si rapporta con ciò che vogliamo combattere, lo si combatte con le stesse armi o si combatte con con altre armi? Quali armi? A livello tematico questo è il punto di partenza del testo.
Il Generale affronta alcuni temi centrali dell’attuale situazione internazionale, come il terrorismo, o il presunto “scontro di civiltà”, e racconta con linguaggio tragicomico il paradosso di un pacifista che sceglie di sconfiggere la violenza della guerra con una violenza ancora più cieca, estrema e radicale. Nello spettacolo “Il Generale” sono ravvisabili due piano tematici da una parte il potere che prospera sul servilismo ottuso – come scrive Matteo Brighenti – e dall’altra lo zelo cieco al potere dei sottoposti. Riconosci come valida questa chiave interpretativa?
In molti fanno notare l’aspetto dell’ottusità potere e del servilismo dei soldati: in effetti è questo il doppio piano perché se da un lato c’è un uomo che crede di essere illuminato e di aver avuto un’idea rivoluzionaria che fa del bene al mondo ma la mette in pratica in un modo delirante e in questo c’è anche il dramma di un personaggio che si crede buono e che pensa di fare una cosa giusta ma soffre molto per come vanno le cose. È un personaggio che credo abbia lo spessore tragico ma quello è molto merito di come l’ha reso Ciro, bravissimo a interpretare il generale.
Dall’altro canto c’è anche una linea tematica rispetto alle dinamiche di potere per cui come è possibile che un uomo che dà ordini di potere dica dalla prima scena di regalare i mezzi corazzati ai nemici e che mandi i suoi soldati a fare le missioni in cui è evidente che verranno uccisi. Il Generale riesce a convincere il tenente a dare questi ordini e i soldati ad andare a morire quindi l’altro piano che è parallelo a questo è sul potere e sull’ottusità dei sottoposti. Come se in cima alla piramide ci fosse una persona che dà ordini senza senso che portano alla morte dei sottoposti, in questo contesto la piramide stessa e la struttura gerarchica fa sì che le persone siano obbligate o convinte a seguire gli ordini e questa è una delle espressioni di come l’ottusità dei sudditi favorisca i sovrani sanguinari.
Penso che al giorno d’oggi sia un tema abbastanza attuale. Al Generale non interessa questa dinamica di potere né questo desiderio di esercitarlo ma lo utilizza per un fine che per lui è più alto: quindi c’è sia il dramma di un personaggio che cerca un fine più alto sia quella dinamica di potere che funziona perché gli altri la riconoscono.
Che rapporto professionale hai instaurato con Ciro Masella? Quali sono le impressioni rispetto al suo lavoro registico?
Il rapporto con Ciro è stato fondamentale perché il testo era il frutto di varie altre riscritture e quindi confrontandomi con lui sono riuscito a definirlo in maniera compiuta in questo senso è stato molto utile anche il confronto col suo sguardo registico.
Per quanto riguarda lo spettacoli sono soddisfattissimo e lo considero molto bello anche grazie agli altri due attori Giulia Eugeni e Eugenio Nocciolini. Ciro è stato bravissimo a livello interpretativo e credo che abbia diretto anche molto bene i due attori perché comunque ha una cifra molto chiara e molto specifica, coerente con sé stessa e con il testo e anche gli attori lo seguono nella sua scelta interpretativa e registica. Inoltre mi piace moltissimo la scenografia di Federico Biancalani che rende molto bene le atmosfere dello spettacolo.
Il rapporto è stato molto bello anche rispetto all’idea che ha avuto Ciro di come rendere il finale attraverso una scelta registica che considero molto poetica e molto suggestiva. Quando l’ho visto la prima volta ho pensato che fosse molto bello e che Ciro fosse stato molto bravo. Spero che lo spettacolo abbia l’occasione di girare tanto e che abbia lunga vita.
Parlando di drammaturgia, vorrei riflettere in particolare sulla tua figura di drammaturgo e sulla tua storia professionale segnata dalla vittoria nel 2013 del premio Tondelli indetto da Riccione teatro e più in generale capire i problemi attuali e le prospettive future della Drammaturgia contemporanea.
Per quanto riguarda me io sono contento di riuscire a fare l’autore teatrale, quando ho iniziato non era affatto scontato. Sicuramente il Premio Riccione è stato uno spartiacque perché mi ha dato la possibilità di farmi conoscere da più persone e anche il lavoro costante con la compagnia MaMiMò quando facevo l’accademia è stato molto importante perché mi hanno fatto lavorare prima che vincessi i premi e altri riconoscimenti e quindi è stato un modo per cominciare a fare teatro durante l’ultimo anno di Accademia, in modo tale da non essere mai in quel limbo tra formazione e lavoro.
Anche l’impegno e il sacrificio oltre alla fortuna sono fattori importanti. Quest’anno ho iniziato ad insegnare al primo anno della Paolo Grassi e la cosa che dico e che penso sia vera è che bisogna sempre impegnarsi. Io negli ultimi dieci anni non ho fatto altro se non dedicarmi al Teatro e alla scrittura. Sì, c’è la fortuna e l’occasione di vincere i premi ma anche la costanza del lavoro perché in realtà se vinci il premio sei per poco nell’occhio dell’attenzione delle persone.
Io ricorderò sempre ciò che mi ha detto Fausto Paravidino ridendo alle 23.55 duranta la serata finale della premiazione del premio Riccione: “Goditi questi cinque minuti in cui hai vinto il premio perché fra 5 minuti nessuno si ricorderà più niente delle cose che hai scritto” . In realtà Fausto è stato uno di quelli che mi ha più aiutato e supportato. Quello che mi ha detto è vero perché l’attenzione finisce dopo poco e quindi la cosa fondamentale è la costanza del lavoro. Io credo che sia importante cercare di scrivere cose belle che abbiano un’importanza per te. Io cerco di scrivere cose che abbiano importanza e valore per me e quindi se poi queste cose hanno anche un valore importante per gli altri è un bene perché l’obiettivo principale non è mai quello di fare questo lavoro a tutti i costi ma di fare cose che mi piacciono.
Se le cose che mi piacciono mi permettono di fare questo lavoro e piacciono anche agli altri bene quando questo non succederà più troverò altre strade. Non ci sono attaccato per forza con le unghie perché penso che questo attaccamento nel voler lavorare per forza porta la gente a fare delle cose brutte e penso che le cose brutte non fanno bene al teatro e a chi le fa. In questo momento i miei testi stanno cominciando ad andare all’estero e di questo sono contentissimo perché scrivo in italiano ma mi fa piacere in un certo senso essere un drammaturgo europeo legato a vari progetti che mi permettono di far girare i miei testi in tutta Europa. Spero che si possa continuare così.
Per quanto riguarda la drammaturgia, io credo che negli ultimi 10-15 anni, dopo la fine del Novecento, soprattutto in Italia, ci sia stato un abbandono della scrittura e della figura dell’autore in favore di strutture più partecipate. Forse solo il teatro inglese ha espresso autori di un certo calibro che hanno avuto un ruolo importante nella scena mondiale. In Italia c’è stato quasi un buco non tanto per la mancanza di autori bravi quanto per la mancanza di un desiderio sia delle politiche culturali sia del pubblico rispetto alla scrittura. Io credo che negli ultimi anni ci sia un interesse forte soprattutto nel pubblico e lo vedo nei miei lavori ma anche nei tanti lavori di drammaturgia contemporanea che ci sono in scena e credo che il pubblico abbia voglia e un desiderio di sentire nuove narrazioni e di sentirsi rappresentato, di vedere costruiti e ricostruiti in un teatro i conflitti, i dubbi, i problemi e le dinamiche del mondo. Anche gli organizzatori e chi produce teatro si sta rendendo conto di questa cosa e si sta adattando.
La cosa che però deve migliorare e che ogni volta dico perché per me è molto importante è da un lato il fatto che non si può continuare a mettere la drammaturgia contemporanea in rassegne a parte cioè io odio e non sopporto più e credo che sia sbagliato e offensivo continuare a mettere la drammaturgia in “altra scena” in “altre proposte off” ma deve essere allo stesso livello delle altre proposte artistiche a partire dalla grafica delle locandine, di come vengono costruiti gli abbonamenti e di come vengono pensate le stagioni dei teatri.
Perché il rischio è che il pubblico si convinca che questo sia qualcosa di altro rispetto al teatro, ed accade soprattutto in Provincia. Questo per fortuna non succede spesso nelle grandi città come Milano, Bologna o Roma in cui questa pratica è sdoganata però ci sono molti altri teatri in cui questa cosa è all’ordine del giorno. Anche nei teatri di provincia vorrei che ci fosse un classico di Shakespeare come tutti gli anni nel cartellone con accanto uno spettacolo di qualsiasi altro autore contemporaneo con la stessa dignità perché il pubblico deve avere la possibilità di essere nelle condizioni di scegliere se una cosa ha valore, non come una proposta di qualcosa che vale meno.
Sicuramente il sistema italiano è registico-centrico, quindi un autore per far mettere un testo in scena deve convincere un regista a lavorarci. In altri paesi come in Germania o in Inghilterra esistono dei comitati di lettura che scelgono testi e poi scelgono il regista giusto in base a quel testo e questo lo vedo infattibile nel breve periodo ma credo che a lungo andare questo si possa fare. In Italia gli unici comitati lettura sono quelli dei premi.
A livello produttivo mi auspico che nel prossimo futuro anche nei grossi teatri italiani ci siano comitati di lettura come nel Royal Court o nei teatri tedeschi a cui arrivano cento testi li leggono tutti e ne scelgono uno e poi decidono di creare una produzione incentrata sul testo non come in Italia dove le produzioni vengono affidate al regista e poi lo stesso regista sceglie cosa fare o magari chiede al drammaturgo di scrivere un’opera di Shakespeare o di fare un’altra cosa. Secondo me ci vorrebbero entrambe le cose perché altrimenti si rischia che molta creatività dei drammaturghi venga persa nel momento in cui non si riesce ad andare in scena. Questo farebbe bene alla nuova drammaturgia ma anche al pubblico che si troverebbe di fronte a cose nuove.
Per approfondire —> Intervista a Ciro Masella a Radio Onda Rossa
Nell’ambito di Spazio del Racconto
rassegna di drammaturgia contemporanea 2017/2018 – III edizione
Teatro Brancaccino 8 – 9 marzo 2018
IL GENERALE
di Emanuele Aldrovandi
regia Ciro Masella
con Ciro Masella, Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini
scena Federico Biancalani
luci Henry Banzi
costumi Micol J. Medda/Federico Biancalani/Ciro Masella
suoni Angelo Benedetti cura di Julia Lomuto riprese Nadia Baldi
Segnalazione speciale per la nuova drammaturgia al Premio Calindri 2010
Testo vincitore del Premio Fersen alla drammaturgia 2013
Selezionato dal Teatro Stabile del Veneto per Racconti di guerra e di pace 2015
Redattore