Trilogia Americans: intervista ad Arturo Cirillo

Trilogia Americans: intervista ad Arturo Cirillo

Arturo Cirillo, attore e regista napoletano, il 24 e il 25 novembre porta in scena al Teatro Menotti di Milano una maratona dedicata alla drammaturgia americana del secolo scorso.

TRILOGIA AMERICANS è il titolo scelto per racchiudere le tre pièce Lo zoo di vetro (1944) di Tennessee Williams, Lunga giornata verso la notte (1942) di Eugene O’ Neill e Chi ha paura di Virgina Woolf? (1962) di Edward Albee.

Per l’occasione, il regista Arturo Cirillo è stato raggiunto ed intervistato da Theatron 2.0:

Cosa ti ha spinto a lavorare sulla drammaturgia americana di metà ‘900? Qual è stata la tua curiosità iniziale e da quale pièce sei partito?

Sono partito da Lo zoo di vetro, libro che mi è stato suggerito da Milva Marigliano, in scena con me in tutta la trilogia. Volevamo fare un progetto insieme e, dopo vari tentativi piuttosto fallimentari di farmi appassionare a testi di drammaturgia contemporanea, mi consiglia Lo zoo di vetro, testo che avevo letto molti anni prima. Fino a quel momento non avevo mai immaginato nella mia vita teatrale di poter affrontare autori americani perché li ho sempre considerati legati a un teatro troppo naturalistico rispetto al quale avevo la sensazione di essere troppo distante. Però Lo zoo di vetro mi è subito parso bello e mi ha commosso. Ho affrontato la pièce rispettando un codice di tipo naturalistico da un punto di vista recitativo mentre poi la messa in scena è stata pensata a sottrazione: cito, ad esempio, il film “Dogville” disegnando la perimetria della casa per terra. Non ho voluto ricostruire uno spaccato sociale americano anche perché non ne so nulla e non ci sono mai stato. Mi viene in mente il saggio “Dall’altra parte dell’America” che Andrea Porcheddu ha curato e che tratta di questa trilogia dove dice “Cirillo è un po’ come Salgari, riesce a parlare dell’America non essendoci mai stato” quindi, se c’era una persona poco adatta ad affrontare la drammaturgia americana forse quella ero proprio io! Questo primo spettacolo è andato molto bene, lo abbiamo portato in tournée e abbiamo deciso di farne un secondo. La scelta del testo si è rivelata ancora più complicata e più lunga della prima ma alla fine abbiamo deciso di mettere in scena Chi ha paura di Virginia Woolf?. Ma non c’è due senza tre e, con Lunga giornata verso la notte, abbiamo terminato la trilogia.

Mi incuriosisce la tua formazione, nasci danzatore, poi attore e infine diventi regista.

Arrivo alla regia attraverso il corso per attore all’Accademia Silvio D’Amico di Roma: ho fatto per dieci anni l’attore e poi sono approdato alla regia con canali narrativi. Sì, in effetti ho avuto un percorso curioso, ho cominciato con la danza perché avevo la scoliosi e mi ero stancato di fare piscina ortopedica. All’epoca una mia amica seguiva un corso di danza classica russa e mi sono iscritto anch’io. Non ho mai pensato di fare seriamente la carriera del ballerino, però il fatto di avere calcato i palcoscenici danzando mi ha certamente aiutato.

Tutti e tre gli spettacoli sono già andati in scena e hanno affrontato la tournée. Come ha reagito il pubblico italiano rispetto a una drammaturgia che oggi non è più molto conosciuta?

Sì, è vero, non sono autori così conosciuti e rappresentati oggi in Italia ma hanno avuto un enorme successo intorno agli anni ’50, ’60, basti pensare che Lo zoo di vetro nel 1946 fu messo in scena da Luchino Visconti, poi sono andati un po’ nel dimenticatoio. Il pubblico ha reagito in maniera molto differente rispetto ai tre spettacoli. Per Lo zoo di vetro tutti si aspettavano un testo fortemente datato e, invece, si sono trovati davanti a qualcosa per niente americano e sono rimasti tutti molto commossi da questa storia dalle tematiche universali. Tutta la trilogia, in fondo, è un guardare all’America attraverso una distanza e non una vicinanza, attraverso un tradimento e non una fedeltà. Chi ha paura di Virginia Woolff? è un testo molto diverso rispetto agli altri due, è stato scritto 30 anni dopo e studiato dagli psicoanalisti per i temi che tratta. La chiave vincente per questo spettacolo è stata di averlo reso estremamente cattivo, caustico, sarcastico e, soprattutto, di averlo contaminato con la colonna sonora del film “Birdman” di Inarritu che lo ha reso rock contemporaneo. Lunga giornata verso la notte è, infine, il più tosto dei tre testi. Con questo testo io stesso ho avuto un rapporto meno conflittuale quindi sono stato portato a rimanere più fedele al testo originale. È strano come sia stato magnificamente accolto nel centro sud e come, invece, molto meno nel nord dove l’hanno trovato troppo datato. Al centro sud, non so se per un motivo sociologico o per un maggior coinvolgimento per le tematiche familiari, è piaciuto enormemente. È dei tre lo spettacolo che più divide il pubblico.

Il tema che lega i tre spettacoli è sicuramente quello della famiglia non vista però in chiave rassicurante ma come una famiglia che si sgretola, che vive nel ricordo del passato, cinica e, a volte ,disperata. C’è spazio per la salvezza o per un futuro positivo?

Secondo me dei tre testi quello che paradossalmente ha più una visione di salvezza è Chi ha paura di Virginia Woolf? Anche se è piuttosto caustico e dominato da persone incattivite e arrabbiate col mondo, è un testo che alla fine sorprende perché ha un finale – o, per lo meno, per come lo abbiamo affrontato noi – che lascia spiragli positivi: i due protagonisti, nel momento in cui ammettono e riconoscono di avere inventato una storia fasulla, si ritrovano, davanti ad un’alba alcolica, solidali e accettano di vivere l’uno con l’altra. È una coppia che prende atto della situazione in cui si trova e questo porta il testo a un finale molto struggente. Le altre due pièce sono molto meno positive o salvifiche perché Lo zoo di vetro descrive una fuga del protagonista che scappa da se stesso e dal suo passato che però continuerà a tormentarlo. Lunga giornata verso la notte è, invece, dei tre quello in cui la famosa catarsi aristotelica proprio non avviene: lo spettacolo finisce e si ha la sensazione che tutto riprenda come prima, anzi, sembra che la situazione possa addirittura peggiorare.

L’ultima domanda riguarda il senso del tempo all’interno dei tre spettacoli. Nella trilogia sono anche protagoniste la malinconia, la nostalgia, sentimenti quindi molto legati al passato, ai ricordi e dunque al tempo. In che modo sfrutti o non sfrutti il fattore tempo?

Lo zoo di vetro è decisamente tra i tre lo spettacolo che ha un rapporto più forte col tempo. Il monologo finale del narratore Tom dice “Il tempo è la distanza più grande tra due luoghi” oppure, parlando rispetto al fatto che il padre era scappato di casa dice “Ho cercato di trovare le orme di mio padre, trovare nel cammino quello che nello spazio era perduto”. Anche nelle battute della madre è presente, ad esempio dice “il presente rischia di diventare un eterno rimpianto”. Con gli attori sono partito dicendo loro che il tempo è la nostalgia e il ricordo. Lo zoo di vetro ha un tempo stranissimo, viene tutto ricordato. Per la messa in scena mi sono ispirato a un film di Louis Malle “Vanya sulla 42esima strada”, in cui alcuni attori stanno provando delle parti e finiscono per interpretare i personaggi di Zio Vanya, rimanendo sempre attori. Così per Lo zoo di vetro: gli attori in scena si ricordano sempre di essere attori, non escono mai in quinta e compiono una serie di processi anti-immaginifici. Ho cercato di fare lo stesso anche con gli altri due spettacoli, partendo sempre da un conflitto, uno scontro, una contraddizione tra il tempo della rappresentazione e il tempo di cui si parla e, in questo senso, posso parlare di approccio meta-teatrale. Tutte e tre sono pièce che hanno a che fare col passato che non si riesce a dimenticare e che determina tantissimo il presente e anche il futuro ma sono anche tre spettacoli i cui personaggi non dimenticano di essere anche attori mentre sono in scena.

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