Sono trascorsi 55 anni dal 1 ottobre 1964 quando Eugenio Barba fondò l’Odin Teatret riunendo intorno a sé, nella città norvegese di Oslo, un gruppo di attori, di diverse nazionalità, non ammessi alla Scuola di Teatro di Stato. Pur tenendosi sempre ai margini dei circuiti ufficiali, l’Odin Teatret ha saputo aprire una breccia di attivismo e di interculturalità nel teatro del Secondo Novecento, assumendo come fulcro della creazione artistica l’incontro con l’altro e l’impegno sociale.
Nel mese di febbraio, Roma ha voluto celebrare la cinquantennale attività del gruppo, organizzando conferenze, masterclass, workshop, mostre, spettacoli e dimostrazioni di lavoro, distribuiti in alcuni centri culturali della città. Avvalendosi dell’accoglienza riservata loro da Teatro Vascello, Teatro Valle, Teatro Argot, Abraxa Teatro, Palazzo delle Esposizioni e Università La Sapienza, l’Odin ha accompagnato il pubblico romano alla scoperta del proprio universo umano e artistico.
L’instancabile ricerca artistica e antropologica, coadiuvata da pubblicazioni teoriche sull’arte d’attore, fanno dell’Odin Teatret un baluardo di vocazione teatrale. 55 anni di viaggi e migrazioni, volti a raccogliere il siero della cultura spettacolare mondiale. Stormi teatrali dopo un lungo vagare tra Oriente e Occidente, sono giunti al Teatro Vascello, riuscendo a resuscitare l’Albero avvizzito dall’umana barbarie.
L’Albero: torneranno gli uccelli
Sgozzare: è quel che fa l’Odin Teatret nello scrigno arancione in cui accoglie gli spettatori. Un tumultuoso rovesciamento del quotidiano, a narrare impavido l’orrore della guerra. L’albero avvizzito è uno scheletro che sorregge il peso doloroso di bambini-soldato addestrati a uccidere per gioco, finiti ammazzati, sgozzati, riconsegnati senza volto alle mani delle proprie madri. Morto ma vigoroso, con le radici ancora affondate nell’arido terreno della speranza. È un albero della vita imbevuto di morte, quel tronco dai mobili rami che gli attori assemblano e spezzano in scena, su cui si arrampicano e si rifugiano. Tra le fronde, Thanatos e Bios, impiccagioni e frutti polposi a fronteggiarsi in attesa che tornino a cantare gli uccelli.
Lo spazio scenico del Teatro Vascello, che nel febbraio scorso ha ospitato lo spettacolo, è completamente sovvertito: il racconto si snoda in un piccolo ambiente costruito dietro il palcoscenico, in cui un ristretto gruppo di spettatori è invitato a prender posto su due tribune contrapposte. Gli spalti, sono costituiti da un lungo tubo grigio che emette vibrazioni e suoni, amplificando il coinvolgimento sensoriale di coloro che, abbattuta la disposizione classica da teatro all’italiana, abitano lo spazio prendendo parte a un evento. La prossemica, punto di forza degli spettacoli dell’Odin, fa sì che gli attori taglino la testa anche al pubblico, testimone inerme, aiutato a indossare collettivamente un telo bianco bucato che ne camuffa i corpi e ne trasforma il capo in trofei venatori da museo.
Al centro, come contenuto da due sponde sabbiose, lo sgorgare dell’interculturalità targata Odin Teatret, in cui attori di provenienze diverse, ricamano il tessuto sonoro e drammaturgico dello spettacolo, ciascuno con il filo dorato della propria tradizione. Le donne della compagnia, Iben Nagel Rasmussen, Elena Floris, Parvathy Baul, Carolina Pizarro e Roberta Carreri, accendono, in un continuo gioco di rifrazioni autobiografiche e numeri musicali multietnici, il lume della crudeltà delle cronache di guerra.
L’albero, Odin Teatret
Julia Varley e Donald Kitt sono una coppia di dolci monaci che nel deserto siriano piantano un albero dai rami secchi, nella speranza che accolga la nidiata degli uccelli, messi in fuga da bombe e proiettili. Occidente e Oriente mostrano la stessa spietatezza quando a impersonare il conflitto sono due efferati signori della guerra: Kai Bredholt, soldato europeo dagli occhi vitrei che con fisarmonica e tromba, glorifica la sua forza distruttiva e I Wayan Bawa, attore balinese, che fa della danza tradizionale del suo Paese la penna con cui disegnare i tratti di un Ares nero.
Torneranno gli uccelli ma non i bambini uccisi dal conflitto, amara e responsabilizzante consapevolezza che chiude uno spettacolo di forte impatto emotivo ma claudicante per chi dall’Odin si aspetta l’energica prestazione di sempreverdi performers, impegnati in un perpetuo tourbillon antropologico.
L’antropologia teatrale di Eugenio Barba
L’intervento attorale di I Wayan Bawa nello spettacolo L’Albero è, tra tutti, il più emblematico rispetto a quel “cielo comune” in cui fluttuano i diversi saperi artistici dei componenti della compagnia: la danza balinese, nell’espressione performativa della maschera del Re Gambuh, è qui messa al servizio di un racconto della guerra che passa attraverso gli occhi occidentali del regista, Eugenio Barba, e che viene proposto a un pubblico occidentale anch’esso.
Come può, dunque, lo spettatore cogliere il significato di un certo modo di muovere i piedi o di inarcare la schiena tipico di una tradizione artistica a lui sconosciuta, senza che la decontestualizzazione ne depauperi la portata drammatica? L’antropologia teatrale, disciplina fondata da Eugenio Barba negli anni Settanta, parte dalla volontà di risolvere tale quesito e di indagare il comportamento socio-culturale e fisiologico dell’uomo in situazione di rappresentazione.
Da odinteatret.dk – ph. Fiora Bemporad
A tal proposito, nel corso di una conferenza organizzata presso Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la partecipazione di Franco Ruffini, Julia Varley e Nicola Savarese, Eugenio Barba racconta:
Come fa un attore ad affascinare? Fino al 1963, ho visto attori, in Polonia, che mi affascinavano. Quando nello stesso anno ho assistito a uno spettacolo di Kathakali, fu qualcosa di sconvolgente e mi chiesi perché non mi fossi interessato alle convenzioni del teatro indiano ma, soprattutto, mi domandai perché questi attori riuscissero ad appassionarmi. È talento ciò che mi affascina? Questa domanda mi ha seguito fino al mio trasferimento a Bonn, dove ho iniziato a studiare i costumi, la musica, gli attori, tutti quegli orpelli che mi hanno permesso di vedere il bios, la vita, che sembra muscolare anche se, in realtà, il corpo è quella parte dell’anima che i cinque sensi percepiscono.
Principi-che-ritornano, è questo il modo in cui Barba definisce quei principi archetipi che sono rintracciabili nel lavoro di attori e danzatori appartenenti a epoche e culture differenti: le tecniche extra-quotidiane del corpo, usate in situazione di rappresentazione, tendono all’informazione. Queste tecniche, basate sull’energia e su una cosciente alterazione dell’equilibrio, sono riscontrabili a livello globale, sia nei teatri orientali sia in quelli occidentali.
La convivenza di saperi artistici tradizionali, cifra stilistica delle attività spettacolari dell’Odin Teatret, produce un importante potenziamento delle possibilità comunicative dell’evento scenico. Partendo da questo assunto, risulta chiaro come la danza balinese di I Wayan Bawa riesca a veicolare l’attenzione e la comprensione anche di quello spettatore che si trova affascinato da qualcosa che non conosce ma che, nella cornice dello spettacolo, riesce a riconoscere.
Questo riconoscimento, derivante dalla capacità dell’attore di creare una relazione con chi lo osserva, è frutto di quel processo di canalizzazione dell’energia che Eugenio Barba chiama pre-espressività.
Pre-espressività: il livello base di organizzazione dell’actor’s performance
Il pre-espressivo è quel livello base della comunicazione artistica, capace di stabilire la connessione tra chi agisce e chi osserva. Si tratta di una “fisiologia transculturale”: prescindendo dalla tradizione culturale, la pre-espressività organizza l’energia dell’attore-danzatore in modo che diventi scenicamente viva e che catturi l’attenzione dello spettatore.
L’artigianato dell’attore, dunque, è la capacità di trasporre qualsiasi stimolo, proveniente da un testo, dallo spazio, dalla musica, da un quadro, da un ricordo e dargli una consistenza oggettiva che un osservatore può percepire. C’è tutto un flusso di moderazione energetica che può essere utilizzato.
Il training dell’attore non è un allenamento del corpo ma è un allenamento alla giusta predisposizione alla creatività. Tutto il lavoro dell’attore tende a farlo liberare dal riflesso pragmatico, diventato una seconda natura, influenzato dalla famiglia, dalla cultura, dalla scuola. Separarsi dalla spontaneità e dai riflessi condizionati significa poter raggiungere la capacità di ritrovarsi inermi di fronte a una situazione.
In questo modo ogni passo, porta l’attore a scoprirsi ogni giorno e a presentare allo spettatore qualcosa di noto, attraverso una trasfigurazione estetica, tecnica che presuppone una capacità di manipolare l’energia che è fisica, mentale, vocale. L’attore lavora con sé stesso per trasformare il suo spazio interiore in segni estetici.
Con grande generosità, questo lavoro di ricerca e composizione è stato mostrato da Julia Varley e I Wayan Bawa, in una serie di matinée ospitati presso il Teatro Vascello di Roma, a svelare i segreti della creazione Odin.
L’Odin Teatret al Teatro Vascello di Roma: Il tappeto volante e L’attore totale
Un refuso teorico vuole l’operato spettacolare dell’Odin Teatret scevro dall’apporto drammaturgico del testo, basato com’è sull’esperienza empirica di intrecci culturali e sull’incontro, di matrice antropologica e artistica, con l’altro.
In realtà, come Julia Varley ha voluto dimostrare, l’Odin lavora anche a partire dal testo, trattandolo al pari di tutti gli altri elementi costitutivi del corpo di uno spettacolo. Ad alcuni curiosi e appassionati, la storica attrice della compagnia danese ha svelato il rapporto dell’Odin con il testo, per mezzo di una dimostrazione di lavoro intitolata Il tappeto volante.
“Il testo è un tappeto che deve volare lontano”. E non necessariamente nella sua interezza e linearità. La Varley suddivide in due fasi la dimostrazione: una in cui modula l’enunciazione del testo secondo diversi principi (ritmo, illustrazione, azioni, musica, lingua); l’altra in cui recita degli estratti di tutti i testi utilizzati negli spettacoli dell’Odin Teatret dal 1976 ad oggi. Da Brecht a Kafka, il ricco apporto testuale dell’Odin è un trampolino per la creazione di immagini e contenuti, su base improvvisativa, che prendono forma nelle messe in scena attraverso il corpo e la voce degli attori del gruppo.
Allo stesso modo, I Wayan Bawa, ne L’Attore Totale, rivela i principi tecnico-estetici della danza balinese – arte di tradizione familiare, tramandata di padre in figlio – per mostrare l’innesto delle tecniche compositive orientali sulle creazioni dell’Odin Teatret. A rapire lo sguardo, la sapienza artigiana delle maschere e dei costumi tradizionali indossati dal danzatore nel corso della dimostrazione.
La danza balinese si basa su tre elementi fondamentali: la postura del corpo, ovvero il modo in cui il danzatore compone il proprio corpo in virtù della danza; il ritmo della danza, rapporto tra musica e movimento; il sentimento, la connessione tra corpo e bellezza interiore.
I Wayan Bawa, Odin Teatret
Movimento degli occhi, modulazione della voce e distribuzione del peso corporeo su aree specifiche, caratterizzano la vasta schiera di personaggi maschili e femminili che popolano le danze balinesi. La cifra estetica ed etno-antropologica apportata da I Wanan Bawa al lavoro dell’Odin è un valido esempio della transculturalità di cui il gruppo si alimenta per dare vita alla creazione.
Lo spazio interiore dell’attore
Ma dove avviene la creazione, qual è il suo luogo deputato? Se è vero che l’Odin Teatret è un gruppo che ha incontrato gli spettatori in ogni parte del mondo, dentro e fuori dai teatri, recitando per le strade, in terre sconosciute popolate da piccole tribù, nei centri occupati, in edifici abbandonati, il luogo della creazione non può che essere un non-luogo trasportabile in ogni dove.
Si tratta dello spazio interiore dell’attore, quello spazio di cui Eugenio Barba palesa i confini, dando avvio alla conferenza-spettacolo Modificare il Sahara tenutasi presso il Teatro Valle, con il contributo di Julia Varley.
Lo spazio ha degli occhi e ci obbliga a confessare. La nostra confessione personale è un vomito, un conato malgrado noi e la nostra volontà. Io entro qui, al Teatro Valle, e immediatamente il vomito procurato dallo sguardo sommerge la mia consapevolezza. Questo spazio non è innocente, è qualcosa che domina queste mie reazioni personali e la domanda è: da dove vengono queste reazioni personali? Perché queste reazioni oscurano la percezione del luogo in cui mi trovo, con occhi e sensi nuovi?
Siamo dominati dal nostro spazio interiore che è invisibile e dal quale parte il processo creativo di qualsiasi artista. Qual è il vero processo creativo? Come traghettare quel che avviene dentro di noi sulla scena? Possiamo farlo solo se siamo noi i poeti. E per l’attore da dove proviene questo primo segno concreto che parte dal suo spazio interiore, che lui domina e che lo domina? Il passaggio è traghettare dallo spazio interiore allo spazio esteriore un luogo condiviso che noi conosciamo e che attraverso l’agire dell’attore trasformiamo.
È questa la summa del pensiero di Eugenio Barba sull’arte d’attore: che l’attore sia un Caronte capace di trasportare lo spettatore da una riva all’altra dell’interiorità, perché questo sia capace di abitare il mondo e di osservare la vita attraverso la lente immaginifica dell’arte.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
In scena al Teatro Vascello dal 18 al 27 Gennaio Who is the king da William Shakespeare – la serie (episodi 1 e 2), drammaturgia e regia di Lino Musella e Paolo Mazzarelli e con in scena Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella.
Truci, malvagi, assetati di potere, eroici, vittoriosi o inadeguati. Tutti i re shakespeariani, persino il glorioso Enrico V, non mancano di mostrare, nei loro comportamenti, ambiguità che svelano le complicate, eterne ed oscure trame del potere.
Who is the King. Da William Shakespeare – la serie è uno straordinario affresco storico e poetico dell’Inghilterra a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Una saga di sconvolgente potenza e inquietante attualità; otto drammi shakespeariani (Riccardo II, Enrico IV parte I e II, Enrico V, Enrico VI parte I, II, III e Riccardo III) trasformati in quattro grandi episodi che racchiudono oltre un secolo di storia.
Il percorso sapientemente costruito da Lino Musella e Paolo Mazzarelli parte dal crollo mistico di Riccardo II, per arrivare alle vette eroiche di Enrico V e poi precipitare giù fino all’inferno di Riccardo III. Il teatro incontra la serialità televisiva dando il via a un grande viaggio che affonda le sue radici nella drammaturgia shakespeariana, la riscrive e la trasforma in un appassionante racconto ad episodi.
Ogni personaggio attraversa le diverse fasi della vita: è giovane, poi uomo e infine anziano che va incontro alla morte e lascia il campo ad un altro protagonista, un nuovo re. Si susseguono eventi efferati e confusi su cui non veglia nessun confortante sguardo dall’alto e in cui le migliori qualità umane trionfano o soccombono al fascino oscuro del potere. Gli episodi 1 e 2, che coprono gli eventi narrati in Riccardo II ed Enrico IV parte prima, sono l’inizio di questo grande viaggio.
PROMOZIONE PER I LETTORI THEATRON 2.0
Biglietto ridotto a 10€ anziché 23€ per i lettori Theatron 2.0 La promozione é valida dal 18 al 27 gennaio
Per prenotare i biglietti invia una mail a promozioneteatrovascello@gmail.com con oggetto WHO IS THE KING – Promo Theatron 2.0 indicando il tuo nominativo e il giorno in cui vedere lo spettacolo, oppure chiama direttamente al 065898031 – 065881021
WHO IS THE KING da William Shakespeare, la serie
Episodi 1 e 2 da Riccardo II-Enrico IV parte prima, di W. Shakespeare drammaturgia e regia Lino Musella, Paolo Mazzarelli con Massimo Foschi, Marco Foschi, Annibale Pavone, Valerio Santoro, Gennaro Di Biase, Alberto Paradossi, Laura Graziosi, Giulia Salvarani, Paolo Mazzarelli, Lino Musella luci Pietro Sperduti scene Paola Castrignanò musiche Luca Canciello costumi Marta Genovese
una produzione Teatro Franco Parenti – La Pirandelliana – Marche Teatro
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Marco Isidori (Lear), Batty La Val (Matto), Eduardo Botto (Kent) – Photocredits: Giorgio Sottile
Al Teatro Vascello di Roma martedì 11 Dicembre alle ore 21.00 debutta lo spettacolo Lear, schiavo d’amore, una riscrittura di Marco Isidori dal Re Lear di William Shakespeare – una coproduzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Fondazione del Teatro Stabile di Torino, con il sostegno della Città di Torino. Lo spettacolo resterà in scena fino al 16 Dicembre.
Amore è la richiesta generale della specie alla specie; anzi azzardosi supponiamo che alla sentimentalità vada la tensione precipua della materia universa (fisica docet). Quindi: “Lear schiavo d’amore”, perché siamo/stiamo tutti proni davanti agli allettamenti del cuore, i quali sempre cerchiamo di fiutare a cannella; indiscutibilmente. Ciò è pacifico e ciò giustifica in pieno anche il titolo deliberatamente fotoromantico di quest’ultimo spettacolo dei Marcido. La poesia di Shakespeare, questo è palese, gode di un’estrema permeabilità, il suo bilanciatissimo gioco linguistico permette che la si possa agevolmente abitare senza temere catastrofi semantiche; c’è nella sua trama un invito alla “ricreazione” assai difficile da eludere; ed infatti non ci si è potuti semplicemente limitare ad una “traduzione” del Lear, l’abbiamo “dovuto” bensì riscrivere in rapporto obbligato, direi quasi sotto dettatura della mano dispotica che la nostra idea di Teatro impone alle variabili iconiche e drammaturgiche che andranno a comporre la realtà ultima della messa in scena.
Marco Isidori (Lear) – Photocredits: Giorgio Sottile
Re Lear dei Marcido: Shakespeare oggi, Shakespeare ancora e sempre “in love!” (dalle note di regia)
Grande metafora scenica degli inciampi ineludibili della vecchiezza umana, grande storia familiare, grande Teatro delle limitazioni intrinseche relative comunque alla sordità naturale della nostra condizione di viventi; tutto ciò è la tragedia del Lear. “Lear, schiavo d’amore” respira all’interno di una spazialità scenografica assai particolare, le cui contraddittorie caratteristiche strutturali (potremmo descriverne l’immagine come quella di un Sottomarino/Volante) sono esaltate e potenziate da un impegno drammaturgico che ha saputo privilegiare soprattutto la dimensione epica del racconto del Bardo. Le situazioni dello sviluppo storico vengono accompagnate in sequenza, sottolineandole e contrappuntandone le fasi climatiche, da una serie di trasformazioni di tutto il panorama scenografico, stupefacenti per effetto visivo, ma, quel che più conta, per l’estrema aderenza della loro misura iconica alle intenzioni/intuizioni generali della regia. Oggi, scegliere Shakespeare in qualità di autore, eleggerlo a depositario nonché garante di una sensibilità che contenga e rappresenti il nostro presente, significa saperne restituire l’infinita complessità dei nodi tragici (non dimenticando, però, i supremi mo-menti del grottesco), con la semplicità lineare propria di un processo di “sottrazione”, la quale, sfrondando anche spietatamente i rami pleonastici del plot, possa restituire allo spettatore moderno, quel ritmo essenziale, fisiologicamente/magicamente affine al lavorìo cardiaco, quella musicalità interna alla misura del verso shakespeariano, bagaglio indispensabile perché la messa in scena di uno dei capolavori indiscussi del poeta inglese, abbia adesso, per noi, oggi, un valido motivo per inverarsi quale compiuto e necessario fatto teatrale. I Marcido tengono molto a conferire alle imprese spettacolari che li hanno appassiona-ti, non soltanto un forte marchio di bellezza figurale, ma durante i loro trent’anni di attività professionale, hanno potuto constatare come nessuna verticalità estetica da sola, possa giustificare in toto l’azione drammatica contemporanea; occorre prevedere, immettendolo nel piano di qualsivoglia tentativo di rappresentazione, il dispiegamento calcolato, determinato, quasi programmatico, di una precisa istanza etica: nel corso dell’imbastitura della pièce, seguendo uno dei precetti brechtiani a noi più cari, siamo stati trascinati, guidati dalla potente eloquenza del dettato poetico che avevamo tra le mani, verso un compimento del lavoro scenico, che proprio nella risposta a domande sulla necessità urgente di una “nuova alleanza” (ci sentiamo di definir tale ciò che per Brecht era l’empito rivoluzionario) tra i soggetti umani, ha trovato la sua miglior cadenza/sapienza teatrale; d’altro non eravamo alla ricerca.
TEATRO VASCELLO dal 11 al 16 dicembre (ore 21.00, domenica ore 18.00)
LEAR, SCHIAVO D’AMORE
una riscrittura di Marco Isidori dal Re Lear di William Shakespeare
CON MARIA LUISA ABATE – GONERILLA, GLOUCESTER PAOLO ORICCO – EDMONDO, EDGARDO/TOM BATTY LA VAL – REGANA, MATTO FRANCESCA ROLLI – CORDELIA VITTORIO BERGER – ALBANY/CORNOVAGLIA EDUARDO BOTTO – KENT NEVENA VUJIC’ – JOLLY L’ISI – LEAR
ASSISTENTE ALLA REGIA: MARZIA SCARTEDDU TECNICHE: SABINA ABATE, FABIO BONFANTI, LORIS SPANU LUCI: FRANCESCO DELL’ELBA, SCENE E COSTUMI: DANIELA DAL CIN REGIA: MARCO ISIDORI
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Collapse è uno show che mette insieme danza e circo e che si muove partendo dalla storia e dalle relazioni di un gruppo di artisti: Francesco Sgrò, Pino Basile, Luca Carbone, Leonardo Cristiani, Enrico Seghedoni. Ha la funzione e il potere magico di uno specchio che riflette le immagini di chiunque voglia prendere contatto con le proprie forme, scrutando i colori e le dimensioni riprodotte sulla sua lucida superficie. È anche una scatola che si apre capovolgendosi, lasciando uscire dal suo interno tante palline bianche. Collapse è la dimensione del crollo, il collasso, la fine che non necessariamente corrisponde a qualcosa di negativo in virtù del principio fisico dell’energia ovvero che nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.
E l’energia muove ogni cosa, dalla danza al pensiero, ogni cosa è movimento, arriva e finisce mentre si manifesta. Promosso e prodotto da Spellbound Contemporary Ballet, in collaborazione con Fabbrica C, con la direzione di Francesco Sgrò. Abbiamo incontrato il coreografo per un’intervista al Teatro Vascello di Roma al termine dello spettacolo mentre i tecnici smontavano l’allestimento scenografico e qualcuno commentava il disturbo fastidioso di alcuni bambini incontenibili presenti nel pubblico. Nonostante l’evidente stanchezza e sofferenza fisica, il suo è un racconto paziente e introspettivo che è andato avanti stoicamente, quasi come se il tempo si fosse fermato, in sospensione nell’aria al chiuso del teatro.
Come nasce e si sviluppa la drammaturgia di Collapse?
La drammaturgia di Collapse è una drammaturgia fisica. Il principio da cui siamo partiti è quello di usare gli esseri umani per dar vita a degli oggetti di qualsiasi tipo. Dopodiché abbiamo cominciato a inserire gli oggetti e una serie di conseguenze derivanti dal loro utilizzo hanno condotto alla fine dello spettacolo con la sua evoluzione. Siamo partiti ponendoci in relazione con questi oggetti sferici morbidi, le palline bianche che ci accompagnano durante tutta la performance e abbiamo cercato di dare loro un senso e un valore che fosse qualcosa di diverso dal semplice gioco. Da questo arriva la composizione di disegni sul pavimento, generalmente molto difficile da far vedere al pubblico, ma non al teatro Vascello di Roma dove si è visto invece molto bene. Dall’utilizzo degli oggetti in modo non scontato è arrivato il resto.
Lo spettacolo incontra la danza e il circo e cerca di metterne in evidenza le loro caratteristiche. In alcuni momenti si può vedere uno spettacolo che lavora su un registro fisico di movimento, in altri uno spettacolo dove, a tratti, entra anche l’intrattenimento. Mi interessava mantenere le due facce di queste due arti che sono molto distinte, seppur in alcuni tratti collimano e la drammaturgia dello spettacolo nasce proprio da questo. Ci siamo fatti trasportare, abbiamo messo tanti oggetti e abbiamo iniziato a manipolarli. Da qui abbiamo avuto l’intuizione di usare le luci muovendole verso il basso e verso l’alto, in orizzontale. La ricerca che abbiamo fatto è stata quella di mostrare come gli oggetti possano utilizzare gli esseri umani per fare determinate cose, il contrario di quello che succede nella vita dove siamo noi che utilizziamo gli oggetti. Non c’è una storia vera e propria, non c’è la storia di un personaggio è la storia di persone che si incontrano e di un pubblico che vede dal buco della serratura per gran parte dello spettacolo e poi si ritrova in mezzo a questa pioggia di oggetti.
Sempre con riferimento alla drammaturgia, nel momento viene usato un testo strutturato, un breve racconto, all’interno dello spettacolo, la pallina bianca, in bocca al performer ne interrompe la comprensione. Le parole inizialmente chiare e comprensibili sono diventate suoni indistinti è indecifrabili. Questo fa parte di una sorta di processo creazione/distruzione?
Collapse arriva proprio da questo: l’utilizzo degli oggetti che arriva sempre a una fine. Nella ricerca che abbiamo effettuato, arrivava il momento in cui tutti gli oggetti andavano fuori controllo. La parola Collapse, viene utilizzata non tanto per quello che viene detto realmente. La voce c’è ed è un linguaggio come tutti gli altri, come la danza e il circo e non sempre racconta una storia definita, non so se ogni persona del pubblico ricorderà esattamente tutto quello che abbiamo messo in scena. Viene utilizzata quindi come mezzo, a volte come suono, a volte come accompagnamento di un numero. Questa scelta l’abbiamo fatta provandola, perché ci è piaciuto molto utilizzare la voce, insieme anche a un sottofondo musicale, per accompagnare un numero che normalmente è sempre accompagnato soltanto da una musica molto intensa se vogliamo. Ci piace utilizzare la voce proprio perché non è la classica voce che ti vuole raccontare una storia ed è così che si arriva ad un punto in cui è di nuovo l’oggetto che fa scomparire questa voce che diventa semplicemente un suono che continua ad accompagnare quel numero.
In Collapse sembra che venga riportato sul palcoscenico e nell’edificio teatrale il linguaggio della strada, l’entertainment di cui parlavi prima, l’intrattenimento negli spazi aperti, la giocoleria, il mimo…Quanto la strada ha influenzato questo e il tuo lavoro in genere?
Il circo ha delle caratteristiche molto precise,: richiama verso di sé il pubblico come gli artisti di strada che a loro volta derivano un po’ dal mondo circense. Quest’ultimo è sempre stato diviso tra i tendoni e la strada, le sfilate. Nel nostro spettacolo è molto presente questa forma di esibizione quasi da strada perché è una delle caratteristiche di quello che facciamo e che a sua volta è una delle caratteristiche del circo contemporaneo. Ma anche lì non c’è lo stesso identico utilizzo, abbiamo cercato di trasformarlo, di uscire, di coinvolgere e di andare verso il pubblico.
Si ritrova quell’energia tipica degli spettacoli di mezz’ora di intrattenimento, ma cercando di portare il pubblico all’interno di un’altra cosa più sensibile. Enrico è il portavoce di questo, appartiene a questo spettacolo principalmente perché lui lavora molto sul palco e lavora a contatto con il pubblico. Mi piacciono gli spettacoli che si allungano sulla platea e che dopo, ritornano da dove sono partiti. Sembra un modo anche per condividere quell’energia con il pubblico. Tutti abbiamo lavorato in strada. È inevitabile andare verso gli spettatori ed è tutto molto scritto, non c’è spazio per l’improvvisazione con una partitura rigida ma che riesce ad aprire sul pubblico e a trovare questi piccoli momenti.
Francesco Isgrò – Collapse
Emerge dallo spettacolo anche l’elemento della fantasia, penso ai fuochi d’artificio ricreati con le palline bianche. Gli oggetti in scena vengono utilizzati per descrivere ricordi, immagini e sensazioni. Quali sono le tue riflessioni sulla fantasia e, insieme, sul gioco?
La fantasia è una di quelle cose che, nel momento in cui la chiami, non esiste più. È veramente uno stato mentale in cui puoi essere trasportato da qualcosa come uno spettacolo. Può essere ricreata da soli in qualche modo, c’è chi lo fa con la musica, chi con un libro, ci sono tanti modi. La fantasia è la base di quello che c’è dentro questo contenitore che è Collapse. Fantasia nel trovare qualcosa che è semplice, piccolo e cercare di vedere tutte le varie possibilità che si trovano intorno. La fantasia penso che sia un muscolo che va allenato. È un allenamento a stare nel magico e nel nostro spettacolo cerchiamo di portare tutte le persone dentro.
Cerchiamo di far vedere delle cose che non si riesce immediatamente a riconoscere perché non c’è un linguaggio tradizionale, ma dopo un po’, stando nel luogo magico di Collapse, si riescono a seguire in qualche modo. Questo sviluppa per forza la fantasia perché non avendo appigli essa deve muoversi per andare a trovare dei collegamenti. Mi piace sviluppare questo in ogni persona. Non è uno spettacolo che spiega una singola e determinata storia, anzi chissà quante ne sono venute fuori questa sera da ogni persona presente in sala, ce ne saranno state tante per ognuno di loro.
La dimensione ludica è servita anche per descrivere le emozioni presente con il simbolo delle emoticons disegnate sui sacchetti di carta?
L’elemento ludico è fondamentale. Tutto quello che facciamo è gioco. Le emozioni arrivano all’interno dello spettacolo e cerchiamo di raccontarle senza essere scontati; per andare all’eccesso di questa cosa ad un certo punto cerchiamo di raccontarle essendo scontati come non mai, mediante qualcosa riconoscibile da tutti. Oggi le nostre emozioni sono diventate le emoticons. Leonardo mi ha proposto di usare le emoticons ed è incredibile notare come la gente possa riconoscerle immediatamente e divertirsi. In realtà le emozioni nello spettacolo derivano da tutta un’altra cosa. L’omino di cartone, che fa ridere tanto, per me è un personaggio triste, è un personaggio leggermente velato di nostalgia. È anche un po’ l’appiattirsi della persona che si copre di qualcosa che è altro da sé.
Noi l’abbiamo messo in tono scherzoso perché lui fa il giocoliere con le palline e anche lì abbiamo voluto creare un contrasto. Lui vuole le palline, ne vuole tante perché, metaforicamente, sembra essere più bravo chi ne ha tante e tutti noi siamo un po’ stufi di questo. Ho provato a giocare anche con questo simbolo di felicità e quindi le emozioni sono contrastanti, il pubblico si diverte ma per noi quello in realtà è il momento topico ed emblematico dello spettacolo. Mi piace molto che alcuni capiscono e altri semplicemente si divertono perché in fondo facciamo tante cose buffe, mi piace che l’emozione non sia una e una soltanto. Mi piace che il bambino ride e l’adulto sta fermo a guardarlo, rimanendo toccato da questa figura. Ci sono tante emozioni anche perché ci sono rapporti di amicizia che si sviluppano da anni e con loro lavoro da tanti anni.
Francesco Isgrò
C’è anche un passaggio dedicato al misticismo che emerge, rappresentato dal simbolo del dubbio, il punto interrogativo. La tua è una ricerca, un’interpretazione, entrambe le cose o lasci al pubblico il compito di trovare qualcosa guardandosi dentro, come in uno specchio? Che rapporto hai con il misticismo o con il cosiddetto senso della vita?
Il misticismo arriva perché era necessario che ci fosse all’interno dello spettacolo, non gli attribuiamo un valore così profondo. A quel punto dello spettacolo è anche un po’ una resa nel cercare di trovare un significato univoco alla situazione. Con il pezzo che ha fatto Leonardo ci siamo resi conto che era assolutamente necessario all’interno di Collapse qualcosa che non avesse un chiaro significato, qualcosa che portasse verso qualcos’altro di più grande: è quasi una danza arcaica, un rapporto molto sensibile con gli oggetti ma profondamente fisico e spirituale. Mi sembra che questo spettacolo ne avesse bisogno perché, essendo molto fisico, abbiamo voluto che volasse più alto, verso qualcosa di non definito che arriva poco prima del finale proprio perché per noi non c’è una spiegazione che possa essere detta a parole, e nonostante ciò ha la sua ragion d’essere per affrontare questo bizzarro atto creativo.
Personalmente con il misticismo ho un rapporto quasi di paura perché mi spaventa il non riuscire a controllarlo, all’interno della scena, perché non ne conosco bene i limiti. Mi interessa molto vederlo in altri contesti, sto imparando con l’età sempre di più a lasciargli spazio. Guardandomi e ritornando indietro al mio passato, invece, tutto ciò che era scritto per il pubblico era preciso, riconoscibile e chiaro. Il misticismo non è chiaro per il pubblico quando lo vede rappresentato, mi piace che assuma un significato proprio per noi. È un po’ la resa del significato, un significato che non c’è e non ci vuole essere.
Nello spettacolo c’è una interazione che muovendo dal divertimento, sul finale, sembra quasi diventare rabbia. È un richiamo che arriva dalla società e che ha influenzato il vostro spettacolo?
In realtà quello è proprio un po’ la fine della storia che è la nostra storia come gruppo di persone. Comprende sicuramente anche tutta l’umanità, perché siamo piccoli pezzi di umanità che ci sono lì dentro ed è un piccolo riassunto della nostra relazione di gruppo esplicitata in tre minuti sotto forma di gioco. Sono i fuochi artificiali che diventano un gioco fra di noi, che si trasformano in palline carine che passano e che diventano ad un certo punto violenza. Non vuole essere una violenza negativa, è un po’ quella violenza del ragazzino che fa la bravata, non è una violenza totale e si trasforma in un gioco con il pubblico in quanto è un passaggio di energia. La violenza è parte della società, è parte di noi. In qualsiasi modo ognuno la esplicita è presente semplicemente perché le relazioni di qualsiasi tipo ti possono portare anche a questo. È venuto fuori da sé perché Collapse è uno spettacolo che si basa sulle relazioni tra di noi, le relazioni di aiuto fisico, di aiuto. È un piccolo passaggio e non vuole essere in realtà una contestazione o una forzatura quasi a volerlo mettere apposta. È semplicemente qualcosa che è arrivato all’interno della creazione e noi l’abbiamo preso e portato con noi.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Al Teatro Vascello, nella suggestiva estate teatrale di Roma, arriva la danza contemporanea nazionale e internazionale, sotto la cura organizzativa di Valentina Marini. Dal 2016 il festival Fuori Programma propone una programmazione curata di spettacoli, e da quest’anno la stessa Marini ha preso in toto la direzione artistica del festival: impresa sicuramente rischiosa, in una città dove le risorse e la promozione vengono quasi interamente indirizzate ad eventi all’aperto.
Abbiamo voluto farle solo un paio di domande a proposito di come si inserisce il suo lavoro di programmatrice in questa missione, all’interno della sua attività con il DAF e della compagnia Spellbound. In una piacevole conversazione, è emersa quella che è stata la firma che ha contraddistinto questa edizione del festival: in primo luogo l’idea che la danza, nel suo significato più compiuto, si debba esprimere pienamente come opera del corpo per un pubblico che la cerca, la desidera, senza doversi immergere in panorami performativi altri per trovare giustificazione. In seconda istanza, questo festival si divide fra spettacoli di rilievo in ambito internazionale (Vertigo Dance Company, Hillel Kogan, Dunja Jocic) e produzioni italiane sia provenienti da diverse zone della penisola (Abbondanza/Bertoni, Spellbound Contemporary Ballet, Compagnia Zappalà Danza).
Valentina Marini racconta come il suo obiettivo, trasversale nelle attività di direzione come in quelle di organizzazione e distribuzione, sia quello di creare una comunità di professionisti che si identifichi in un luogo e in uno spazio e sia rappresentativa di un territorio. Il compito della programmazione è un percorso pieno di imprevisti e ostacoli, per questioni legate alle economie e al difficile dialogo con gli enti del territorio, e deve scontrarsi con lo spettro della presenza del pubblico. Nel caso di Fuori Programma, gli spettatori hanno riempito la platea e accolto le proposte con grande entusiasmo. Nel sostenere questa iniziativa, si può facilmente intuire come possa diventare un’ottima vetrina non solo di spettacoli già affermati, ma anche di nuove proposte capaci di avvicinare un pubblico più vasto dell’usuale sparuto gruppo di operatori e addetti al settore.
Spellbound Contemporary Ballet
Il percorso che va dalla creazione, messa in scena fino alla distribuzione della danza contempla, soprattutto per alcune eccellenze autoriali, che gli operatori siano disponibili a costruire un dialogo comunitario e critico con gli artisti. L’importanza di valorizzare i prodotti artistici basandosi non sul rapporto fra giovane età anagrafica e innovazione creativa o su semplici reti di circuitazione, va ad incidere sulle reali capacità creative e innovative dell’artista, stimolandolo a migliorare la creazione e a dare una continuità al processo creativo negli anni. Marini, coadiuvata da un potente staff, sperimenta da diversi anni la formula giusta per coniugare la necessità di gestire compagnia, festival e spazi in un’ottica aziendale e prettamente funzionale, alla volontà di stare dentro la sala di danza e di conoscere il materiale umano e creativo.
In queste giornate romane, ho potuto assistere allo spettacolo di Spellbound Contemporary Ballet, in prima nazionale con Full Moon. Nella vasta produzione di Mauro Astolfi per la compagnia, questo lavoro si inserisce in un filone maggiormente ispirato all’astrazione tematica e alla sospensione dell’intento narrativo. Iniziato lo scorso anno con un cast diverso (sono stati inseriti nuovi danzatori nell’organico della compagnia), il materiale sperimentale è diventato ben presto una creazione integrale. Astolfi si ispira alle fasi lunari – una curiosa coincidenza, proprio nella settimana dell’Eclissi – e ai richiami atmosferici che queste fasi hanno nell’immaginario fisico e psicologico dell’uomo, facendo muovere i nove danzatori come se fossero animati da un deus ex machina superiore, una sorta di moto sovrannaturale che spinge i corpi, fuori dal controllo del giudizio. L’atmosfera rarefatta viene sostenuta dalle luci di taglio e da controluce molto verticali, che richiamano agli ultimi lavori di Wayne McGregor.
Un fascio luminoso, come se filtrasse da una persiana, sceglie cosa mostrare allo stesso attore in scena e rafforza – forse in maniera un po’ didascalica – le continue entrate e uscite dei danzatori. Gli stessi mostrano una tecnica molto forte nel lavoro di Mauro Astolfi, il quale conferma la sua vivacità nella costruzione dei numerosi duetti che si succedono: questa energia, da un punto di vista drammaturgico, va spesso a perdersi in una continua voracità cinetica, “bruciando” alcuni momenti che potevano essere portati a un climax maggiore. Il lavoro mantiene la sua efficacia nei passaggi interattivi fra quello che avviene in scena e ciò che risulta nella penombra, illuminato dietro il fondale, in momenti di trasformazione fisica, quasi epidermica. La musica non è mai interrotta, raggiunge alcuni apici sonori che però non trovano corrispondenza in una visione d’insieme del lavoro, facendo emergere talvolta la necessità di momenti di silenzio e di creazione di atmosfere differenziate: riferendosi al paesaggio lunare, la memoria va a Vollmond di Pina Bausch, punto imprescindibile di riferimento per la creazione dei paesaggi del corpo.
Full Moon è una creazione che affida alla bellezza e instancabilità dei corpi l’ambientazione fisica, il racconto delle relazioni, la nascita di nuove “creature” nell’oscurità della notte attraverso danzatori che rimangono ben ancorati alla propria umanità e alla propria capacità di interazion
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