Dall’11 al 27 luglio 2018 al Teatro Vascello di Roma torna Fuori Programma, il Festival Internazionale di Danza Contemporanea, con la direzione artistica di Valentina Marini, prodotto da European Dance Alliance/Valentina Marini Management in collaborazione con Teatro Vascello. L’edizione 2018 punta all’eccellenza con due prime nazionali, due prime regionali, una prima romana e un debutto assoluto.
In occasione dell’inizio della kermesse abbiamo intervistato la direttrice artistica Valentina Marini:
Come e sotto quali auspici nasce la rassegna “FUORI PROGRAMMA Festival Internazionale di Danza Contemporanea”?
La Rassegna Fuori Programma è nata tre anni fa da una iniziativa del Teatro Vascello che ha deciso di prolungare la programmazione danza scavallando la consueta stagione invernale per ospitare in estiva alcuni spettacoli in uno spazio dedicato, un contenitore che il Teatro ha prodotto per due stagioni consecutive senza sostegni esterni. Dal 2018 ho rilevato la manifestazione che è prodotta e organizzata quindi in esterno, ma mantiene lo spirito e anzi ne amplia gli intenti con l’obiettivo di potenziare un periodo di programmazione troppo spesso lasciato in coda ma che dovrebbe-potrebbe contare su un pubblico ampio, quello dei turisti, a cui è dovuta una offerta culturale multiforme e non per forza legata ad alcuni formati predefiniti.
Programmazione artistica all’insegna dell’innovazione: quali sono stati i parametri qualitativi e gli obiettivi che la direzione artistica ha perseguito per questa edizione 2018?
La parola innovazione mi fa paura, non ho la presunzione di innovare, se ne parla troppo oggi e spesso a sproposito. Ho invece l’ambizione di non sedermi sul sicuro e avere uno sguardo nella programmazione che allarghi il compasso dalla comfort zone degli spettacoli tradizionalmente associati alle placide serate estive per dare spazio a una rosa di autori il cui segno ci porti a una riflessione forte cosi come forte è il gesto fisico dei corpi che mettono in scena. Sono corpi parlanti, nel senso che sono portatori di messaggi che vanno oltre la natura puramente decorativa dello spettacolo ma scavano verso zone piu’ profonde di riflessione ognuno con un messaggio preciso, oltre che un alto profilo qualitativo. Ogni creazione proposta ha un suo piccolo mondo, un immaginario che a modo suo indaga, e risponde a una diversa angolatura per fare da specchio al pubblico nella gamma delle suggestioni possibili. L’obiettivo è proporre un ventaglio di creazioni vive, attuali, voci di artisti diversi ma accomunati dal desiderio di usare il corpo come strumento di dialogo profondo, di investigazione dei temi che oggi giorno sempre più solcano le nostre vite. Allora il teatro diventa urgente luogo di confronto perchè impone lo stadio della riflessione, della condivisione delle esperienze, della bellezza come risposta alle chiusure che l’oggi ci pone davanti con sempre maggiore durezza.
Le sei proposte sono tutte delle novità esclusive per la città di Roma: Vertigo Dance Company porta in scena l’ultima creazione per dieci danzatori della coreografa Noa Wertheim, un lavoro che ben rappresenta la relazione arte-uomo-natura che è alla base della poetica dell’autrice, “We love arabs” di Hillel Kogan, è una ironica e dissacrante creazione sul tema della convivenza tra arabi ed ebrei un lavoro pluripremiato a livello internazionale che mai avrei immaginato avrebbe portato un tema cosi attuale anche da noi, purtroppo. “Don’t Talk to me in my sleep” presenta per la prima volta in Italia in veste di autrice una creazione di Dunja Jocic, artista dallo sguardo cinematografico e graffiante, di origine serba ma olandese di adozione. “La Morte e la Fanciulla“ di Abbondanza-Bertoni è l’ultimo imperdibile capolavoro di due artisti che stimo particolarmente, recentemente insignito del premio Danza&Danza: una piece struggente che raggiunge profondità come pochi autori sanno fare. Spellbound Contemporary Ballet è in scena con un debutto assoluto, l’ultima creazione di Mauro Astolfi “Full Moon”, un progetto creativo elegante e intimista affidato un rinnovato organico di nove interpreti davvero speciali. Chiude il programma Roberto Zappalà, un altro artista che ho programmato in diverse occasioni nell’ultimo anno qui a Roma nella speranza di costruire un pubblico che segua gli autori nei diversi luoghi. Il progetto di Zappalà è infatti legato alla creazione che ha presentato a maggio al Teatro Biblioteca Quarticciolo, come parte di una unica opera frutto della “meditazione su Caino e Abele”.
La Morte e la Fanciulla“ di Abbondanza-Bertoni
Audience Development: quali sono le motivazioni che hanno portato Fuori Programma ad aprirsi a una nuova collaborazione con Casa dello Spettatore che curerà INCONTRO ALLA DANZA_fuori programma?
La relazione con il pubblico è fondamentale oggi più che mai. Non solo perchè uno dei grossi nodi della programmazione è l’ansia di riempire le sale e di portare il pubblico a interessarsi, laddove nuovo, a certe proposte, ma soprattutto per renderlo partecipe, coinvolgerlo emotivamente nella riflessione che ogni spettacolo ci pone davanti. La scena dovrebbe fare da specchio ad una dimensione critica dell’oggi, dovrebbe fare da cassa di risonanza rispetto a un dialogo complessivo, politico, umano, esistenziale: un corto circuito ha allontanato artisti e pubblico e ha spento in gran parte una relazione vitale e necessaria che va assolutamente rimessa in vita per risvegliare nella gente l’urgenza di ricorrere al Teatro come luogo privilegiato per una crescita collettiva costruttiva rispetto alla pochezza che, ahimè, senza retorica davvero oggi ci circonda. Gli incontri a cura de “La casa dello spettatore” nascono proprio con lo scopo di guidare una platea curiosa ad una visione consapevole attraverso una preparazione antecedente lo spettacolo nello stesso ridotto del Vascello.
Percorsi di Formazione: sono previsti due workshop tenuti dalla Vertigo Dance Company presso la Scuola di Danza Mimma testa a Trastevere e il 26 luglio dalla Compagnia Zappalà Danza (120 min di lezione) presso il Teatro Vascello.
La pratica attiva della danza è sempre un veicolo privilegiato per dare possibilità agli studenti e danzatori di conoscere sia in sala che in scena gli autori presentati. Spero negli anni che questo possa diventare davvero un bacino ampio accanto al cartellone degli spettacoli in rassegna come appuntamento combinato con una rosa di autori tra coloro che presentano le proprie creazioni. La formazione se potesse sempre abbracciare sia lo studio che la visione darebbe sicuramente una educazione artistica piu’ completa.
Qual è stata la risposta in questi anni del pubblico che ha partecipato agli eventi di “FUORI PROGRAMMA Festival Internazionale di Danza Contemporanea”?
Inutile negare che il pubblico in estiva in una città come Roma stenta a immaginare di chiudersi in teatro anche se solo per un’ora di spettacolo e di sicuro la fatica maggiore è stata questa sul piano organizzativo. Competere con i grandi palchi nei parchi romani o le opere allestite tra le rovine antiche è difficile ma è anche vero che il costo del biglietto e la durata-tipologia degli spettacoli sono profondamente differenti. Questo Festival è una scommessa nelle scommesse ma credo che in una capitale da sei milioni di abitanti e un numero incalcolabile di turisti non possa e non debba essere un limite riempire una sala da 300 posti. Ci vorrà tempo ma spero che un giorno tra le alternative al tempo libero nel mese di luglio ci sia quella di organizzare una bella serata in teatro cui segue un dopo spettacolo nella meravigliosa Trastevere li a due passi. Considerando il tasso di pioggia delle ultime estati credo che alla fine, anche il più cinico degli abbonati, arriverà a questa conclusione, ammaliato non solo dal programma ma anche dalla certezza di una sala climatizzata.
In prima nazionale, lacasadargilla debutta al Teatro Vascello di Roma con L’amore del cuore di Caryl Churchil, in scena dal 15 al 23 maggio 2021. Regia di Lisa Ferlazzo Natoli, autrice e regista collabora con i maggiori teatri e istituzioni italiane. Con il suo ultimo lavoro When the Rain Stops Falling, vince i premi UBU e della Critica come miglior regia. Testo di Caryl Churchill, tra le maggiori drammaturghe di lingua inglese, autrice di numerosi testi teatrali e radiodrammi rappresentati in tutto il mondo. Vince numerosi premi. Fra le opere maggiori si citano Cloud Nine, Top Girls, Far Away, Sette bambine ebree. lacasadargilla è un ensemble allargato che lavora su spettacoli teatrali, istallazioni, rassegne e attività di formazione. È prodotta da istituzioni nazionali e internazionali.
Note di regia
Di cosa tratta L’amore del cuore? L’argomento, la storia sono in qualche modo secondari, perché l’intenzione principale di Churchill è di distruggere il testo stesso, usandolo per smontare i meccanismi del teatro, della realtà e delle relazioni che all’interno di questa realtà si costruiscono moltiplicando abitudini, rimossi e abissi. Certo c’è un filo narrativo, una piccolastoria familiare, punteggiata da fatti e incidenti non esplicitamente legati tra loro, ma percorsi tutti da una stessa preziosa inquietudine, in cui l’ordinaria perversità dell’istituzione familiare e dei suoi meccanismi relazionali e sociali è letteralmente ‘gettata in scena’, per spingersi fino a quella esplosione della parola, del linguaggio, del sistema di segni attraverso la cui mediazione diamo senso al mondo.
Dunque in L’amore del cuore – che è anche solo un grande testo sull’attesa – c’èuna famiglia – i genitori Alice e Brian, la zia Maisie, il figlio Lewis – che aspetta il ritorno dall’Australia della sorella maggiore Susy. Mentre quest’attesa accade (l’arrivo di Susy sembra realizzarsi tre volte e dunque forse nessuna è vera) emergono (ma saranno veri?) inquietanti ricordi del passato: una relazione adulterina di Alice, un misterioso cadavere in giardino. E si svelano tensioni irrisolte: il rapporto dei genitori con il figlio, le paure notturne di Maisie, gli accenni a una possibile pulsione incestuosa di Brian per la figlia, il suo desiderio auto-cannibalistico confessato in un crescendo angoscioso e orgasmatico.
L’amore del cuore inizia con un’ambientazione realistica da dramma domestico, ma subito la superficie di normalità si incrina in una delle molte interruzioni/riprese della narrazione che punteggiano il testo. I personaggi si fermano per ricominciare, come un disco rotto, da un punto immediatamente precedente, replicando azione e dialogo con piccole modifiche e/o aggiunte – riprese che creano un effetto di disorientamento causale e temporale, annullando la verosimiglianza del primo breve segmento e risignificando l’orizzonte di attesa. Come se si trattasse non di una rappresentazione, ma dei resti di una rappresentazione, in cui i personaggi incertamente recitano sé stessi e la propria vita. Come se il testo stesso avesse dei ripensamenti e volesse riprovarci in altro modo.
Così per mettere in scena L’amore del cuore – in questa alternanza perfetta tra storie familiari e l’esilarante, cupissimo meccanismo a orologeria disegnato da Churchill – l’attore è costretto a prendere posizione sulla scrittura stessa, assecondandola, fraintendendola o ‘sabotandola’ – perché il testo lo richiede e il divertissement teatrale lo consente – mentre il regista continua il lavorio di un vigile direttore d’orchestra cui però inesorabilmente scappa di mano l’organico.
Proprio per questo, scegliamo per L’amore del cuore la forma ibrida e ‘ambigua’ di quella che potrebbe a prima vista sembrare una messinscena, ma con l’intenzione di radicalizzarne e metterne a nudo il dispositivo interno, facendone – letteralmente – il disegno di regia. Mostrando, in tempo reale il ‘combattimento’ dell’attore e l’immediatezza delle sue reazioni di fronte alla parola ricordata, dimenticata e rimemorata – la sorpresa procurata dalla stessa frase ripetuta più e più volte nell’arco del testo, o gli inciampi suscitati dall’esplosione del meccanismo narrativo. Ma anche semplicemente lo stupore di un testo che pagina dopo pagina si srotola, si inceppa, si dipana e si incaglia, che perde e riprende senza sosta il filo della narrazione. Scelta artistica ed espressiva che – in una messinscena compiuta e dettagliata intorno a un tavolo familiare, ‘ambiente’ apparentemente realistico – mostra l’attore alle prese con il linguaggio stesso, rivelando il processo che lo porterà alla graduale – e forse involontaria – ‘caduta’ nel personaggio.
Una forma scenica radicale e formalmente precisa per mettere a nudo il momento stesso del formarsi dello spettacolo, quando il testo – inteso come successione di parole, lemmi, sintassi – si apre alla regia e al suo immaginario, ai paesaggi sonori, ai movimenti scenici o alle inaspettate suggestioni visive. Perché L’amore del cuore accanto e intorno al ‘testo in sé costruisce letteralmente una scatola sonora fatta di un minuzioso uso di microfoni invisibili e una partitura quasi musicale di rumori, pause e iterazioni sonore. Mentre d’improvviso ‘irrompono in scena’ – come se nulla fosse e senza produrre apparentemente effetti sull’interno familiare – uno struzzo, una torma di bambini, il fragore di mitra che – a quanto il testo indica – uccidono letteralmente tutti. Irruzioni semplicemente ‘dette’ e che semplicemente ‘accadono’, perché Churchill chiede e chiama la vita ‘organica’ e incontrollabile a fare intrusione nel meccanismo inceppato della realtà. E richiederebbe che lo struzzo in carne e ossa o il suo fantasma narrativo – pericoloso e bellissimo – entri veramente sulla scena, per scorrazzare liberamente nello spazio umano del teatro mentre le luci scendono piano.
Una forma scenica che è quasi un ‘esercizio spirituale’ di lettura, scelta proprio perché il teatro di Caryl Churchill così insolito e poco addomesticabile sembra chiederlo. Una scrittura che – come un vaso di Pandora – è piena di affascinanti trabocchetti drammaturgici, d’invenzioni e sperimentazioni sul filo della lingua e dell’azione, sotto cui sono disseminati i temi, sempre politici, sempre vicini a questioni come l’identità, la costruzione delle relazioni pubbliche e private, la messa in scena della realtà, la frattura tra questo rappresentare e il rappresentarsi – come società o come uomini – rincorrendo quella cosa chiamata verità.
C’è ne L’amore del cuore un principio seminale, disseminato ovunque nella raffinata bellezza del cesello verbale e nel meccanismo di suspense degno di un’investigazione per omicidio, dove la vittima sembra essere proprio Susy, la figlia maggiore di una famiglia del tutto ordinaria, il cui ritorno tutti aspettano – o invece temono? – e che in ogni modo non accadrà se non forse solo nel perturbato spazio immaginario degli spettatori.
L’amore del cuore giocando con strutture e linguaggi teatrali, mette in questione la sovranità autoriale e registica, costruendo allo stesso tempo – come dice la stessa Churchill – dei “McGuffins”, elusivi nulla, espedienti che al tempo stesso attraggono e sviano l’attenzione, o – parafrasando Hitchcock che ne parla a Truffaut – marchingegni per catturare leoni là dove non ne esistono e grazie ai quali riesce a parlarci di amore e solitudine, inganno, paura e desiderio.
L’allestimento semplicissimo permetterà a L’amore del cuore di farsi negli spazi più diversi: un tavolo di ferro spesso, leggermente rettangolare, ma profondo, quattro sedie sempre in ferro, un appendiabiti poco discosto, 4 tazze da tè di porcellana inglese bianche rifilate d’oro, una grande teiera, cucchiaini. Gli abiti nei toni del grigio e dell’antracite stinti, quasi chiari come fossero presi da fotografie scolorite. Solo Susy con la sua valigia, in lontananza, sarà vestita di colori sgargianti, rossi e rosati, come se lo spettacolo uscisse fuori d’improvviso dal proprio bianco e nero. Un set di microfoni di diverse nature: panoramici per rendere astratta l’azione, a contatto per far risuonare i tavoli e levalier per restituire anche le più piccole esitazioni del linguaggio. Un piazzato livido – come un ring di luci a vista – intorno al tavolo di cui calibrare le intensità. Due punti di luce, uno per l’attaccapanni di Brian e l’altro, per Susy in lontananza.
Regia Lisa Ferlazzo Natoli con Tania Garribba, Fortunato Leccese, Alice Palazzi, Francesco Villano, Angelica Azzellini suoni ambienti e spazio scenico Alessandro Ferroni luci Omar Scala immagini Maddalena Parise costumi Camilla Carè aiuto regia Flavio Murialdi una produzione Teatro Vascello La Fabbrica dell’attore e lacasadargilla con il supporto di Theatron Produzioni con il sostegno di Bluemotion
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.
Era il maggio del 1999 quando un giovane ragazzo partiva dalla provincia di Messina per andare a Roma e realizzare il suo grande progetto di diventare un attore di cinema. Lasciava la sua famiglia e la sua terra. Quella Sicilia impressa nel suo nome: TindaroGranata. L’ultimo a essere nato a Tindari, una frazione situata sulla fascia costiera tra Milazzo e Capo Calavà, con il promontorio che dai monti Nebrodi domina il mar Tirreno e il santuario della Madonna Nera. La scultura in legno di cedro che, secondo la leggenda, fu abbandonata dai marinai di una nave per poter salpare nuovamente senza avversare la volontà divina.
Molti uomini e donne, come e prima di lui, avevano già attraversato lo Stretto e il mare, con la morte e la speranza nel cuore, per raggiungere quello che i siciliani definiscono il “Continente”. Chi ha vissuto quella esperienza ricorderà per sempre il rumore dei motori della nave traghetto, la salsedine del mare contaminata dall’odore del carburante. Le case, i palazzi e la lunga striscia di spiaggia rimpicciolirsi sempre di più, man mano che ci si allontana dalla terraferma. La Madonnina sulla stele con quella scritta “Vos et ipsam civitatem benedicimus”. Gli attimi trascorsi sulla balconata e le interminabili ore precedenti alla partenza. Frammenti di immagini che diventeranno ricordi incancellabili, come le riprese di un film. Come gli scatti fotografici di una Polaroid che conservano gli elementi antropologici. Luoghi, cose e persone.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Antropolaroid è come un album di fotografie con tracce di memoria storica. Tindaro Granata racconta le diverse generazioni della sua famiglia ed è possibile scorgere e ritrovare, in quelle storie, anche un po’ delle nostre radici e di noi.
L’inizio risale al settembre del 1925: Francesco Granata muore impiccandosi.“U dottoreddu”, il suo medico, gli comunica di avere un tumore incurabile allo stomaco e di aver bisogno della morfina per lenire le sofferenze. Sarebbe morto piano, anzi “chiano chiano”. Sua moglie rimasta da sola e incinta si reca spesso al cimitero per portare sulla tomba del marito non i crisantemi, ma sputi e bestemmie. Il loro figlio, Tindaro Granata, nel 1944 conosce una ragazza, Maria Casella la quale si innamora di lui durante una serata di ballo organizzata dal padre di lei, per presentarle il suo futuro sposo, un ufficiale tedesco. Tindaro e Maria scappano facendo la “fuitina”. Un anno dopo nasce Teodoro Granata e nel 1948, suo padre viene coinvolto in quella che viene apostrofata come la“notte nera”, un omicidio di mafia. Da grande, Teodoro si trasferisce in Svizzera, ma ritorna in Sicilia per sposarsi con Antonietta Lembo e apre una falegnameria con l’aiuto del dottor Badalamenti.
Tindaro Granata nasce nel settembre del 1978. Un bambino con la bocca a forma di cuore a cui la sua nonna gli regala una stella, la più luminosa nel cielo della notte. Insieme con l’astro del firmamento gli fece anche tre doni immateriali, mediante un rituale antico di benedizione: la bellezza, la fortuna e la sofferenza perché quest’ultima è il viatico delle prime due. Quella donna semplice di altri tempi disse in anticipo ciò che Leonardo Sciascia scrisse nel 1977 in Candido ovvero un sogno fatto in Sicilia: “Una felicità ottenuta facilmente prima non è la stessa di una felicità ottenuta difficoltosamente dopo; non si può nemmeno dire felicità quella di cui si gode inconsapevolmente, senza essere passati attraverso la sofferenza”.
Antropolaroid, in scena dal 7 al 12 maggio, è stato accolto dal calore, dall’energia dirompente dei lunghi applausi di un pubblico emozionato e riconoscente, la sera del suo debutto. La cornice di un teatro suggestivo nella sua intimità, come l’Off/Off Theatre di via Giulia a Roma, era calzante. Quelle di Antropolaroid sono tante schegge di storie memorizzate da bambino, come le favole per dormire, raccolte e tramandate di generazione in generazione. Fanno rivivere la tradizione ottocentesca del “cunto”, fonte di trasmissione orale. Ed è proprio in questa caratteristica che il siciliano diventa la lingua dell’anima. Una risorsa e una testimonianza di un’identità, di un’espressione umana e artistica, di un mondo interiore che risulta familiare anche a chi il siciliano non lo parla perché quei codici di amore e di morte, di partenze e di ritorni, di paura e di coraggio possono essere facilmente compresi e decodificati.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Sono trascorsi venti anni da quel momento così intimo e personale, da quel viaggio verso il “continente”, da Sud verso Roma, più al nord della Sicilia. Tindaro Granata è diventato l’attore di oggi, senza perdere quella sensibilità, quella profondità che è presente in lui da sempre. In scena, l’attore indossa gli abiti da lavoro di quando faceva il cameriere in un ristorante in via dei Chiodaroli a Roma e regala a tutti un’autentica lezione di vita quando con orgoglio afferma che quei pantaloni e quella giubba servono ancora per ricordargli “Chi sono e da dove vengo”. Un bagaglio di esperienze incisive il suo, reso prezioso grazie ad ogni incontro con grandi personalità del teatro. Da Maurizio Scaparro a Carmelo Rifici, da Valerio Binasco a Serena Sinigaglia e Andrea Chiodi.
Nel suo percorso artistico ha saputo alternare l’attività in proprio. Come autore, regista e interprete delle sue opere esordiva proprio con Antropolaroid. Quel debutto avveniva nel 2011 ed era la sera del 29 gennaio, a Ponteranica in provincia di Bergamo. Otto anni dopo, Tindaro Granata conserva ancora un ricordo preciso con tutti i dettagli significativi. Il suo lungo pianto prima di entrare in scena, i pensieri che affollano la sua mente. Fuori pioveva, dentro c’erano diciassette spettatori seduti e quattro in piedi.
Tindaro Granata – Antropolaroid
Granata è ritornato a Roma, con La bisbetica domata al Teatro Vascello ad aprile e Antropolaroid a maggio. Nel mezzo c’è stato il workshop Musica in Te(atro), organizzato da Theatron 2.0. È stato il modo migliore per ritrovare amici e rivedere luoghi, ma soprattutto per festeggiare un anniversario. Venti anni di carriera ricordati dal palco dell’ Off/Off, con un pizzico di ironia e di leggerezza, come un viaggio al contrario, dal Nord al Sud, adesso che lui vive a Milano. E se è vero che ogni ciclo ha le sue fasi e conclusioni, è ancor più vero che la vita non è fatta soltanto di partenze, ma anche di ritorni e di ricordi e, spesso, ci riporta esattamente lì dove tutto è iniziato. Perché l’esplorazione è continua e fino a quando il nostro cuore non smetterà di battere e di pompare sangue, spegnendo lentamente le attività del nostro cervello, nessuno potrà mai dire di aver superato il punto di non ritorno.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
È un messaggio sferzante e impetuoso quello che è arrivato in occasione della Giornata mondiale del Teatro, una ricorrenza che viene festeggiata il 27 marzo in tutto il mondo. Istituita nel 1961 a Vienna durante il IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro, organo fondato, su iniziativa dell’Unesco, nel 1948.
Promossa dai Centri Nazionali dell’Interntional Theatre Institute (I.T.I.), la più importante organizzazione internazionale non governativa nel campo delle arti sceniche, la Giornata Mondiale del Teatro, è stata celebrata per la prima volta a Parigi, su iniziativa di Jean Cocteau.
Da quel momento in poi, personalità illustri come Peter Brook, Eugène Ionesco, Luchino Visconti, Maurice Bejart, Pablo Neruda, Hélèn Weigel, Arthur Miller, Jean Cocteau, Judi Dench, Dario Fo e tanti altri ancora, hanno scritto e affidato alla comunità internazionale i loro messaggi.
Nacque così la tradizione di leggere in contemporanea e in tutti i teatri, le biblioteche, le scuole del mondo, la riflessione scritta e firmata da autori, artisti, Premi Nobel. Concepita, di volta in volta, per promuovere le diverse sensibilità artistiche, il dialogo tra culture diverse e la Pace tra i popoli.
Poco più di mezzo secolo di coinvolgimento e responsabilizzazione da un lato, di educazione e di informazione dall’altro perché l’obiettivo che persegue l’I.T.I. è quello di incoraggiare gli scambi internazionali nel campo della conoscenza e della pratica delle Arti della Scena, stimolare la creazione ed allargare la cooperazione tra le persone di teatro, sensibilizzare l’opinione pubblica alla presa in considerazione della creazione artistica nel campo dello sviluppo, approfondire la comprensione reciproca per partecipare al rafforzamento della pace e dell’amicizia tra i popoli, associarsi alla difesa degli ideali e degli scopi definiti dall’U.N.E.S.C.O.
L’autore del messaggio internazionale per la Giornata del 27 marzo 2019 è Carlos Celdràn, regista teatrale e drammaturgo internazionale nato a L’Avana, Cuba, dove vive e lavora.
[…] Il mio paese teatrale, mio e dei miei attori, è un paese intessuto di questi momenti, in cui mettiamo da parte le maschere, la retorica, la paura di essere ciò che siamo, e uniamo le nostre mani nel buio […] .
(Dal messaggio internazionale)
Celdràn è stato presente come ospite speciale in diversi appuntamenti, tra cui quello del 26 a Pesaro. L’I.T.I. ha scelto, infatti, di celebrare la Giornata del Teatro un giorno prima, insieme con i detenuti e gli operatori teatrali che svolgono azioni riabilitative nella casa circondariale di Villa Fastiggi.
Carlos Celdràn
L’evento è avvenuto in concomitanza con la Sesta Giornata Nazionale del Teatro in Carcere, curata dal Coordinamento Nazionale del Teatro in Carcere insieme al Ministero della Giustizia.
[…] La tradizione teatrale è orizzontale. Non c’è nessuno che possa affermare che il teatro esista in un qualsiasi luogo del mondo, in una qualsiasi città o edificio privilegiato. Il teatro, così come l’ho recepito, si diffonde attraverso una geografia invisibile che fonde le vite di chi lo compie e il mestiere teatrale in un unico gesto unificante […] .
(Dal messaggio internazionale)
Da 17 anni, il Teatro Aenigma di Urbino organizza e promuove laboratori e produzioni teatrali con i detenuti di case di reclusione e di strutture psichiatrico-giudiziarie, fino a diventare, nel corso del tempo, una vera e propria eccellenza nel campo. Il Teatro svolge anche una funzione di facilitazione e di riabilitazione per il reintegro sociale e la lotta all’emarginazione. Grazie ai suoi 30 anni di attività, è così che Aenigma è diventato il capofila del Coordinamento nazionale teatro in carcere, con 59 progetti in 15 regioni italiane.
La giornata del 27 marzo, a Roma, è stata ricca di momenti e di incontri interessanti che hanno avuto luogo presso il Teatro Vascello.
Nella mattinata c’è stata la premiazione dei testi vincitori della quarta edizione concorso “Scrivere il Teatro” indetto dal Miur e rivolto agli studenti delle scuole di tutta Italia. Anche in questa occasione Celdràn ha partecipato all’incontro insieme con Tobias Biancone e Fabio Tolledi, rispettivamente il direttore e il presidente dell I.T.I. Con loro c’erano anche il dirigente del Miur Giuseppe Pierro e la giornalista di Radio3 Rai Laura Palmieri.
Al Vascello di Roma, i ragazzi hanno messo in scena opere scritte, dirette e interpretate da loro. Più di 200 sono state le scuole italiane coinvolte, che hanno sviluppato il tema del disagio giovanile con un taglio di attualità, con leggerezza e riflessioni profonde. Insegnando molto agli “addetti ai lavori”, come ha dichiarato Fabio Tolledi. Dagli studenti della Scuola Primaria ai ragazzi della Secondaria, i giovani attori si sono alternati sul palcoscenico del teatro romano.
A vincere il premio del concorso “Scrivere il Teatro” sono stati le ragazze e i ragazzi dell’istituto ‘Majorana’ di Rossano Calabro, che hanno messo in scena Ti ho trovato! – la storia di Giuseppe, adolescente orfano di madre che vive un rapporto conflittuale con il padre.
In serata, poco prima delle 21, sempre al Teatro Vascello, prima dello spettacolo Abitare la battaglia diretto da Pierpaolo Sepe ci sono stati gli interventi di Fabio Tolledi, Tobias Biancone e Carlos Celdràn e la lettura del messaggio curata dall’attrice salentina Roberta Quarta che ha anche tradotto il testo.
[…] Quando ho capito che il teatro era un paese in sé, un grande territorio che copre il mondo intero, è sorta in me una determinazione, che è stata anche il compimento di una libertà: non devi andare lontano o spostarti da dove sei, non devi correre o muoverti. Il pubblico c’è ovunque tu esisti. I colleghi di cui hai bisogno sono là al tuo fianco. Là, fuori da casa tua, c’è la realtà quotidiana opaca e impenetrabile.
Lavorerai, quindi, da quell’apparente immobilità per progettare il più grande viaggio di tutti, per ripetere l’Odissea, il viaggio degli Argonauti sei un viaggiatore immobile che non cessa mai di accelerare la densità e la rigidità del tuo mondo reale. Il tuo viaggio è verso l’istante, il momento, verso l’incontro irripetibile con i tuoi simili. Il tuo viaggio è verso di loro, verso il loro cuore, la loro soggettività. Tu viaggi dentro di loro, nelle loro emozioni, nei loro ricordi che risvegli e met in moto. Il tuo viaggio è vertiginoso e nessuno può misurarlo o metterlo a tacere. Né qualcuno può riconoscerlo nella giusta misura.
È un viaggio attraverso l’immaginazione della tua gente, un seme che viene seminato nelle terre più remote; la coscienza civica, etica e umana dei tuoi spettatori. Perciò, non mi muovo, rimango a casa, con i miei cari, in una quiete apparente, lavorando giorno e note, perché ho il segreto della velocità […]
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
Le celebrazioni romane per i 55 anni di attività dell’Odin Teatrethanno coinvolto ed emozionato vecchi cultori e giovani appassionati dello storico gruppo. In uno dei matinée organizzati presso il Teatro Vascello di Roma per la presentazione di alcune dimostrazioni di lavoro, abbiamo intervistato l’attrice e regista Julia Varley che, insieme a Eugenio Barba, incarna, da più di quarant’anni, il cuore pulsante dell’Odin Teatret. Il sacro fuoco dell’arte che, vigoroso, si scorge ancora bruciante nelle sue pupille, fa di Julia Varley una fonte d’ispirazione per gli artisti di oggi e per quelli che verranno.
Julia Varley in Mr Peanut – Odin Teatret
Sono trascorsi 55 anni dalla fondazione dell’Odin Teatret. Da 40 anni lei è parte del gruppo: le andrebbe di raccontarmi un episodio, un incontro, un’esperienza vissuta durante i suoi anni all’Odin Teatret, che è stata particolarmente segnante per lei e che possa dare un’idea concreta di cosa significhi lavorare e vivere in un gruppo teatrale come l’Odin?
Quando abbiamo compiuto 40 anni, abbiamo invitato a Hostelbro, in Danimarca, un gruppo di teatro brasiliano con cui mettere in scena uno spettacolo che potesse essere visto da tutti i bambini della città. Per un mese, ogni mattina, abbiamo portato questo spettacolo nelle scuole. Io interpretavo Mr. Peanut, il personaggio della morte, e ho avuto modo di dare la mano a tutti i bambini di Hostelbro. È stato un avvenimento straordinario per me perché ogni bambino ha reagito in maniera diversa: c’erano quelli curiosi, quelli impauriti, quelli che si avvicinavano, quelli che volevano ballare.
Da un lato ho colto la semplicità del gesto di dare la mano attraverso questo personaggio e dall’altro, la possibilità di conoscere tutti i bambini come singoli individui. Ciò è davvero importante per l’Odin, perché per noi il pubblico è fatto di singoli e quella era una possibilità di incontrarli uno ad uno. Per questo, quando mi chiedono di un momento particolare della mia vita di artista, racconto questo evento che trattengo come qualcosa di speciale.
Mr Peanut – Odin Teatret
Nel corso del ciclo di eventi organizzati a Roma in occasione del 55esimo anniversario dell’Odin Teatret, cui ho avuto modo di prendere parte, ho notato una grande attenzione per lo spettatore in quanto singolo individuo con cui attivare uno scambio di tipo umano prima che teatrale. Quanto è importante per voi il rapporto con il pubblico – in senso prettamente antropologico direi con l’altro – e quanto il confronto con il prossimo alimenta la vostra creazione artistica?
I nostri spettacoli sono basati su questa capacità di comunicare al di là o prima dei significati. La cosa fondamentale non è la storia o ciò che si vuole dire ma condividere come “animali umani” lo stesso spazio e lo stesso tempo.
L’essere umano ha un sistema nervoso, ha un proprio bagaglio di esperienze e reagisce a determinati suoni e impulsi, in maniera differente: se io mi avvicino a una persona allargando le braccia, oppure facendo un segno di resistenza, se parlo con una voce che sembra abbracciare piuttosto che respingere, si crea una reazione nello spettatore che è qualcosa di basilare e che ha a che vedere proprio con l’animale umano che reagisce al caldo, al freddo, all’essere accettato, all’essere rifiutato. È su questa comunicazione basilare che si fondano gli spettacoli dell’Odin. Quel che conta è che in qualsiasi posto andiamo, al centro di Roma, in un piccolo paesino dove il teatro non c’è mai stato, in America Latina o in Alaska, dove parlano lingue diverse, riusciamo sempre a creare un interesse per quello che facciamo.
Spesso, gli spettatori parlano lingue diverse dalla nostra, per cui colgono il senso della storia non per mezzo della parola ma attraverso il modo in cui comunichiamo, il tipo di intonazione che utilizziamo, il livello emotivo che il canto o la musica implicano. Si tratta di una comunicazione basata su altro. In uno dei nostri viaggi in Amazzonia, abbiamo mostrato alla tribù degli Yanomami uno spettacolo di clown, in Occidente spettacolo comico per eccellenza, che è risultato spaventoso ai loro occhi.
Ci sono quindi delle differenze di ricezione, l’importante è che lo spettacolo non annoi, che abbia una forza di attrazione, una capacità di mettere lo spettatore nella posizione di vedere al di là di ciò che noi facciamo, dentro di sé, nelle proprie storie, nei significati che ognuno riuscirà a leggere nella storia. Con L’Albero, ad esempio, all’inizio offriamo agli spettatori una condizione strana: si trovano riuniti in una piccola sala, siedono su dei tubi di gomma, assistono a delle scene che forse non capiscono, per cui come li accogli è fondamentale. Bisogna dare un senso di sicurezza agli spettatori, in modo che essi siano predisposti a recepire lo spettacolo. Se gli spettatori si sentono insicuri, costruiscono delle barriere per proteggersi. Per far arrivare l’esperienza devi fare in modo che il pubblico sia aperto, in virtù di questa ricezione è importante accogliere, guidare, sorridere. Cose molto elementari.
ODIN TEATRET ARCHIVES Karohi, Venezuela, 1976 foto di Tony D’Urso
L’Odin Teatret è un melting pot teatrale che ha sempre fatto della diversità un punto di forza. Eugenio Barba, prima di tutti, ha spiegato e teorizzato l’esistenza di impulsi, di principi energetici archetipi che, essendo condivisi a livello umano, prescindono dalla tradizione e dalla cultura di appartenenza di ciascuno. Ma come avviene il primo contatto tra i nuovi attori e il resto della compagnia, come viene attivata la connessione con il gruppo e che ruolo, in quest’operazione, ricoprite lei ed Eugenio Barba?
Ognuno di noi viene da paesi diversi, però quel che riconosciamo dentro l’Odin è una cultura del gruppo. Le persone che entrano a far parte dell’Odin Teatret, dunque, non hanno un confronto con un balinese, con un’indiana, con una danese, con un inglese, con un canadese, ma hanno un confronto con persone che lavorano da quarant’anni insieme.
Quella cultura che incontrano, prevede dei comportamenti che hanno a che vedere con la partecipazione al training, con il lavoro fisico, la pulizia degli spazi comuni, la cura di oggetti e costumi, il divieto di parlare di lavoro quando si è in sala. Questi comportamenti, vengono trasmessi nel periodo di apprendistato.
Una persona che si avvicina al gruppo ha per i primi quattro anni una persona di riferimento, per cui si crea una rete di dialoghi. È fondamentale che i problemi si risolvano nel lavoro: se si è in disaccordo su qualcosa, bisogna presentare una proposta alternativa; non c’è tempo per il confronto, in questo senso non siamo un gruppo nemmeno troppo democratico! Le cose succedono perché uno prende iniziativa, fa delle proposte. Tutti devono prendersi le proprie responsabilità.
Julia Varley in Mr Peanut – Odin Teatret
La costruzione vocale e l’attenzione alla creazione di una partitura gestuale, sono una cifra stilistica distintiva del lavoro degli attori dell’Odin Teatret. Ciò ha indotto molti studiosi e teorici a sostenere che la ricerca teatrale dell’Odin sia basata principalmente sulle possibilità del corpo e che dia minor peso all’apporto artistico del testo letterario. Che tipo di lavoro compiete sul testo e come si articola sulla scena la traduzione del materiale letterario attraverso corpo e voce?
Una cosa che Eugenio dice per spiegare ciò è che ci sono persone che lavorano per il testo e persone che lavorano con il testo. Noi lavoriamo con il testo, nel senso che è per noi uno degli elementi che entrano a far parte del lavoro. Durante una sessione dell’Università del Teatro Eurasiano, alcuni storici hanno detto che l’Odin non lavora con il testo, allora ho creato la dimostrazione Il tappeto volante, proprio per dimostrare il contrario.
Per noi, il testo è uno degli elementi che narrano una storia che molto spesso non conosciamo all’inizio delle prove: noi possiamo avere dei testi di partenza, solitamente poetici, che contengono molte storie e significati. Il lavoro sul testo serve ad estrarre quel che i testi dicono e non solo a metterli in scena. Per questo motivo, molte volte, le azioni fisiche sono in contrapposizione con le parole: le azioni fisiche e le parole possono muoversi nella stessa direzione, per sottolineare il racconto del testo; possono essere complementari, cioè fanno mostrano qualcosa che sta a lato; possono essere opposte, con il corpo compio un’azione e con le parole mi riferisco all’azione contraria.
Quello che lo spettatore percepisce è il risultato della convivenza tra testo, azioni fisiche, intonazioni, luci, spazio, oggetti. Non è come mettere in scena il testo con il corpo ma è come lavorare con il testo per fornire a quel che tu racconti con il corpo, altri elementi.
L’albero, Odin Teatret
Come crede che siano cambiate il lavoro e la ricerca dell’Odin Teatret in questi anni? Che cosa ha guadagnato, che cosa cerca, che cosa ha perso l’Odin di oggi rispetto a quello che lei ha conosciuto 40 anni fa?
Quando io ho incontrato l’Odin, stava finendo sia la grande esperienza del teatro di strada sia il periodo di apprendistato, per cui sono arrivata in un gruppo che aveva un linguaggio proprio, una propria base tecnica e una maggiore autonomia. Durante i primi dieci anni dell’Odin, gli attori lavoravano sempre in sala con Eugenio. Quando io sono entrata a far parte dell’Odin, Eugenio non aveva più molto tempo per lavorare sul training, quindi per me il riferimento sono stati gli altri attori. In questo periodo, è subentrata una responsabilità pedagogica che ci ha fatto rendere conto di essere un esempio: se l’Odin fosse morto, sarebbe stata una tragedia per molti perché noi eravamo la prova che si può lavorare e vivere in un gruppo anche per molto tempo. Questa responsabilità ci ha a lungo mantenuti in vita, poi è arrivato il tempo di distruggere tutto quel che avevamo imparato.
Durante le celebrazioni per i 50 anni dell’Odin Teatret, abbiamo sepolto i nostri vecchi costumi e ci abbiamo costruito sopra un’altalena. Da allora, è come se l’Odin giocasse su quell’altalena. Quest’immagine deriva da una mostra, che ho visitato a New York, di opere dipinte da Picasso a ottant’anni. Quel che si percepiva era il piacere di dipingere, non la necessità di dimostrare la grandezza della propria arte. Allo stesso modo, è come se l’Odin avesse bisogno di ritrovare il piacere di fare spettacoli, senza il peso della responsabilità che ci siamo portati dietro per molti anni.
Che cosa perdiamo? Con l’età i corpi iniziano a cambiare, abbiamo attori che sono sordi, che hanno difficoltà a camminare e anche ciò comporta il fatto di trovare delle soluzioni diverse negli spettacoli. Se un tempo la nostra energia era esplosiva, adesso è molto più implosiva, come trattenuta. Non so quale tipo di energia sia più forte per gli spettatori, anche perché in generale utilizziamo molta più energia di quanta non se ne veda di solito a teatro.
Nel 2008 abbiamo firmato con tutti gli attori che sono stati a lungo nell’Odin, una lettera, una sorta di testamento in cui diciamo che quando l’ultimo dei nostri attori non vorrà più lavorare col nome di Odin Teatret, il gruppo non esisterà più. Eugenio ha spiegato ciò al giornale locale di Hostelbro, scatenando una grande protesta da parte dei cittadini che si sono chiesti come mai come mai non avessimo designato degli eredi e hanno dichiarato di aver bisogno dell’Odin Teatret. Questa necessità da parte della città ha ribaltato il nostro punto di vista, per cui ci siamo impegnati a dare spazio a dei giovani artisti che pur non essendo esteticamente vicini all’Odin, portano avanti il nostro lavoro. Abbiamo così mantenuto in vigore un’attività teatrale che non consista solo nel mettere in scena uno spettacolo ma che sia un lavoro pedagogico, di rapporto con la città, di impegno nella comunità, di documentazione e di scrittura. Il teatro, per noi, è tutto questo.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
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