da Edoardo Borzi | 3 Ago 2022 | Approfondimenti
A Direction Under 30, festival di mutuo soccorso teatrale dedicato alle compagnie under 30, hanno partecipato realtà artistiche di indubbio valore, alcune dal talento ancora non pienamente espresso, altre già pronte per calcare palcoscenici importanti come quello del Teatro Sociale di Gualtieri. Fra queste ultime si può annoverare la compagnia teatrale Anonima Sette, movimento teatrale fondato sull’idea di mutualità e solidarietà tra compagnie under 35 che si avvale per la produzione dei propri lavori della collaborazione fra giovani artisti col fine di creare performance che uniscano generi brillanti e classici a metodologie e ricerche contemporanee. Nel corso della sua esperienza Anonima Sette ha collaborato con la compagnia Coturno 15 (Plautus Festival 2016) e la compagnia Habitas (Fringe di Roma 2016). A maggio 2017 ha presentato, in forma di primo studio, lo spettacolo Arkady presso le Carrozzerie N.O.T. (Roma). Con Giacomo Sette, regista e drammaturgo , abbiamo avuto modo di parlare di B/RIDE, racconto teatrale ispirato al cortometraggio “Finché morte non ci separi” di Damian Szifron, vincitore del Premio della Giuria Critica della IV edizione di Direction Under 30, nato da un’idea di Martina Giusti in scena con Azzurra Lochi e Simone Caporossi, scritto e diretto dallo stesso direttore artistico della compagnia.
Come è nato lo spettacolo “B/RIDE”?
B/Ride è nato da un’idea di Martina Giusti. E dalla sua meravigliosa tigna. Voleva fare il suo dannato monologo, cascasse il mondo. Ha incontrato me in un bar del Pigneto e mi ha proposto di riscriverlo. Senza Martina B/Ride non esiste. Le mie personalissime suggestioni sono state inizialmente tutte nel rapporto con lei: nell’ambito lavorativo, delle prove, ci siamo molto suggestionati. Io sono una specie di spugna, prendo tantissimo dalle persone con cui lavoro e rielaboro. Lei seleziona tutto ciò che le arriva e sceglie cosa tenere e cosa no. Ad un tratto ho sentito la necessità di raccontare non più il personaggio della sposa tradita che scapoccia, ma il rapporto che porta a scapocciare. Inizialmente volevo scendere in dettagli psicologici, terreno minato nel quale mi muovo con fatica, poi… boom!, ho capito cosa volevo raccontare. L’immobilità. La coppia chiusa e ferma in una specie di bolla meccanica, ridotta alla ripetizione dei propri schemi mentali ormai perfettamente aderenti a quelli fisici. Niente di profondo o di rivoluzionario. Ma avevo bisogno di due pupazzi. Non c’è qualcosa di specifico che mi ha suggestionato, trovavo che erano già contenuti nella scena… allora ho semplicemente chiesto la professionalità e la bravura di Simone Caporossi e Azzurra Lochi, (che erano partiti come assistente il primo e aiuto regia la seconda), e li ho gettati nella “gabbia” con Martina. Ogni conflitto e difficoltà creava di giorno in giorno una mappa dello spazio scenico e della progressione registica. Nella confusione ed estrema libertà della “favola” s’imponeva, dalla scena stessa, dalla pulizia dei due pupazzi e dall’estro della “voce”, una specie di ordine, di equilibrio. Due pupazzi su un tappeto e una bimba che ci gioca.
Come si è strutturato il lavoro di ricerca e di produzione drammaturgica?
Io arrivavo con delle proposte. In parte pre-scritte, in parte scritte durante le prove. Queste proposte venivano accettate dagli attori e poi messe alla prova nel rapporto scenico. Il copione conta 49 pagine, ridotte poi a 9. C’era tutto un primo atto che ora è sparito. Inizialmente il centro di B/Ride doveva essere la parola veicolata dal talento della Giusti. Poi è successo qualcosa: mi sono accorto che la parola, per quanto uno provi ad assolutizzarla, ha un limite non meglio definito che la interrompe. Per la prima volta ho sentito che la parola “non mi bastava”, volevo che loro vivessero oltre quella. Martina ha avuto la bravura di “aggiustarsela” in modo creativo e rispettoso, aprendomi nuovi mondi drammaturgici. Ogni volta che tagliava inconsciamente o “storpiava” qualcosa, io valutavo se l’errore e la dimenticanza potevano diventare parte del copione o no. L’assenza di verbo nei due Pupazzi ha poi ulteriormente influenzato la scrittura che non poteva più fare a meno di questa presenza silenziosa. Il testo, cominciato come una specie di “denuncia poetica” del marcio di certi rapporti, estremamente lirico e visionario, (lo dico senza giudizio di qualità, a livello puramente tecnico), si è poi asciugato sulla scena, sul vivo degli attori, durante le prove e in alcuni casi addirittura durante le repliche, fino a diventare una specie di “beat” su cui gli attori e la musica di Luca Theos Boari Ortolani possono “cantare”.
In vista della prossima replica del 21 ottobre al Teatro Cavallerizza di Reggio Emilia quali aspetti scenici avete intenzione di perfezionare?
Credo che andremo a pulire ulteriormente. Personalmente vorrei lavorare di più sul rapporto con la musica, sull’uso dei pupazzi in un punto specifico dove mi sembra ancora poco chiaro e, con Martina, lavoreremo ancora di più sulle emozioni. Ci piace l’idea di fondere contesti teatrali e stilistici così lontani, mantenendo un finale aperto: vorremmo insistere, proseguire, rafforzare, approfondire, pulire, pulire, pulire. L’obiettivo è creare qualcosa che vada liscio, senza fraintendimenti e lasci qualcosa di grosso in chi lo guarda.
Com’è andata l’esperienza a Direction Under 30?
Bene! È semplice. Onestamente non so ancora dire, non ho ordinato troppo i pensieri. Le sensazioni, quelle me le sono tenute tutte. Vivide, con le loro immagini. Non so raccontare esattamente l’esperienza ad Under 30, ma posso dire che è qualcosa di unico. Al di là del risultato è semplicemente formativa. Il livello dei colleghi è altissimo e abbiamo avuto modo di apprezzare e percepire un’organizzazione fuori dal comune. Gentilezza, precisione. I rapporti con un reparto tecnico, anche in una situazione di emergenza e rapidità come quella della tre giorni di Gualtieri, non è mai stato così disteso e pulito. L’Associazione Teatro Sociale ci ha trattati tutti con cortesia e serietà uniche e noi di B/Ride ci siamo sentiti improvvisamente proiettati in un altro mondo. I colleghi che partecipavano con noi sono tutti bravissimi. Abbiamo visto spettacoli che “ci hanno fatto scuola” e, in generale, un ambiente “come dovrebbe sempre essere”. L’Esperienza di Gualtieri dovrebbe entrare in un progetto di Tirocinio delle sezioni umanistiche e dello spettacolo Italiane: ti fa vedere e vivere esattamente l’impatto del teatro su un ambiente sociale. Molto più di un esperimento Direction Under 30 ci è sembrato la realizzazione concreta dello scopo primario del teatro: fare comunità. Nel rapporto col luogo, (la comunità locale con il suo teatro – (e la gente ci va al Teatro di Gualtieri, che ha un suo pubblico comunitario il quale si occupa anche di partecipare ai lavori di rinnovamento dello spazio), e nel rapporto con la categoria, (non puoi non sentirti parte di una comunità più estesa, non puoi non sentirti un teatrante come tutti gli altri in un contesto come Direction. La competizione, comunque importante, passa in secondo piano. Resta l’idea che si è tutti parte di un qualcosa di enorme e plurimillenario).
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da Edoardo Borzi | 28 Lug 2022 | Interviste
Vincitori con lo spettacolo “Victor” del Premio delle Giurie della IV edizione di Direction Under 30, intervistiamo la regista Alessandra Ventrella e l’attore Rocco Manfredi, fondatori nel 2014 della compagnia DispensaBarzotti. Li abbiamo visti in scena durante le ultime due edizioni del festival organizzato dal Teatro Sociale di Gualtieri dove hanno lasciato un segno indelebile nella memoria di spettatori e addetti ai lavori per la raffinatezza poetica e la ricerca stilistica che contraddistinguono i loro lavori nell’ambito del teatro di figura rendendoli uno dei più promettenti nuclei artistici all’interno del panorama italiano “under 30”.
Quali sono stati i momenti e gli incontri decisivi per la vostra formazione artistica?
I tre anni della nostra formazione alla Scuola Paolo Grassi, quando abbiamo conosciuto le opere di Antonin Artaud, Tadeusz Kantor, Samuel Beckett e Harold Pinter. Più avanti quando abbiamo deciso, anche se inconsapevolmente, di abbandonare la parola scoprendo compagnie che lavoravano con un teatro pieno di immagini: compagnia Riserva Canini, Teatrino Giullare, Philippe Genty, Cie 14.20, Cie 111, Etienne Saglio, Slava, Peeping Tom e molti, molti altri. La partecipazione a laboratori e la più assidua possibile frequentazione delle sale teatrali e dei loro misteri ci continua a formare.
Da qui l’interesse e lo studio per la scenotecnica e la macchineria teatrale che riescono a fondere in alcuni “effetti” grandi emozioni. Effetti mai fini a sé stessi, ma progettati e costruiti per regalare atmosfere indicibili.
Altro passo fondamentale per la creazione del nostro (ancora piccolo) pensiero è stato il nostro primo lavoro: “La morte tifa Barbie” con il quale in vari mesi abbiamo attraversato l’Italia venendo a contatto con i pubblici più disparati, con esigenze e modalità di relazione differenti ogni volta. Ci ha fatto capire quanta potesse essere la gioia di “conquistare” realmente un pubblico di non addetti ai lavori, di gente che per caso passava da quella via o da quella piazza e rimaneva incantata solo per un momento o per tutto lo spettacolo. Il pubblico di bambini che di solito s’illude e si meraviglia di gran lunga di più del pubblico adulto ci ha fatto capire che, per noi, l’obiettivo primario è aprire uno squarcio dove la realtà possa per un poco non esistere più. Un processo in qualche modo catartico.
Sia Homologia (segnalazione speciale Premio Scenario 2015 ndR) da “Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra” di Daniel Miller, sia Elogio dei manichini dall’omonimo racconto di Bruno Shulz, si basano inizialmente su un dato letterario: in che modo declinate la parola attraverso l’utilizzo delle tecniche e degli elementi performativi del teatro di figura?
Testi non teatrali ci hanno aiutato a ricercare una poetica, esigendo da noi una grande attenzione nella creazione di un linguaggio personale. I materiali di partenza che per ora abbiamo toccato hanno intercettato quasi naturalmente immagini, atmosfere, esigenze ed emozioni che stavano dentro di noi prima del teatro, come persone, e che avevamo l’urgenza di raccontare. Per adesso approcciarsi ad un testo non teatrale è stato come gettare un’ancora: iniziamo le prove e attraverso improvvisazioni riusciamo a vedere fin dove le cose possono spingersi, cercando di tenere sempre ben saldi i punti di partenza. Ma arriva un momento in cui ci perdiamo, ed è allora che torniamo al testo, rielaboriamo ciò che abbiamo fatto e spesso troviamo risposte o altre domande.
In Victor quali sono le tematiche che avete affrontato a partire da “Frankenstein” di Mary Shelley? Come si è strutturato il lavoro di ideazione e creazione dello spettacolo?
Partiamo dalle immagini e dalle atmosfere che sentiamo vicine e dalle emozioni e dalle visioni che scaturiscono dalla lettura. Abbiamo cercato di attraversare degli stati emotivi attraverso un lavoro di improvvisazione. Improvvisazioni che venivano sempre piú “guidate” nel senso che mettevano in campo oggetti e immagini che ci parlavano e che quindi erano per noi irrinunciabili. Siamo partiti riflettendo sulla parola “creazione”. Ci siamo interrogati su che cosa significasse per noi creare e come spesso in noi e tra di noi si creino dei “mostri” che non avremmo mai desiderato creare. Come spesso rinchiudersi nella nostra passione ci faccia allontanare dagli affetti del presente. Siamo arrivati a immaginare il paradosso di rinchiudersi in una stanza per creare la maschera del volto di una nonna che però è nell’altra stanza, ancora viva, che aspetta che tu esca da lì per abbracciarti. Abbiamo pensato tanto alla mancanza.
Ci sono persone che ci mancano terribilmente e che cerchiamo in tutti i modi di tenere legate a noi e persone di cui cerchiamo di colmare la mancanza in tutti i modi. Abbiamo pensato all’abbandono, che fa piangere tutti. Non accettare la fine. Voler ridare vita e anima a tutto. Abbiamo tentato di dipingere il ritratto dell’interiorità di Victor. Ci siamo lasciati guidare dalle immagini, dalle visioni e dalla musica. Ci ha colpito molto il rapporto tra Victor ed Elizabeth, sorella e amante. Il rapporto con la sua creatura. Il rapporto con la famiglia, con gli amici, con tutti gli affetti che lui abbandona dopo la morte della madre. Gli incubi, la paura che diventa malattia. La solitudine di cui ci si libererà, forse, in un’altra vita.
Quali saranno i progetti che vi vedono protagonisti nel prossimo futuro?
Siamo entrambi amanti dei libri illustrati, quindi forse sarà questo il prossimo materiale di partenza. Sentiamo pulsare sempre di più il desiderio di lavorare con la musica, un compositore, degli strumentisti. C’è da un po’ l’idea di creare uno spettacolo concerto…
Uno dei grandi sogni che abbiamo nel cassetto è quello di riuscire a rendere questo lavoro sostenibile. E questo, nel periodo in cui viviamo, è forse una delle più grandi sfide che possiamo porci.
Che impressioni ed emozioni riportate a casa dall’esperienza di Direction Under 30?
Portiamo a casa delle osservazioni e delle critiche meravigliose, uno scambio reale con il pubblico e con le altre compagnie, degli sguardi e delle parole preziose che ci danno molta forza per andare avanti a lavorare.
da Edoardo Borzi | 29 Set 2021 | Approfondimenti
Direction Under 30 Mutuo Soccorso Teatrale
Organizzato da Associazione Teatro Sociale di Gualtieri e Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, Direction Under 30 è il primo progetto interamente dedicato alla scena teatrale nazionale under 30, rivolto a compagnie con finalità professionali la cui media delle età di tutti i componenti, inclusi i ruoli di regia, scenografia, drammaturgia, disegno luci, sia inferiore a 31 anni. Il bando, consultabile sulla Community di Theatron 2.0, per le compagnie scadrà il 27 Maggio; si può operare la procedura iscrizione online attraverso il bando dedicato. Fra tutte le candidature, saranno selezionati 6 spettacoli finalisti che andranno in scena al Teatro Sociale di Gualtieri il 20, 21 e 22 luglio 2018 e concorreranno per i premi delle Giurie unite e della Giuria Critica.
Tre giorni di teatro, in cui la passione comune per le arti performative si declina in collaborazione e condivisione attraverso momenti collettivi di dibattito fra l’organizzazione, gli artisti e i ragazzi e le ragazze delle Giurie (popolare e critica) under 30 a cui verranno affidati i processi di direzione artistica, critica e di premiazione in una sorta di meccanismo di “mutuo soccorso teatrale”.
Non ci sono requisiti particolari per far parte della Giuria Popolare: se sei appassionato di teatro e hai al massimo 30 anni puoi iscriverti. La procedura d’iscrizione sarà prossimamente online sul sito del Teatro Sociale di Gualtieri. Così come quella per iscriversi alla Giuria Critica per cui occorre avere una collaborazione attiva in ambito teatrale con un giornale, rivista, fanzine o blog riconosciuti e, naturalmente, avere al massimo 30 anni.
Il progetto prevede anche piattaforma culturale e luogo di relazione per crescere come giovani spettatori attivi. Un ciclo di incontri di formazione gratuiti a cura di Altre Velocità, con la presenza di ospiti – Marco Baliani l’11 di maggio e Marta Dalla Via il 18 maggio – in dialogo aperto con i partecipanti, accompagna le Giurie di giovani nel processo di selezione e premiazione degli spettacoli candidati.
Intervistiamo il coordinatore del progetto Andrea Acerbi con cui tiriamo le somme dei primi quattro anni di questo Festival – esempio virtuoso sui generis – all’insegna del mutuo soccorso teatrale under 30.
L’Associazione Teatro Sociale di Gualtieri è un’Associazione di Promozione Sociale senza scopo di lucro, nata l’11 marzo del 2009 per riaprire al pubblico il Teatro Sociale di Gualtieri, costruirvi un progetto artistico e culturale e promuoverne la progressiva rifunzionalizzazione degli spazi. Come è nata l’Associazione? che ricordi hai di quel periodo?
Andrea Acerbi – Direction Under 30
In quegli anni, sia io che i miei compagni facevamo teatro. Io a Reggio Emilia. Riccardo, Rita, Davide e gli altri organizzavano spettacoli e iniziative nella “bassa” reggiana. È stato così che ci siamo incontrati le prime volte. In seguito, una persona cara che sapeva di questa passione ha voluto mostrare loro uno spazio abbandonato, un teatro chiuso da circa 30 anni che occupa l’ala nord del seicentesco Palazzo Bentivoglio a Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. Una volta entrati dentro sono rimasti a bocca aperta, non sono più voluti uscire!
Il teatro era (ed è tutt’ora) uno spazio meraviglioso, con un’atmosfera unica. È difficile raccontare a parole l’impatto e le emozioni che questo spazio è capace di suscitare. Lo spazio era decisamente compromesso dall’abbandono e dall’interruzione forzata dei lavori di consolidamento e ristrutturazione iniziati alla fine degli anni 70 (che avevano visto, tra le altre cose, la demolizione del palcoscenico). Occorreva rimboccarsi le maniche per far tornare in vita questo spazio, un sogno complesso da tradurre in realtà. Oggi con grande soddisfazione si può dire che ci siamo riusciti.
Il primo evento organizzato aveva l’obiettivo di risvegliare l’attenzione della cittadinanza verso il teatro: una finta asta pubblica di vendita, una provocazione che ha funzionato. Per il paese sono stati affissi manifesti che titolavano che il 27 luglio 2006 si sarebbe svolta la vendita del Teatro Sociale di Gualtieri. Quel giorno sono entrate in teatro circa 300 persone incredule e curiose. Ad attenderle, insieme al presunto battitore d’asta arrivato da Milano, c’eravamo noi che dai palchetti davamo voce alle “arti” (letteratura, musica, poesia, etc…) in forma di spettacolo, recitando testi e suonando brani, inscenando insomma la ribellione del teatro alla sua vendita. Il pubblico era chiamato a scegliere, simbolicamente con una pistola, se sparare alle arti e consegnare il teatro al miglior offerente o se sparare al battitore per ridare slancio alla vita sociale e artistica del teatro. Quel giorno è stata decretata formalmente la rinascita del Teatro Sociale di Gualtieri. Ma c’era molto lavoro da fare per raggiungere il primo obiettivo che si stava immaginando: riaprire al pubblico il Teatro Sociale di Gualtieri e organizzare la prima nuova stagione di spettacolo dal vivo.
Sono stati anni intensi, vissuti in particolare dal nucleo dei fondatori dell’Associazione Teatro Sociale di Gualtieri, che si è costituito ufficialmente nel marzo del 2009. Sono tante le cose che abbiamo dovuto fare, fra le quali tutte le predisposizioni tecniche per utilizzare di nuovo la sala, un nuovo impianto elettrico funzionale agli spettacoli, la rimozione di tutti i detriti, la sistemazione della platea, la creazione di una postazione di regia nuova, etc… Per certo posso dire che da subito è stata chiara la volontà di mantenere lo spazio senza il palcoscenico, così come l’avevamo trovato, con l’idea di un teatro rovesciato e flessibile, con la platea in continuità con il palcoscenico seppur ribaltati. (Infatti l’ubicazione attuale della platea regala una prospettiva ribaltata, giacché dove in origine vi era la platea ora vi è il palcoscenico con i palchetti a fare da fondale fisso, viceversa l’arco a tutto sesto che in origine era posto sopra il palco ora sormonta le teste del pubblico ndR).
Il 6 giugno 2009 è iniziata la prima stagione della seconda vita del Teatro Sociale di Gualtieri, con il concerto dei Violini di Santa Vittoria. Una settimana dopo, ad inaugurare la programmazione di prosa è arrivato a Gualtieri il Teatro del Carretto con il suo Pinocchio. Lo spettacolo è stato bellissimo, il teatro respirava di nuovo, quella sera è stata davvero emozionante.
Quando è nata l’idea di Cantiere Aperto, attività comunitaria di collaborazione fra la cittadinanza e l’organizzazione per la restaurazione degli spazi del Teatro Sociale di Gualtieri? Come stanno procedendo i lavori?
Cantiere Aperto nasce un anno prima del terremoto dell’Emilia. Mancavano risorse per proseguire la seconda parte di stagione, la platea storica inoltre (nostro principale palcoscenico) era in pessimo stato, stava marcendo perché appoggiata direttamente su un fondo di terra e calcinacci.
Queste due congiunture, unite alla consapevolezza che il teatro ha bisogno di cure continue, ci hanno portato ad immaginare un progetto che, ispirandosi all’idea dei cantieri navali (“Teatro in rada. Cantiere Aperto!” è il titolo che abbiamo pensato), richiamasse in teatro per intraprendere lavori di ristrutturazione lo stesso pubblico che viene a vedere gli spettacoli e in generale tutta la cittadinanza.
La prima fase di Cantiere Aperto affiancava ai lavori anche letture e piccoli concerti a tema marinaresco. Ricordo uno splendido Giancarlo Ilari leggere Moby Dick mentre il teatro stava sottosopra. Cantiere Aperto aveva come primo obiettivo il restauro conservativo della platea storica. Ai lavori si sono unite moltissime persone, provenienti da tutta la provincia: serate comunitarie dove potersi spendere in prima persona per la tutela e la cura di un bene comune e dove incontrare amici, bere qualcosa insieme e perché no, anche mangiare un piatto di pasta al termine dei lavori.
Dal 2011 al 2013 (con una pausa forzata di circa 8 mesi dovuta alle conseguenze del terremoto del maggio 2012) è stato ripristinato totalmente tutto l’assito storico della platea e, con la bonifica dell’area dalla terra sottostante, sono state anche scoperte e ripulite le fondamenta e il pavimento del primo teatrino ligneo del XVIII secolo. L’inaugurazione della platea restaurata è stata fatta a maggio 2013 insieme a tutti i lavoratori che si sono uniti a noi. Da lì in avanti abbiamo continuato il progetto andando a sanare, rifunzionalizzare e restaurare altri spazi e attrezzature del teatro, sempre invitando il pubblico a partecipare a queste serate. Sul nostro sito alla pagina del progetto c’è il blog che racconta per immagini l’avanzamento dei lavori.
Con Cantiere Aperto siamo arrivati fino alla scorsa Biennale di Architettura di Venezia, selezionati insieme ad altri 20 progetti dal team curatore del Padiglione Italiano, nell’ambito della mostra “Taking care: progettare per il bene comune”. Una grande soddisfazione condivisa con tutti gli attori che hanno partecipato a Cantiere Aperto, alcuni dei quali sono venuti insieme a noi all’inaugurazione.
Direction Under 30 e l’idea rivoluzionaria del Mutuo Soccorso Teatrale
Innanzitutto ci tengo a dire che il bando 2018 per le compagnie è aperto fino al 27 maggio e che rappresenta una preziosa occasione. Faccio un invito a partecipare!
I premi sono importanti: il Premio delle Giurie è di 4000 € netti; il Premio della Critica è una replica a cachet fisso nel cartellone di Festival Aperto 2018 della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, sul palco del Teatro Cavallerizza.
A partire dal 2013/2014 ci siamo resi conti di aver raggiunto una condizione che in qualche modo ci permetteva di respirare dopo i primi anni, sia dal punto di vista economico che dal punto di vista artistico. Eravamo un po’ più stabili, qualche radice aveva attecchito, potevamo tirare fuori la testa da sott’acqua e guardare cosa avevamo fatto e cosa volevamo fare. Ci siamo anche resi conto di quanta fatica, quanti sacrifici e quante lotte abbiamo dovuto affrontare per raggiungere un minimo di solidità, per poter essere ascoltati e riconosciuti. In alcuni momenti ci è sembrato che fosse il dato generazionale a precluderci il traguardo della stabilità e del riconoscimento della nostra professione: eravamo dei ragazzini, avevamo una passione, potevamo lavorare gratis, sembravano dirci a volte i più grandi.
In relazione a questa condizione più o meno raggiunta, alle riflessioni sul nostro percorso e immaginando che anche le compagnie professionali emergenti si potessero trovare ad affrontare problemi simili ai nostri, ad un certo punto abbiamo inventato un progetto teatrale sviluppato in base a logiche alternative a quelle consuete, che si potrebbero riassumere fondamentalmente in tre elementi: due premi di una certa consistenza, “cavati” direttamente dal nostro budget, per sostenere e promuovere il lavoro dei giovani artisti. Nessun costo d’iscrizione e anzi, al contrario, il tentativo di sostenere il più possibile le spese dei partecipanti; il giudizio rispetto ai vincitori affidato a coetanei – il “mutuo soccorso teatrale” per l’appunto.
Direction Under 30 vuole sperimentare una modalità più orizzontale, nella quale i processi di direzione artistica, selezione e premiazione vengono ricondotti nello stesso alveo generazionale dei “sottoposti a giudizio”. Sono quattro i soggetti coinvolti nel progetto: le compagnie in concorso; la Giuria di Selezione che nomina gli spettacoli finalisti, la Giuria Popolare e la Giuria Critica che nominano i due vincitori dei premi. Tutti quanti sono invitati a partecipare attraverso l’iscrizione alle relative chiamate. Tutti quanti sono coetanei.
La prima edizione è del 2014. Dall’anno successivo abbiamo condiviso il progetto con la Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, che tutt’ora lo organizza insieme a noi, accrescendone prestigio e visibilità. Il progetto inoltre, anche grazie alla partnership con la Fondazione, ha avuto nelle ultime due edizioni uno sviluppo importante nella sua parte di formazione del pubblico, dividendosi sostanzialmente in due momenti: una prima fase a Reggio Emilia per la Giuria di Selezione, caratterizzata da un ciclo di incontri di educazione allo sguardo aventi l’obiettivo di qualificare la selezione degli spettacoli finalisti; una seconda fase, centrale al progetto, che consiste nella messa in scena degli spettacoli finalisti nel programma del festival nazionale del Teatro Sociale di Gualtieri e che vede attive Giuria Popolare e Giuria Critica, le quali attraverso dibattiti e riflessioni collettive arrivano a nominare le compagnie vincitrici del Premio delle Giurie e del Premio della Critica.
Il progetto si conclude poi a Reggio Emilia, solitamente nel mese di ottobre, con la replica dello spettacolo vincitore del Premio della Critica nella cornice di Festival Aperto della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia. La cura degli appuntamenti di formazione di Direction Under 30 viene affidata ogni anno a soggetti operanti in tale campo di riconosciuta professionalità e competenza. Nel 2017 abbiamo lavorato insieme a Simone Nebbia di Teatro e Critica, con ottimi risultati. Quest’anno abbiamo affidato la formazione ad Altre Velocità e sarà Lorenzo Donati ad accompagnare i ragazzi nel percorso.
Mi preme dire anche della bella atmosfera che si crea durante Direction Under 30, in particolare nella sua fase centrale a Gualtieri: i momenti di dibattito organizzati in modo informale; le cene tutti insieme; il dialogo continuo con gli ospiti; le amicizie nuove e le ore piccole. Un’atmosfera che ha un valore importante, capace di contagiare anche il paese, un’atmosfera coinvolgente e stimolante.
In questi anni di festival c’è stato anche un importante riscontro artistico: mi riferisco a tutti quei teatranti under 30 che hanno attraversato il Teatro Sociale. quali sono gli spettacoli e le compagnie delle scorse edizioni che ti hanno colpito maggiormente?
In tutte le edizioni ci sono stati spettacoli di alto livello proposti da artisti di ottime prospettive, provenienti da ogni parte di Italia. Come nomi, fra gli altri, mi vengono in mente: FrigoProduzioni che pur non avendo vinto ci ha molto colpito con lo spettacolo “Socialmente”; poi Vico Quarto Mazzini che ha partecipato a due edizioni e vinto il Premio delle Giurie nel 2015 con “Amleto Fx”; Vucciria Teatro che ha vinto il Premio della Critica nel 2014 con “Io, mai niente con nessuno avevo fatto” e Ortika che lo stesso anno con “Chi ama brucia – Discorsi al limite della Frontiera” vinse il Premio delle Giurie. Senza dubbio penso a DispensaBarzotti, il cui lavoro mi piace molto: sono stati finalisti nel 2016 con “Homologia” e hanno vinto il Premio delle Giurie con “Victor” nel 2017, Anonima Sette che sempre nel 2017 ha vinto il Premio della Critica con “B/Ride”. E poi Domesticalchimia, Bahamut, Malabranca Teatro… A tutti quanti vanno i miei auguri per un futuro di soddifazioni e spero che Direction Under 30 rappresenti uno snodo importante nei loro percorsi.
Marco Baliani – Direction Under 30 Mutuo Soccorso Teatrale
Quali sono le novità di questa quinta edizione di Direction Under 30?
La quinta edizione di Direction Under 30 manterrà ancora una volta l’ossatura principale invariata. Un bando di concorso per compagnie under 30 e una direzione artistica interamente affidata a giovani under 30. La principale novità riguarda il percorso di formazione per la Giuria di Selezione: abbiamo impostato 6 appuntamenti fra aprile e maggio, due in più dell’anno scorso. Così facendo riusciamo a incontrare 3 ospiti mantenendo comunque consistente la parte più didattica del percorso, che abbiamo impostato insieme a Lorenzo Donati: sarà orientata a partire da riflessioni generali sull’essere spettatore; si indagheranno poi alcuni temi propri del mondo del teatro; infine verranno dati strumenti di visione di spettacoli in vista della selezione degli spettacoli finalisti.
Come ospiti avremo Marco Baliani l’11 di maggio e Marta Dalla Via il 18 maggio. Sono molto contento della disponibilità di Marco Baliani, lui è stato ideatore del Premio Scenario e potrà raccontarci cose preziose anche in relazione a questo, oltre che alla sua carriera personale. Marta è un’amica, con la sua compagnia Fratelli Dalla Via è stata a Gualtieri più volte e sono sicuro che sarà entusiasmante l’incontro che faremo insieme. Il primo appuntamento (che si è svolto il 20 aprile) abbiamo conversato con Paolo Cantù, nuovo direttore artistico e generale della Fondazione I Teatri di Reggio. Paolo, oltre ad essere giovane e su lunghezze d’onda vicine alla generazione dei partecipanti al progetto, è una persona molto disponibile e molto competente. Siamo molto contenti sia approdato al timone della Fondazione.
Altra novità dell’edizione 2018 che ci tengo a dire è la conferma e il rinnovo delle collaborazioni con l’Università di Parma – Dipartimento di Discipline Umanisitiche, Sociali e delle Imprese Culturali e con l’Università di Modena e Reggio Emilia – Dipartimenti di Studi Linguistici e Culturali. Anche il festival Tutti Matti per Colorno da quest’anno è partner di Direction Under 30.
Da quest’anno Direction Under 30 entra a far parte di un progetto sperimentale di rete composto dalle direzioni artistiche Under 30 d’Italia. Il Network nasce dalla collaborazione tra il Festival Dominio Pubblico_La Città agli Under 25 di Roma, Festival 20 30 di Bologna e Direction Under 30. Quali sono state le dinamiche associative e quali saranno i futuri percorsi comuni?
L’anno scorso ci sono stati una serie di incontri preliminari rispetto a questa idea di network, che coinvolge Dominio Pubblico di Roma, Festival 20 30 di Bologna e il nostro Direction Under 30. Tiziano Panici è il primo animatore di questa rete e gli sono grato per il lavoro che fa e per le relazioni e i contatti che è capace di mettere insieme con energia. Insieme abbiamo provato a definire alcune linee guida comuni ed eventualmente alcuni passaggi operativi più concreti, come ad esempio la possibilità di far incontrare i partecipanti dei vari progetti nel contesto di uno o più appuntamenti di spettacolo dal vivo.
In generale si può dire che tutti e tre i progetti lavorano per conseguire obiettivi simili, pur mantenendo identità e dinamiche differenti. All’interno di queste dinamiche stiamo cercando di trovare punti di convergenza su cui lavorare e momenti di riunione attraverso i quali fare e scambiare esperienze. Il network intende ovviamente valorizzare i singoli soggetti che aderiscono ed è aperto alla partecipazione di altri progetti che abbiano caratteristiche simili.
da Roberto Stagliano | 16 Gen 2019 | Interviste
Abbiamo incontrato Roberto Di Maio del Collettivo Crib, al termine della seconda replica di U – Storia di una identità fluida. La sala vuota e illuminata di Carrozzerie n.o.t. rivela la profondità di quello spazio, dove sembra regnare il silenzio dell’universo. Interrotto soltanto da qualcuno che apre occasionalmente la porta d’ingresso e che concede al vociare esterno di insinuarsi, per brevi istanti, come interferenze in un racconto.
Tre sono state le date: 10, 11 e 12 gennaio, tre sold out per quello che è il primo lavoro di un giovane gruppo, il Collettivo costituito da Beatrice Fedi, Roberto Di Maio e Carolina Ciuti. La data di nascita è il 2017, il luogo sia del concepimento che del parto è metafisico. Scopriremo durante l’intervista che si tratterà di due telefonate importanti, una triangolazione perfettamente riuscita tra Polverigi, Roma e Barcellona.
Il Teatro Sociale di Gualtieri, comune della provincia di Reggio Emilia, dove si svolge il concorso-progetto Direction Under 30, è il letto sicuro e felice dove si è irrobustita l’idea di U- storia di una identità fluida, fino al meritato riconoscimento del premio della critica. La parola inglese Crib significa proprio culla.
Quello che manca è un dato presente in ogni carta d’identità. Il sesso. Una lettera alternativa e diversa tra le due scelte istituzionalizzate. Né M (maschile), né F (femminile), ma U – undetermined. Quel simbolo è stato realmente stampato sulla tessera sanitaria di Searyl Doty bambin* nat* in Canada e ciò è un fatto di cronaca che ha catturato l’attenzione di Roberto Di Maio ancor prima di dare origine a tutto quello che è avvenuto dopo. L’intervista con lui è stata l’occasione per parlare di esperienze personali, dei miti classici, della società e dell’impatto tecnologico.
Che tipo di bambino sei stato?
Diciamo che io sono stato un bambino volgarmente “normale”, senza grossi problemi, soprattutto legati all’identità sessuale e al mio corpo. Sicuramente siamo tre cisgender, cioè ci riconosciamo nel corpo biologico in cui siamo nati, tutti e tre, a livello di scelte sessuali, abbiamo sicuramente sfondato la monovisione eterosessuale. Io personalmente ad esempio ho avuto delle esperienze del genere, di scoperta, da bambino e posso dire la stessa cosa anche per gli altri, per cui sicuramente da questo punto di vista ci ritroviamo. Penso che quello attuale sia fondamentalmente un periodo diverso dal nostro, nel senso che, per quanto non siamo sessantenni, quando eravamo bambini noi, 20-25 anni fa, la possibilità di poter affrontare una cosa del genere non c’era perchè non era nell’ottica di nessuno; né dei nostri genitori, né tantomeno dei nostri amici.
Adesso è completamente diverso. Ad esempio. noi siamo stati in contatto con una mamma italiana che ha il figlio gender fluid, per cui un giorno si sente maschio e il giorno dopo femmina. A volte, anche nella stessa giornata, torna a casa, si cambia e si veste da bambina. La donna è stata costretta ad andare a vivere in Spagna perché l’Italia non appoggia una cosa del genere, in questo senso penso che andiamo sempre peggio.Il fatto però che ci sia una possibilità del genere in un altro paese, è una cosa che vent’anni fa non sarebbe stata possibile. Diciamo che abbiamo vissuto, usando una parola volgare, una normalità imposta, come se fosse l’unica strada da poter percorrere.
Parlando di “U”, il lavoro di ricerca è stato lungo?
Abbiamo fatto un lavoro di ricerca lungo quasi un anno, iniziando nel maggio del 2017 e facendo una ricerca storico-scientifica, etimologica, sulle immagini, che è la caratteristica della drammaturgia dello spettacolo. Il risultato è stato volutamente portato in scena in questo modo. Abbiamo affrontato la tematica da cisgender, tendenzialmente eterosessuali se proprio uno deve fare delle classificazione del genere. Ci siamo resi conto anche di non conoscere per esempio la parola cisgender, l’abbiamo scoperta durante il percorso e alla fine ci siamo chiesti come o che cosa quel termine potesse cambiarci. Fondamentalmente niente e, a maggior ragione, abbiamo trovato ancora più inutile una simile classificazione.
Per cui il percorso è stato lungo, abbiamo studiato tantissimo, abbiamo scoperto molte cose in più durante il percorso ci siamo anche resi conto di avere idee diverse. Anche lo stesso fatto di cronaca di Searyl Doty era un argomento talmente grande che nelle sfumature non ci trovava d’accordo, quindi, molte volte abbiamo discusso. Non è stata solo una ricerca storico-etimologica ma anche un’analisi etica.
Molte volte ci siamo ritrovati a litigare e questo è stato un altro passo fondamentale perché ci siamo resi conto che volevano lasciare aperte delle porte, non volevamo dare delle risposte. Più che altro volevamo porre delle domande, come quelle che abbiamo fatto a noi stessi, a cui non abbiamo trovato una risposta.
Come collettivo siete giovani, se dovessi identificare alcune fondamentali tappe, individuali, personali, ma anche di gruppo, quali selezioneresti?
Sicuramente c’è stato un momento preciso. Beatrice stava facendo un laboratorio con la compagnia catalana El Conde De Torrefiel, in teatro a Polverigi, Ancona. Le avevano chiesto di fare una performance individuale e lei mi telefonò chiedendomi consigli. Proprio quel giorno avevo letto di quel fatto di cronaca, gliene parlai e lei mi rispose che era perfetto. Anche perché Bea aveva sempre interpretato, come lei dice nello spettacolo, ruoli maschili perché nel teatro un’attrice bassina di statura, con i capelli corti, era perfetta per fare quello, per cui aveva già vissuto un lavoro di trasformazione artistica molto corrispondente con quell’argomento. Quella telefonata è stata sicuramente l’origine del nostro progetto.
Un altro momento penso sia stato quello in cui, per mia volontà abbiamo chiamato Carolina che è la direttrice artistica di un festival di videoarte a Barcellona, dove vive. Carolina è sempre stata una curatrice d’arte, le abbiamo chiesto di mettersi in gioco e in campo con noi per cui diciamo che si può dire che il Collettivo Crib si fonda su due telefonate fondamentali. Per quanto riguarda me, devo molto al mio precedente Collettivo, che ho fondato parecchi anni fa e che aveva già uno stampo molto multimediale con videomapping. Sono sicuramente cresciuto e quello attuale è comunque uno sviluppo del mio percorso personale
Tra le componenti di U ci sono l’elemento della fisicità, lo spazio del dubbio e l’ironia. È così?
I tre cardini di questo progetto sono il corpo, l’immagine e il cambiamento, l’evoluzione. Si parla di identità di genere perché cisgender e transgender indicano il riconoscersi o meno nel proprio corpo.
Noi abbiamo tradotto questo, quanto più possibile, in qualcosa che non arrivasse alla danza, qualcosa che però uscendo dal quotidiano, diventasse astrazione. Un superamento del gesticolare come la partitura finale del monologo. Una liberazione, come quella della Vogue dance, una danza nata a New York nelle carceri maschili e che prese piede nel mondo omosessuale, negli anni ‘70.
L’immagine perché viviamo in un periodo in cui c’è un abuso enorme dell’immagine, però è un’immagine modificabile. Possiamo mettere 1000 filtri a Instagram, Snapchat, fare le facce buffe. Noi abbiamo scelto la Polaroid, lo sviluppo di un’istantanea, di un momento che non puoi cambiare più, dove l’attimo prima sei per forza un’altra cosa dell’attimo dopo e quindi sei un’ evoluzione. Non sei un essere preciso, non puoi esserlo, sei sempre in transizione e quella foto ne è la dimostrazione, per questo lo mettiamo in primo piano.
L’immagine video con la ripresa in primo piano. Quella di un video messaggio ad U da un mondo immaginario che abbiamo creato prendendo spunto dalla mitologia greca i cui personaggi hanno a che fare con l’identità di genere. Come Tiresia che era maschio è diventato femmina per 7 anni per capire quale orgasmo fosse migliore e successivamente venne fatto cieco. Ifi e Iante. Ifi nata femmina, sarebbe stata uccisa dal padre e allora la madre per salvarla decise di allevarla come un maschio. Afrodite, nata dalla schiuma di Urano, per cui è maschio e femmina, non è una cosa sola.
L’utilizzo dello zentai, uno spazio bianco che è la neutralità assoluta. L’immagine dell’ombelico che è l’unica cosa che può connotare l’unicità di una persona, più delle impronte digitali e del DNA. Si usa per riconoscere due gemelli omozigoti. Essendo artificiale, una cicatrice, non può essere uguale ad un altro. Infine è stata fondamentale,come dici tu, l’ironia, ma anche l’auto-ironia: questo ci tengo a specificarlo.
Il fatto di mettersi in discussione per primi. Creiamo un’installazione tecnica e subito dopo la smontiamo, prendendo in giro il concetto del microfono con gli effetti che “fa figo”. Viviamo in un periodo in cui nel Teatro ci sono tante classificazioni, anche se non sono determinanti per noi che siamo un collettivo molto ibrido. Il nostro obiettivo non è quello di riuscire a rientrare in una di queste. Ci hanno detto che la cosa che piace di più del nostro spettacolo è il suo spirito “trans”, nel senso di essere al di là di ogni cosa, in trasformazione. E l’ironia, per me, è stata fondamentale, sin da subito, insieme alla semplicità.
Lo spettacolo e il testo soprattutto poteva rischiare di essere arrogante, un po’ saccente, didattico. Nel senso “io so più di te, te lo spiego”. Per fortuna abbiamo Beatrice che è un “animale da palcoscenico”, nella sua semplicità e nella sua leggerezza. Abbiamo lavorato tanto su questa cosa proprio perché la nostra azione performativa vuole essere una condivisione e non ci vogliamo mettere in cattedra.
Diversi sono i luoghi e le scelte che avete effettuato per il vostro progetto: teatri, musei, spazi pubblici. Che tipo di interazione si è determinata con il pubblico, qual è stato il rapporto tra spazio/azione/reazione, interazione?
Essendo nati da poco ed essendo questo il nostro primo progetto per ora non abbiamo un grande curriculum. Posso dire però che è stato concepito per essere e per avere diverse forme di espressione e di comunicazione.
Parliamo di “gender fluid” e vogliamo che questa “fluidità” ce l’abbia anche come forma artistica. È nato per essere un progetto – chiamiamolo – teatrale, nel senso che è stato pensato per gli spazi teatrali però abbiamo già fatto una performance al museo in Trastevere di Roma per Musei e Musica e, nello stesso contesto, abbiamo creato una prima bozza di installazione. Una nostra idea è quella di far diventare U anche un progetto che possa vivere non performativamente, cioè una installazione video che viva di vita propria. Vogliamo che l’unione tra Beatrice, Carolina e me, tra i nostri mondi e le nostre esperienze, sia il motore portante del Collettivo. Può diventare anche un concerto installativo, le musiche per esempio sono originali e quindi abbiamo pensato a questa possibilità.
È diventato anche una performance di videomapping site-specific, abbiamo mappato tutto il museo in Trastevere e Beatrice danzava all’interno delle registrazioni, delle scritte con le opinioni degli altri. Abbiamo fatto l’installazione su un manichino, facendo videomapping su di esso. Diciamo che l’impronta del Collettivo è questa, l’idea di una indeterminatezza di base nella drammaturgia.
Le musiche sono di Claudio Cotugno musicista e anche attore, con cui collaboro da anni, che già faceva parte il mio collettivo precedente. Insieme abbiamo realizzato un progetto di musica elettronica, di concerti e installazioni.
Lui è l’autore delle musiche, di tutto quello che si ascolta, tranne quella citazione di pochi secondi di “Eye of the tiger” e il Valzer di Pina Bausch. Tutte le altre musiche sono originali. Un’altra collaborazione è stata quella con Francesco La Mantia che è l’autore della melodia delle video interviste dei video messaggi.
Partendo dall’idea di viaggio, dalla metafora di un viaggio in traghetto con tanto di biglietto si arriva all’elaborazione di un concetto: “siamo tutti esseri in transizione”. La libertà è ibridazione o piuttosto è l’universalmente immutabile amore?
Più che ibridazione, la libertà è l’amore, soprattutto nei confronti dell’ unicità. Noi viviamo in un periodo in cui, ad esempio, il diverso da noi è violentato dal nostro odio. “Nostro” inteso come contesto della nostra società, viviamo in un periodo gravissimo da questo punto di vista, in cui non si può, è difficile uscire fuori da questi schemi determinati, la “famiglia tradizionale” ad esempio. Io penso che invece debba esserci il desiderio di amare l’unicità dell’altro e per questo abbiamo inserito le immagini dell’ombelico.
L’ibridazione non credo che sia la risposta esatta. Ricollegandomi allo spettacolo penso alla scena dello zentai bianco, un simbolo che rappresenta l’annullamento dell’identità, funzionale per creare qualunque cosa. Quella scena crea volutamente un po’ di ansia, anche grazie alle musiche. Noi citiamo sempre il Grado Zero della forma. Il bianco che ci deve essere come una tela perfetta su cui ognuno di noi costruisce, dipinge la propria personalità e sia libero, in quanto bianco, neutro, di esprimere la propria personalità.
Dover scegliere il rosso e il verde per gli altri e quindi costringere gli altri a colorare la propria personalità, con un colore imposto, penso che sia la cosa più grave che l’essere umano possa fare ad un altro, in quanto suo simile.
Se siamo degli animali sociali vuol dire sviluppare l’istinto, amare l’altro come noi stessi. Potrebbe sembrare una visione cattolica, ma è una cosa straordinaria amare l’altro in quanto unico e irripetibile proprio perché la sua unicità non può essere mai uguale alla tua. Questo può solo farci crescere perché ci regala un’esperienza che noi non abbiamo. Rimanendo nei limiti della non-violenza, penso che ognuno possa fare ed essere ciò che vuole e ciò è un arricchimento per la società intera. per cui diciamo il bianco in quanto insieme di tutti i colori.
Premio della critica “Direction under 30” al Teatro Sociale di Gualtieri: quali sono le emozioni e i ricordi di quel momento?
Si è trattato di un momento assolutamente fondamentale, quella è stata una mezza follia a dire la verità. Era il periodo in cui eravamo in totale creazione, avevamo vinto dei bandi di residenza, avevamo studiato molto, ma non avevamo ancora idea dello spettacolo, né di quale potesse essere Il nostro linguaggio, la nostra forma scenica. Avevamo partecipato, tra gli altri, anche a quel bando perché prevedevano progetti in divenire e perché l’organizzazione era interessata al nostro progetto. Ci avevano chiesto un video, ne rimontai uno delle prove e, a venti giorni dalle date del Festival, siamo stati selezionati.
Quella è stata una prima vera e propria, cioè il pubblico lo ha visto insieme a noi. Non ci aspettavamo niente, nello stesso tempo però eravamo molto ottimisti. Sarà che il Collettivo ci rappresenta molto, in questo progetto ci crediamo tanto ed è una parte di noi. Il livello delle altre compagnie era altissimo gli spettacoli erano molto belli e quello ha generato un po’ di preoccupazione. Abbiamo notato che c’era molto interesse nei nostri confronti, la giuria era molto curiosa. Il premio della critica ci ha dato la possibilità di andare in scena e partecipare al festival Aperto di Reggio Emilia, con nomi come Alain Platel, il Collettivo CineticO. Il solo pensiero ci faceva venire i brividi.
Andare lì, nati da poco e con un pubblico di 20-25 persone al seguito e ritrovarsi un teatro di 200 posti pieno è stata un’emozione incredibile. È stata la conferma assoluta che tutto quello che stavamo facendo aveva un senso, non era solo una nostra sensazione. Avere un riscontro con il pubblico di tecnici, di giurie e di non addetti ai lavori per noi è stato un motivo per andare avanti.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.