Appuntamento al Teatro India con ALLEZENFANTS!
Redattore
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Giunto alla sedicesima edizione, l’audace festival romano dei linguaggi contemporanei Short Theatre è pronto a un cambio di pelle. Il passaggio del testimone alla direzione artistica si è concretizzato in una curatela condivisa tra la direttrice uscente Francesca Corona e quella futura Piersandra Di Matteo, connotando l’appuntamento come un momento di passaggio ma anche come una summa di quanto proposto negli ultimi anni.
Abbiamo intervistato Di Matteo durante le giornate conclusive del festival per misurare la temperatura di quanto vissuto in questa fine d’estate 2021 e per cogliere qualche intuizione per le stagioni a venire.
È una frase pronunciata senza un verbo, con una parola che apre a una moltitudine di significati. Lo intendo come un tentativo di spostare l’attenzione sulla dimensione dell’ascolto, un’ecologia della risonanza. Pensiamo al festival come a uno spazio vibrazionale in cui i corpi si rinviano reciprocamente, questo comprende tanto i corpi di chi performa quanto quelli del pubblico, le superfici urbane e gli ambienti che abbiamo attraversato: WeGil, Pelanda, Teatro India.
Ci è sembrato importante intrecciare questa connessione con la città lavorando per echi, rimandi fantasmatici, sommovimenti tellurici. L’ascolto è uno spazio in cui poter rivendicare qualcosa dal punto di vista politico, perché anche in quella dimensione possono attivarsi forme di agonismo, è un campo elastico e dinamico che può anche interdire e ostruire l’ascolto di altre voci.
Sin da giovanissima ho sentito l’urgenza di essere a contatto con i linguaggi più innovativi attraverso un’attitudine teorica, di studio e di ricerca, ma anche con una conoscenza molto pratica e operativa di cosa significa stare in scena e di che cos’è una drammaturgia. In quest’ultimo caso mi riferisco in particolare alla grande palestra che ha rappresentato per me il lavoro con Romeo Castellucci e il mondo operistico, quindi con grandi macchine di produzione che però permettono di vedere con chiarezza quali sono le necessità.
Le due dimensioni interconnesse, la teoria e la pratica della scena, sono quindi ciò che porto con me in un festival come Short Theatre, che in questi anni è stato un bacino importante per rilanciare i nuovi linguaggi che avrebbero avuto difficoltà ad arrivare in Italia. Inoltre il lavoro curatoriale che ho svolto negli ultimi anni per il Teatro Nazionale ERT ovvero Atlas of transitions biennale, un progetto che metteva in relazione arte, migrazione e cittadinanze, mi ha permesso di approfondire questo nesso importante. Ci siamo messe in contatto con una serie di associazioni diffuse nella città, come Matemù, Lucha y Siesta, Asinitas, Carrozzerie n.o.t, per immaginare insieme ad alcuni artisti internazionali progetti che potessero creare delle forme di meticciato e di incontro indipendenti dagli spettacoli.
Sì, ci sono Chipaumire, Beugré, Menzo, Mussie, Piña e altre. Credo che il loro sguardo, la loro concezione del corpo e della presa di parola nello spazio pubblico sia in grado di mettere a problema il sistema collaudato del privilegio e della subalternità, ridisegnando i confini dell’immaginario e proponendo una critica nei confronti della neocolonialità. In particolare poi sono tutte donne che lavorano sulla rappresentazione del corpo femminile nero e su cosa significa portarlo in scena, con delle posture e delle possibilità di manifestazione impreviste.
Sicuramente è una città complessa e straordinariamente ricca sotto tutti i punti di vista, di informazioni, input e possibilità. È a questa Roma che mi piace rivolgere lo sguardo, ad una metropoli con un immaginario stratificato, che ha delle specificità a seconda dei quartieri in cui la vita urbana si definisce. Bisogna imparare a conoscerla giorno dopo giorno e nei mesi passati ho intensificato la mia conoscenza che pure avevo già. Poi credo comunque che oggi si possa lavorare artisticamente soltanto se si è in molti e se si è insieme, in una collettività.
C’è un continuum di intensità, WeGil convoca delle pulsioni molto chiare per la natura del luogo, abitare quell’edificio in stile fascista richiede ogni volta una strategia. Abbiamo inaugurato la rassegna con l’affacciarsi al balcone di Sofia Jernberg, un’altra artista afrodiscendente con un discorso tutto declinato vocalmente, lei è una cantante sperimentale che mescola il bel canto con la tradizione dell’Etiopia. Mi è sembrata una giusta accensione per questo festival. L’intensità si è andata poi snodando tra quelli che sono i momenti intercapedine ovvero ciò che accade tra le performance, tra gli spettatori, tra uno spettacolo e un talk, in quello spazio vibrazionale che costituisce la relazione.
Le idee arrivano in continuazione, ci sono delle linee di tensione che mi animano e questa edizione ne ha alcune tracce come il progetto ReciproCity, che vuole intrecciare un rapporto sempre più stretto tra i linguaggi della performance e la città. Mi interessa anche comprendere il nesso tra teatro e poesia, dopo tanti anni in cui la centralità è stata posta sul teatro di narrazione; infine lavorare su formati aperti, che da un punto di vista organizzativo sono più complessi, ma per me è molto importante creare situazioni in cui le persone siano coinvolte e possano condividere uno spazio e un tempo.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Abbiamo il piacere di ospitare in un’intervista esclusiva su Theatron 2.0 gli spunti e le riflessioni personali di Daniele Timpano ed Elvira Frosini protagonisti della retrospettiva “Ritratto d’Artista” recentemente conclusasi al Teatro India dove i due performer sono andati in scena con quattro degli spettacoli con cui sono saliti alla ribalta della scena romana e nazionale. A partire dall’ultima fatica Acqua di Colonia – già al debutto col botto nel novembre scorso presso il Teatro Quarticciolo per Roma Europa Festival – si sono poi succeduti in rapida sequenza ottenendo tutti sold-out: Aldo Morto, di e con Daniele Timpano, vincitore del Premio Rete Critica 2012 e del Premio Nico Garrone 2013 per il progetto Aldo morto 54 (54 giorni di repliche dello spettacolo e di auto-reclusione di Daniele Timpano in streaming in una cella ricostruita appositamente) Digerseltz, di e con Elvira Frosini e infine Zombitudine. Martedì 14 marzo ore 20.30 la Compagnia Frosini/Timpano sarà all’Institute Culturel Italien de Paris | Istituto italiano di cultura di Parigi con ZIBALDINO AFRICANO, la prima parte di Acqua di Colonia, all’interno di una serata con Carlo Lucarelli e Giulia Caminito tutta dedicata a “L’Africa degli italiani”, una partecipazione speciale allo spettacolo di Shelina Scaravelli.
Il 6 febbraio avete presentato presso la sala Squarzina del Teatro Argentina il libro tratto dallo spettacolo “Acqua di Colonia” edito da Cue Press. Come è nata l’idea di lavorare sul tema del colonialismo?
L’idea di lavorare sul colonialismo italiano nasce dal nostro interesse per il presente che viviamo ed il suo rapporto con la storia, o meglio i rimossi della storia e le sue stratificazioni. Come tutte le cose nasce anche da incontri, letture, discorsi, pensieri. In questo caso l’incontro con la scrittrice Igiaba Scego è stato importante: dopo aver letto il suo libro “Roma negata”, realizzato con Rino Bianchi. Da lì, da questa lettura, è venuto alla luce, diciamo che è emerso pienamente alla coscienza, il desiderio di scavare nelle tracce che il colonialismo ha lasciato nelle nostre città, nei nostri pensieri, nel nostro linguaggio. Ci siamo resi conto che eravamo tutti un prodotto del pensiero coloniale. E soprattutto ci siamo resi conto che tutto ciò, alla coscienza nostra, e di tutti, era nascosto, occultato, rimosso e mascherato.
Come si è strutturato il lavoro di costruzione drammaturgica fra materiale testuale e quello storiografico?
La costruzione drammaturgica è sempre un lavoro di raccolta, sovrapposizione, decantazione. Abbiamo studiato per due anni e raccolto appunti sui materiali più disparati. Materiale storiografico, canzoni, fumetti, immagini, pubblicità, letteratura, notizie, e non solo del periodo coloniale ma anche del dopoguerra e fino ad oggi. Da lì sono nati vari testi e ipotesi di strutture, sui quali poi abbiamo cominciato a ragionare, a scegliere, e poi a scrivere.
Nei vostri spettacoli è cruciale l’attenzione per la questione della memoria collettiva o per meglio dire, del rimosso storico. Quanto è presente l’eredità coloniale e razzista nel nostro retaggio culturale? Quali sono state le risposte che avete ricevuto dal pubblico durante questo periodo di rappresentazione in giro per l’Italia?
Beh, come dicevamo prima il pensiero coloniale e razzista è presente in noi sotto forma di qualcosa di scontato, di naturale. Quando apriamo la Settimana Enigmistica e troviamo le vignette con il selvaggio con l’anello al naso e l’osso tra i capelli lo troviamo naturale, lo stesso film campione di incassi di Checco Zalone, Quo vado, del 2016, si apre in un villaggio africano tra i selvaggi con tanto di lance e abiti tradizionali, mentre la pubblicità dei Biscotti Cà Cao della Divella ha per soggetto l’amore tra il padrone della piantagione, un bianco col cappello alla Indiana Jones circondato da sacchi di cacao, ed una schiavetta nera con tanto di fazzoletto in testa. Ma basta pensare alle semplici confezioni del Caffè. Non sono in molti a farci caso ma, da questo punto di vista, siamo costantemente circondati. Gli stessi classici della nostra letteratura, italiana ed europea, molti dei quali sono nati durante il periodo di massimo apice del dominio europeo sul 90 % del resto del mondo, sono impregnati di un atteggiamento paternalistico di superiorità, dove l’altro esiste comunque in funzione nostra, come forza lavoro o come merce, come ribelle da reprimere o come fedele vassallo da premiare, se non addirittura pensato come antropologicamente inferiore. E questo molto prima che uscisse il primo numera della rivista “La difesa della razza” nel 1938. Da piccoli, quando leggevamo per esempio Robinson Crusoe, nessuno di noi trovava niente di particolare o di esecrando nel fatto che il protagonista avesse una piantagione in Brasile e naufragasse per finire sulla famosa isola deserta proprio mentre stava trasportando un carico “di negri” da “vendere” a basso costo ai suo colleghi possidenti. Quando leggiamo “Mansfield park” di Jane Austen e ci appassioniamo a questo grande romanzo, anche d’amore, ambientato nell’Inghilterrra vittoriana, a stento registriamo il fatto che se uno dei personaggi del romanzo non fosse per tre quarti del romanzo assente, impegnato nelle sue piantagioni d’oltremare ad Antigua, il mondo stesso in cui abitano i personaggi, i loro piccoli problemi, gli abiti che indossano e la grande casa dove abitano non esisterebbero. Quando leggiamo i romanzi di Sandokan parteggiamo naturalmente per i pirati della Malesia contro i cattivi inglesi ma raramente pensiamo che in Libia, Eritrea, Somalia, Etiopia ci siamo comportati in maniera non dissimile dal Rajah bianco di Sarawak. Le reazioni degli spettatori finora sono state anche molto diverse. Spesso di sorpresa, per fatti e personaggi che non conoscevano, soprattutto per la scoperta di tutta una serie di cose che non mettevano in relazione con l’Africa e il colonialismo, a volte di fastidio, sempre di curiosità e di interesse. C’è anche qualche aneddoto commovente. Ne raccontiamo uno: quando abbiamo presentato il primissimo studio del lavoro, al Festival delle Colline Torinesi, una signora ci ha avvicinato dopo lo spettacolo e ci ha raccontato di avere riconosciuto una canzone di cui accenniamo il motivo nello spettacolo, Banane gialle (Carlo Buti, 1934), che non conosceva, ma che aveva sentito cantare dalla mamma molto molto anziana, scomparsa pochi mesi prima. Ci ha ringraziato molto perché grazie a noi è riuscita a collocare in un contesto un suo ricordo personale.
A partire da Sì, l’ammore no, primo spettacolo che vi vede insieme sul palco, passando per Zombitudine fino ad Acqua di Colonia. Quali sono i segni di continuità, rispetto sia alle tematiche sia alle modalità artistiche, che caratterizzano questo percorso di ricerca condivisa? Com’è cambiato il modus operandi nella creazione degli spettacoli teatrali da quando collaborate?
È stato un percorso di continuo affinamento. Abbiamo fortunatamente capito che interessi, tematiche e modalità artistiche erano vicine, ma abbiamo dato spazio anche alle nostre diverse peculiarità. Già in Sì l’ammore no, pur essendo il primo lavoro insieme, crediamo si rintraccino tematiche e modalità di approccio e di linguaggio che poi ritroviamo in seguito: uno sguardo sulla coscienza e l’immaginario collettivi, sui rapporti di potere che ci governano, sul nostro pensiero come prodotto di una costruzione culturale intesa in senso ampio, dalla cultura alta al pop, la necessità per noi di far collidere le certezze o ciò che diamo per scontato o naturale, o far riemergere i fantasmi e i rimossi. In Zombitudine, passando però per i fondamentali Aldo morto e Digerseltz nei quali continuiamo questa ricerca anche se in ambiti tematici diversi, il nostro sguardo è affondato nel presente e nella disperata mancanza di coscienza collettiva e di uno sguardo politico, nell’esautorazione individuale e collettiva di cui siamo tutti protagonisti. In tutti questi lavori per noi c’è in ogni caso uno scavare nel nostro rapporto con il mondo e con l’altro: nel caso di Sì l’ammore no è l’altro genere ed il rapporto di potere, costruito e rimosso, dato per scontato e imprigionato in cliché, tra uomo e donna; in Zombitudine l’altro è chiunque non sia tu, in una confusa e disperata ricerca e paura di un nemico, ma emerge chiaro che l’altro, lo Zombi, il subalterno di origine coloniale, siamo noi. La testolina nera di bimbo che appare in Zombitudine è già un presagio ed una introduzione ad Acqua di colonia, come anche in Sì l’ammore no vediamo, nel finale, un collegamento tematico e di linguaggio con Acqua di colonia. Il suo finale, infatti, è una marmellata di immaginario canzonettistico italiano, una serie di canzoni italiane famose e impiantate nel nostro immaginario montate sul basso continuo di “Faccetta nera” che le sintetizzava e riassumeva tutte. “Faccetta nera” lì rappresentava la persistenza di un immaginario maschio-centrico e un po’ reazionario che pure fa parte dell’immaginario italiano. Acqua di colonia prosegue e amplifica il discorso.
Il Teatro India ha di recente ospitato una retrospettiva dedicata alla vostra carriera. È un grande traguardo per la vostra carriera. Cosa provate in merito? Era questa una delle possibili destinazioni che immaginavate quando avete iniziato a fare teatro?
Ne siamo molto felici, naturalmente. Non sappiamo bene cosa avevamo in testa quando abbiamo cominciato a fare teatro, sicuramente il desiderio di farlo, al meglio possibile. Avere una retrospettiva nel teatro più prestigioso della tua città è senz’altro una soddisfazione, soprattutto in un momento così difficile per Roma. Soprattutto in un Teatro come il Teatro India, che ha significato e significa molto nella biografia teatrale della nostra compagnia, come di quella di tutta la nostra generazione teatrale. In questo spazio donato alla città da Mario Martone nella sua breve direzione artistica del Teatro di Roma nel 1999, batte forte il nostro cuore artistico, qui è nato un Festival come Short theatre, qui abbiamo visto per la prima volta gli spettacoli di Danio Manfredini e di moltissimi artisti della scena contemporanea nazionale, qui sono passati parecchi nostri lavori, è il caso di “Dux in scatola” nel 2006 e dello stesso “Aldo morto”, presentato per la primissima volta in anteprima a Short theatre nel 2011, ma anche del nostro “Zombitudine”, sul quale abbiamo cominciato a lavorare durante quella grande (e contradditoria) esperienza di residenza collettiva, durata alcuni mesi, che è stata il progetto “Perdutamente”, vero e proprio cantiere di lavoro, fortemente voluto dall’allora direttore Gabriele Lavia, che ha coinvolto 18 compagnie della scena indipendente romana nell’autunno del 2012. Molti dei lavori abbozzati al Teatro India in quei pochi mesi sono diventati poi lavori compiuti. Così è stato anche per noi: continuammo a lavorare a Zombitudine per debuttare l’autunno successivo al Teatro della Tosse di Genova, nel frattempo diventato coproduttore del lavoro. Siamo molto felici che alcuni dei nostri lavori, grazie ad Antonio Calbi, possano ora tornare nel posto dove sono nati.
Come nasce e quali sono stati gli sviluppi dello spazio Kataklisma in Roma?
Nasce nel 2002 ed all’inizio era gestito dalla sola Elvira, poi dopo il nostro incontro lo gestiamo insieme ed è per noi un atelier di creazione, uno spazio di incontro in cui incrociare esperienze, un luogo di formazione. È uno spazio di lavoro, di prove, di laboratorio. Negli anni ha realizzato incontri fra artisti, rassegne, eventi come: Generatore X, dal 2004 al 2006, piccola rassegna di spettacoli; Uovo, dal 2005 al 2007, spazio libero di incontro fra artisti e pubblico in cui si mostravano e discutevano insieme lavori in nascita, studi, prove aperte; Novo critico, dal 2008 al 2011, incontri tra artisti, critici e pubblico che ha avuto molto successo; Ecce performer, dal 2010 al 2012, progetto di formazione per attori e drammaturghi realizzato in collaborazione con Attilio Scarpellini. In questo spazio teniamo anche la nostra scuola annuale di teatro ed i nostri workshop, ma ha ospitato e ospita anche laboratori e master classes di altri artisti.
Come vi approcciate alla dimensione didattica e pedagogica dell’arte teatrale nei KataLab, i corsi di formazione e workshop per attori/performer che annualmente organizzate?
La formazione per noi è stimolante. In sostanza il laboratorio è un momento importante di scambio, uno spazio ed un luogo in cui mettiamo in campo e condividiamo il nostro percorso e la nostra ricerca. Più che una classica scuola si tratta di un atelier di compagnia in cui ci si forma anche ad una idea di teatro e, fondamentalmente, ad avere una propria idea del teatro. Molti temi dei nostri lavori attraversano il nostro corso di formazione che diventa una fucina creativa e di scambio. Da tre anni abbiamo innestato nella scuola annuale il workshop intensivo di drammaturgia Corpo scritto, in collaborazione con Attilio Scarpellini, in cui i drammaturghi lavorano a stretto contatto con la scena e con gli attori, ed è un progetto che funziona molto bene e che offre anche uno spazio di confronto ai giovani drammaturghi.
Una piccola anteprima di un vostro prossimo progetto?
Ancora troppo presto per annunciare i futuri progetti. Abbiamo faldoni di appunti top secret, in parte confluiti in alcuni file di progetti top secret. Abbiamo appena debuttato con Acqua di colonia e ci prendiamo il giusto tempo per decidere i prossimi lavori. Possiamo dire che ci sentiamo in un momento molto positivo, che è sia di rilancio che di stabilizzazione, in cui molte direzioni ci sembrano possibili. Di sicuro vorremmo riprendere il progetto “Pirandello ha rotto il cazzo – I classici siamo noi”, che è un progetto di committenza, in cui chiediamo ad altri autori contemporanei viventi di scrivere dei testi per noi, che ha prodotto quest’anno lo spettacolo “Carne”, con drammaturgia di Fabio Massimo Franceschelli e regia ed interpretazione nostra. Sempre quest’anno abbiamo fatto anche la regia di un testo di Fabio Fassio con produzione Teatro degli Acerbi, “Wild West Show”, in cui eravamo solo registi, che sta andando molto bene e ci sta dando qualche soddisfazione. Vorremmo esplorare anche questa direzione, diciamo così, più “registica”. Siamo aperti un po’ a tutto, e curiosi. Sarebbe bellissimo se qualche Ente lirico ci commissionasse la regia di un’opera. Insomma, un bel Verdi, o meglio ancora uno Jacopo Peri ed un Monteverdi (adoriamo i primi melodrammi del ‘600!) o direttamente una Teatralogia dell’anello di Wagner (adoriamo anche Wagner!) sarebbero per noi un bel campo di battaglia. Per quanto riguarda invece la nostra nuova produzione, la nostra futura nuova drammaturgia, come dicevamo prima, dobbiamo ancora ragionarci molto bene. Rimanere sul filone più “storico”, legato all’identità nazionale del nostro paese, oppure approndire il filone più semplicemente “drammaturgico” della nostra produzione, scrivendo un bel testo su quello che ci pare, senza doverci sentire costretti dentro l’etichetta dei “provocatori delle coscienze” (che tanto lo saremmo comunque!) con cui molta critica italiana pare volerci chiudere in una tomba anticipata, sia pure con stima e con amore.
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Dopo un anno di isolamento forzato, in cui a farne le spese sono stati soprattutto i ragazzi e le ragazze, dal 25 giugno al 4 luglio, la città torna agli Under 25 che, con gioia e orgoglio se ne riappropriano, coinvolgendo e chiamando a raccolta l’intero territorio con il festival “Dominio Pubblico_La Città agli Under 25”. Per due fine settimana, le nuove leve artistiche torneranno ad abitare gli spazi del Teatro India e dello Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio, luoghi simbolo della città di Roma, di cui ci stiamo lentamente riappropriando, con musica, danza, teatro, performance, mostre, installazioni, cinema e arte digitale, incontri e talk. Un viaggio fitto di appuntamenti in un città ridisegnata dalla Generazione Z: multietnica, fluida, partecipata e donna.
Tanti ospiti speciali e nuovi esperimenti per una staffetta di 30 progetti multidisciplinari che esprimono il bisogno di esserci e di poter dire la propria sulla realtà circostante: una realtà che racconta di lavoratori e lavoratrici sfruttate; di ingiustizie sociali e di diritti umani calpestati; del bisogno di incontro e di contatto tra i corpi che va oltre le barriere di qualsiasi genere; di una politica incapace di dare risposte concrete e immediate, che si perde nei meandri della burocrazia e non riesce invece a dare risposte sincere ai bisogni delle persone. Una realtà soffocata e senza aria, avvolta nel cellophane e dove gli “adulti” non riescono più ad essere credibili e – semplicemente – non hanno risposte. Per questo SOTTOVUOTO è il titolo scelto dalla direzione U25 per questa nuova edizione.
Il direttore artistico Tiziano Panici e la direzione artistica partecipata under 25, raccontano il Festival Dominio Pubblico.
Tiziano Panici: La ribellione di quest’anno cerca di essere “gentile”, tenendo in considerazione tutti i delicatissimi equilibri che ci circondano dopo l’uscita da un nuovo lungo lockdown durante il quale, tra l’altro, Dominio Pubblico non si è mai fermato. Da gennaio abbiamo realizzato due grandi progetti di street art, Cantieri San Paolo e MA®T 2020 e un bootcamp dedicato alla Paura dell’altro, con il progetto Stati d’Animo realizzato presso il Castello di Santa Severa. Abbiamo poi affiancato il Teatro di Roma nella realizzazione di Immagini di Città e lo Spazio Rossellini in quella di Live Theatre Streaming e infine abbiamo collaborato a IPER: Festival delle Periferie, inoltre la nostra redazione non è sta mai così attiva (e Theatron 2.0 ne sa qualcosa).
Arriviamo quindi a questa ottava edizione del Festival con il fiato un po’ corto e ci sembra che tutta la realtà intorno a noi sia improvvisamente impazzita: le persone sono di nuovo indaffarate, stressate. In questi giorni si è aggiunto anche lo stato di agitazione dei lavoratori e dei tecnici del Teatro di Roma, che potrebbe mettere ulteriormente in difficoltà la gestione degli eventi estivi, tra cui il nostro. Abbiamo già affrontato tutto questo l’estate scorsa e ci è sembrato un miracolo riuscire a realizzare il festival nel 2020. Ora approcciamo a questa ripresa vorticosa con l’intento di non dimenticare la prima regola, la più importante: esserci.
Ci siamo ancora, nonostante tutto, con i nostri fardelli e le nostre paure, le nostre frenesie. Ma dobbiamo cercare di prendere il meglio da questa circostanza, con la consapevolezza che abbiamo avuto la forza di continuare a fare il nostro lavoro e che ancora una volta ragazzi e ragazze molto giovani daranno spazio ad altrettanti artisti ed artiste che aspettano di poter tornare su un palco da più di un anno.
Questo insieme di tensioni finora rimasto celato, è stato descritto dall’artista ironmould che ha realizzato l’immagine guida del festival traducendo visivamente il concetto di SOTTOVUOTO, con i colori vivaci dell’arcobaleno. Siamo pronti a trasformare la nostra energia in qualcosa di esplosivo. Ne vedrete delle belle.
TP: Senz’altro è un impegno difficile da gestire senza fare errori. È ancora più difficile fare previsioni: il pubblico verrà? Gli artisti saranno contenti? Noi saremo contenti? Proprio per questo ammiro molto la determinazione del gruppo di direzione artistica Under 25 che si è formato quest’anno e quella dello staff che ormai si è consolidato in anni di esperienza: Dominio Pubblico ha ormai una struttura solida che si è molto ingrandita, ma allo stesso tempo continua ad avere un’anima fragile di cui bisogna prendersi cura.
Gli spettacoli che vedrete al Festival sono sempre l’espressione di gruppi di lavoro o singoli artisti che stanno ancora cercando la loro poetica e i mezzi migliori per esprimersi. Però la Generazione Z non ha paura di raccontare il proprio punto di vista: sono acerbi, senz’altro ancora inesperti, ma i temi attorno a cui stanno scaldando il dibattito politico – l’ambiente, la fluidità di genere, il rispetto degli altri, posizione sociale, credo religioso –, li rende degli interlocutori molto più centrati rispetto alle generazioni passate. Inoltre, hanno già scelto di usare i mezzi della cultura, della creatività e dell’arte, della scienza e della politica per difendere le proprie idee.
I giovani non devono ad esempio diventare “digitali”, sono già nati da quella parte della storia e la mia sensazione è che siamo noi i – grandi – a dover faticare per poterci ancora accreditare e dare un senso ai nostri slanci. Mi sembra invece che questa sia una generazione pienamente adiacente al suo tempo: non si sente né in ritardo né in anticipo. Non vuole lottare per trovare il proprio posto: se lo sta già prendendo di diritto. E allo stesso tempo sembra essere più sicura dei propri doveri.
Pertanto credo che sia indispensabile prestare loro ascolto e Dominio Pubblico, ancora una volta, cerca di creare le condizioni perché questo scambio possa avvenire, senza innalzare ulteriori barriere, ma con la consapevolezza che c’è un tempo per essere giovani e che poi quel tempo finisce e inizia per tutti una fase diversa della vita in cui non si deve smettere di credere nei diritti e nei doveri che abbiamo cercato di rispettare fino a quel momento. Mi auguro quindi che questo festival sia una fotografia del mondo che questa generazione vuole cambiare…e che cambierà!
Direzione artistica under 25: E’ stato un anno particolare: la direzione artistica partecipata Under 25 di Dominio Pubblico non si è mai incontrata al completo dal vivo, se non agli inizi di giugno. Conoscersi su Zoom riuscendo a portare avanti le selezioni e a definire il programma di quello che sarà a tutti gli effetti il nostro Festival, è già di per sé un grande traguardo. Ci aspettiamo che questa edizione sia un nuovo esplosivo inizio, più che il ritorno a una normalità ormai lontana da noi. Ci auguriamo possa essere un trampolino di lancio per molti artisti e molte artiste under 25, ma soprattutto un megafono per dare risonanza alla voce di una generazione che per troppo tempo è rimasta “sottovuoto”. Infine speriamo sia una grande festa, un’occasione di condivisione dopo tanti mesi di distanza.
Dopo 12 mesi, Dominio Pubblico diventa così l’occasione per toccare con mano questo fermento, con 30 diverse e ricche occasioni di incontro, confronto e scoperta, all’interno di un programma che dialoga con la realtà della Generazione Z, in cui l’arte e la bellezza non fanno distinzioni di sesso e culture. Ecco quindi una line up multietnica ed interculturale che vede protagoniste tante giovani e talentuose artiste, fra cui Margherita Vicario con l’Orchestra Multietnica di Arezzo, Claire Audrin, Ellynora e molti altri giovani talenti.
Ad aprire Dominio Pubblico il 25 giugno saranno le nuove proposte musicali selezionate nel corso dell’ultima edizione di Lazio Sound, con Envoy ed Ellynora pronti a calcare il palco e a portare la loro musica nell’Arena del Teatro India. Altri due artisti vincitori di Lazio Sound sono attesi al Teatro India nel corso di Dominio Pubblico: il 2 luglio sarà la volta dei Santamarya e della loro poesia urbana; il 4 luglio sarà invece la cantautrice “self-made” Claire Audrin a trasportare il pubblico nei suoi universi sonori. Grande attesa anche per l’entrata in scena di un’altra giovane artista: l’attrice e cantautrice Margherita Vicario sarà in scena, insieme all’Orchestra Multietnica di Arezzo, con lo spettacolo “Storie della Buonanotte per Bambine Ribelli” al Teatro India il 27 giugno alle 21:30.
Imperdibili gli appuntamenti del 26 giugno e 3 luglio, a cui assistere live e in diretta streaming dallo Spazio Rossellini con “MATCH, incontro/spettacolo fra generazioni teatrali a confronto”, un progetto Gli Scarti, ideato da Andrea Cerri e condotto da Graziano Graziani: artisti e compagnie young contro un grande e noto artista del panorama teatrale nazionale. L’appuntamento del 26 giugno vedrà protagoniste Claudia Marsicano ー giovane interprete femminile nota al panorama nazionale e vincitrice del premio UBU 2017 come migliore interprete italiana Under 35 ー e l’attrice Francesca Benedetti. Mentre il 3 luglio si confronteranno Nicola Borghesi ー regista e direttore della compagnia Kepler 452 ー e il maestro Gabriele Lavia.
Spazio ai nuovi linguaggi con gli incontri pubblici on-line che coinvolgeranno gli artisti selezionati e alcuni dei massimi esperti nel campo delle live e performing arts digitali. Lunedì 28 giugno, dalle 9:30 alle 18:30, Spazio Rossellini ospiterà uno degli appuntamenti annuali del Network Risonanze, dove si riuniscono i dodici partner della rete per discutere le azioni messe in campo nel corso dell’anno e per confrontarsi sull’esito dei progetti in atto.
Quest’anno il meeting offre anche un’opportunità di formazione, grazie al progetto Performing + in Tour, promosso dalla Fondazione Piemonte dal Vivo e da Fondazione Compagnia di San Paolo, in collaborazione con Osservatorio Culturale del Piemonte, rivolto sia ai partner della rete sia ad operatori ospiti. Un evento dedicato allo scambio di buone pratiche, alla formazione nell’ambito dei temi della sostenibilità nel mondo culturale, insieme agli esperti di Hangar, alla scoperta dei più innovativi processi di partecipazione dedicata agli spettatori più e meno giovani. Tra i partner dell’iniziativa anche Teatro di Roma/Teatro nazionale – ATCL/Circuito Multidisciplinare Regionale del Lazio e C.Re.S.Co.
Tantissimi altri eventi attendono il pubblico in questa edizione, fra concerti, spettacoli, proiezioni e incontri alternati alle performance degli artisti Under 25 selezionati, che si articoleranno durante tutta la manifestazione con teatro, musica, cinema e mostre di arti visive, offrendo una panoramica delle tendenze artistiche e delle nuove istanze portate alla ribalta dai creativi Under 25.
Dominio Pubblico nasce nel 2013 dall’incontro delle direzioni artistiche di Teatro Argot Studio e Teatro dell’Orologio di Roma con il regista e drammaturgo Luca Ricci e viene riconosciuto nel 2015 come una delle 20 realtà meritevoli nel capitolo promozione/ formazione del pubblico dal Ministero dei Beni Culturali. Nel tempo sono entrati a far parte della direzione artistica gli Under 30 delle edizioni passate, dando esempio di concreto co-working artistico e gestionale. Sotto la direzione di Tiziano Panici, oggi, Dominio Pubblico U25 può contare su una comunità di oltre 800 ragazzi, artisti che danno nuova linfa al progetto, con la collaborazione del Teatro di Roma – Teatro Nazionale, main partner dal 2015.
Il Festival “Dominio Pubblico – La Città agli Under 25” è promosso da Roma Culture, è vincitore dell’Avviso pubblico Estate Romana 2020-2021-2022 curato dal Dipartimento Attività Culturali ed è realizzato in collaborazione con SIAE.
Il progetto è sostenuto da Ministero della Cultura, la Regione Lazio, Roma Culture, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, in collaborazione con ATCL Circuito Multidisciplinare del Lazio per Spazio Rossellini Polo Culturale Multidisciplinare della Regione Lazio e Municipio VIII. Dominio Pubblico è un progetto di rete che si fonda sulla collaborazione e sulla condivisione di idee. Per questo motivo ogni anno si estende il network delle realtà con cui collabora, stringendo accordi con importanti partner nazionali e internazionali per quel che riguarda il teatro e le arti emergenti.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
Cosa può un corpo? è il titolo di un libro del filosofo Gilles Deleuze che raccoglie un insieme di lezioni dedicate a Spinoza. È una domanda che sta ad indicare le possibilità impensate che si manifestano, senza preavviso, nelle pratiche. Lì dove si credeva che ci fosse un limite, l’accadere lo smentisce. Se, come ci ha raccontato Francesca Corona, «il teatro è l’arte politica per eccellenza perché al centro vi sono i corpi», ecco che appare motivato modificare l’interrogazione in «Cosa può un teatro?», come viene ripetuto più volte nell’intervista.
Con la fiducia che lo spazio teatrale possa farsi promotore di qualcosa che non è mai sondato fino in fondo — perché ogni volta diverso nell’unicità dell’incontro — cosa accade quando le porte sono chiuse al pubblico? Può essere reimmaginato un senso, seppur temporaneo e precario, oppure il teatro è destinato a un triste silenzio?
In quelle pagine del filosofo francese si trovava anche una definizione di artista, come colui che «muta i limiti in opportunità». Ed è questo in effetti lo spirito che ha mosso le attività del Teatro India, con Corona alla direzione, durante la pandemia. Attività che vengono approfondite in questa conversazione prendendo le mosse dall’ultima avviata, il ciclo di formazione retribuita Fondamenta, composto da sette corsi condotti da Giorgio Barberio Corsetti, Anna De Manincor (Zimmerfrei), Lucia Calamaro, Tanya Beyeler (El Conde de Torrefiel), Romeo Castellucci, Lisa Ferlazzo Natoli, Michele Di Stefano.
Un esperimento che guarda ai tempi eccezionali in cui ci troviamo, in un interstizio tra macro e micro politica. Perché lo sguardo di curatrice di Corona — a partire dal festival Short Theatre, che quest’anno accompagnerà nella transizione verso la nuova direzione artistica di Piersandra Di Matteo — si muove tra l’istituzione e l’underground mettendo al centro un fare comunitario, un brulicare di intensità.
Fondamenta si inserisce in un’articolazione complessa di attività che da un anno a questa parte abbiamo messo in piedi al Teatro di Roma su quello che può un teatro in questo momento, ovvero quando viene sottratta una delle sue funzioni principali, accogliere il pubblico nei propri spazi. La riflessione mia e di Giorgio Barberio Corsetti è più in generale su ciò che può un’istituzione pubblica, pensando all’istituzione del futuro per renderla porosa, reattiva a ciò che c’è intorno, all’arte della città e al contesto specifico.
Un anno dopo il nostro arrivo si è innestata la pandemia, abbiamo attraversato tante possibilità come quella di fondare una radio, che nella situazione del lockdown dello scorso anno ha messo un acceleratore fortissimo sulla possibilità della ricerca. Abbiamo fatto dei passi anche per aiutare altri spazi, più fragili e indipendenti, che con le condizioni attuali non avevano gli strumenti per restare attivi. Ci siamo fatti piattaforma per altre realtà, mettendo a sistema quello che India faceva anche prima, ovvero ospitare compagnie in residenza anche che non fossero direttamente prodotte o co-prodotte dal teatro.
Fondamenta arriva dopo tutto questo, per mettere un altro tassello a questa riflessione fattiva. È una proposta relativa alla formazione, all’impiego e alla ridistribuzione delle risorse, per arrivare a un’idea di formazione continua. Se le residenze dialogavano con realtà già strutturate, Fondamenta entra in dialogo con gli interpreti. Ci sembrava il perfetto allenamento di corpi e menti per la sperata riapertura.
Probabilmente in una stagione normale non si sarebbero aperte le possibilità per proporre Fondamenta, è un progetto impegnativo da un punto di vista organizzativo, di occupazione degli spazi e di bilancio finanziario. Potrebbe essere una di quelle poche occasioni regalate dalla pandemia, che potrebbe trasformarsi in una buona pratica. Abbiamo imparato tante cose in questo periodo, sappiamo ora che il teatro può fare molto altro oltre a proporre spettacoli e speriamo di non perdere questa elasticità.
Il gruppo Presidi Culturali Permanenti è al lavoro sulla questione della formazione retribuita, sono in interlocuzione con le regioni e spero quindi che questo sia un caso-studio che possa rendere più solida la loro proposta. Si tratterebbe di riconoscere la formazione e la ricerca come veri momenti di lavoro, perché non necessariamente bisogna retribuire solo un prodotto finito come uno spettacolo.
Sono arrivate mille candidature per Fondamenta, evidenziano il momento difficile in cui ci troviamo.
Sì e queste mille candidature provengono solo dalla regione Lazio, perché risiedere qui era l’unico requisito richiesto. Volevamo illuminare un potenziale localizzato, quali sono le vite, le esperienze e i desideri di chi è intorno a noi. La selezione è stata un’avventura magnifica, non me lo aspettavo. Leggere queste mille lettere motivazionali è stato straordinario, ad un anno esatto dalla chiusura dei teatri. Erano lettere sulle quali pesava tutta la situazione, è stato una specie di carotaggio su come stiamo. Ne esce una condizione disastrata, dal punto di vista strutturale.
La pandemia si è riversata su una categoria che già prima era profondamente affaticata, più o meno consapevolmente. C’è isolamento e una grande mancanza di relazione, oltre che di lavoro, dunque vari livelli di problematicità. Ma ho trovato anche una grande consapevolezza, precisione, capacità di presa di parola. I percorsi di formazione si stanno svolgendo ed è bellissimo vedere il teatro attraversato da queste persone. C’è una grande fibrillazione e motivazione, anche per noi.
Sono molto felice di quello che è successo in questi due anni. Il lockdown lo scorso anno è arrivato nel momento in cui tutto stava prendendo forma. Abbiamo iniziato il percorso a settembre 2019 con quella che ormai mi sembra una storica e mitica festa per i vent’anni di India. Il teatro è stato aperto per venti ore consecutive ed è stato attraversato da più di quattromila persone. C’erano attività in tutte le sale, musica, proiezioni, spettacoli, quella celebrazione è stata una promessa che si riconnetteva alla fondazione di India da parte di Mario Martone, riaccendeva un legame con quello spirito. Pian piano il nostro progetto è emerso, con gli artisti residenti e la scuola serale, che abbiamo inaugurato il 17 febbraio. Una scuola gratuita aperta alla cittadinanza con i corsi di danza, ascolto e canto.
Tutto stava sbocciando quando è arrivata la pandemia e ha interrotto questo programma poliritmico, che vedeva le attività per la cittadinanza dialogare con una stagione teatrale strutturata, con le proposte più estemporanee delle compagnie residenti e con quanto si svolgeva all’Argentina. Era un’idea estremamente concreta di coabitazione, con l’imprevedibilità data dalla presenza dei corpi. Ridisegnare questa complessità è impossibile, quindi c’è stata sicuramente l’interruzione di un flusso. Ma piano piano ha preso vita un registro diverso che prevede l’alternanza e la somma di un’attività dopo l’altra.
Sono soddisfatta di quello che abbiamo creato, in un rapporto sempre più stretto con la direzione di Giorgio Barberio Corsetti e le attività degli altri teatri. Inoltre abbiamo passato una magnifica estate a India, dove è successo di tutto: il recupero degli spettacoli, i concerti, l’arena cinematografica all’aperto. Per poi programmare una stagione che si è interrotta nuovamente e spalancare allora le porte alle compagnie per le residenze. Sono sicura che quando riapriremo sarà ancora più polifonico, perché si aggiungeranno tutte le cose che sono successe e che prima non avevamo immaginato.
Già da tempo io e Fabrizio Arcuri stavamo maturando l’idea della conclusione di un ciclo. Abbiamo riflettuto molto su come dovesse avvenire questo avvicendamento ma poi il nome di Piersandra Di Matteo emergeva continuamente. Porterà uno sguardo alleato ma, allo stesso tempo, un vero cambio di direzione. Il 2021 è un anno di passaggio per tutto il sistema teatrale italiano, il Ministero inizierà eccezionalmente il triennio nel 2022 e la progettazione ne è necessariamente influenzata. È un anno trasformativo in cui ci si continua ad allenare prima di risbocciare completamente, spero, durante il prossimo.
Condurremo quindi questa trasformazione insieme, all’inizio non me lo ero immaginato ma è molto prezioso, corrisponde all’etica che vogliamo affermare da quindici anni con questo festival: non si tratta di voltare le spalle al passato ma di lasciarlo guardando negli occhi chi sta arrivando, prendersi cura di questo passaggio nel totale rispetto dello spazio della nuova direttrice artistica.
In qualche modo me lo aspettavo, lo sentivo arrivare dai discorsi della comunità artistica francese e anche di chi dirige i teatri. Sono occupazioni in complicità con i direttori e le direttrici, per fare delle richieste al ministero e al governo. È molto interessante il fatto di cercare di essere un laboratorio intersezionale in cui il teatro è la piazza. Ci sono delle rivendicazioni di settore ma queste coabitano con riflessioni sul sistema intero, dando visibilità anche alle lotte di altre categorie.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.