DispensaBarzotti nell’illusione e l’incanto, la meraviglia e l’inganno

DispensaBarzotti nell’illusione e l’incanto, la meraviglia e l’inganno

Vincitori con lo spettacolo “Victor” del Premio delle Giurie della IV edizione di Direction Under 30, intervistiamo la regista Alessandra Ventrella e l’attore Rocco Manfredi, fondatori nel 2014 della compagnia DispensaBarzotti. Li abbiamo visti in scena durante le ultime due edizioni del festival organizzato dal Teatro Sociale di Gualtieri dove hanno lasciato un segno indelebile nella memoria di spettatori e addetti ai lavori per la raffinatezza poetica e la ricerca stilistica che contraddistinguono i loro lavori nell’ambito del teatro di figura rendendoli uno dei più promettenti nuclei artistici all’interno del panorama italiano “under 30”.

Quali sono stati i momenti e gli incontri decisivi per la vostra formazione artistica?

I tre anni della nostra formazione alla Scuola Paolo Grassi, quando abbiamo conosciuto le opere di Antonin Artaud, Tadeusz Kantor, Samuel Beckett e Harold Pinter. Più avanti quando abbiamo deciso, anche se inconsapevolmente, di abbandonare la parola scoprendo compagnie che lavoravano con un teatro pieno di immagini: compagnia Riserva Canini, Teatrino Giullare, Philippe Genty, Cie 14.20, Cie 111, Etienne Saglio, Slava, Peeping Tom e molti, molti altri. La partecipazione a laboratori e la più assidua possibile frequentazione delle sale teatrali e dei loro misteri ci continua a formare.
Da qui l’interesse e lo studio per la scenotecnica e la macchineria teatrale che riescono a fondere in alcuni “effetti” grandi emozioni. Effetti mai fini a sé stessi, ma progettati e costruiti per regalare atmosfere indicibili.
Altro passo fondamentale per la creazione del nostro (ancora piccolo) pensiero è stato il nostro primo lavoro: “La morte tifa Barbie” con il quale in vari mesi abbiamo attraversato l’Italia venendo a contatto con i pubblici più disparati, con esigenze e modalità di relazione differenti ogni volta. Ci ha fatto capire quanta potesse essere la gioia di “conquistare” realmente un pubblico di non addetti ai lavori, di gente che per caso passava da quella via o da quella piazza e rimaneva incantata solo per un momento o per tutto lo spettacolo. Il pubblico di bambini che di solito s’illude e si meraviglia di gran lunga di più del pubblico adulto ci ha fatto capire che, per noi, l’obiettivo primario è aprire uno squarcio dove la realtà possa per un poco non esistere più. Un processo in qualche modo catartico.

Sia Homologia (segnalazione speciale Premio Scenario 2015 ndR) da “Cose che parlano di noi. Un antropologo a casa nostra” di Daniel Miller, sia Elogio dei manichini dall’omonimo racconto di Bruno Shulz, si basano inizialmente su un dato letterario: in che modo declinate la parola attraverso l’utilizzo delle tecniche e degli elementi performativi del teatro di figura?

Testi non teatrali ci hanno aiutato a ricercare una poetica, esigendo da noi una grande attenzione nella creazione di un linguaggio personale. I materiali di partenza che per ora abbiamo toccato hanno intercettato quasi naturalmente immagini, atmosfere, esigenze ed emozioni che stavano dentro di noi prima del teatro, come persone, e che avevamo l’urgenza di raccontare. Per adesso approcciarsi ad un testo non teatrale è stato come gettare un’ancora: iniziamo le prove e attraverso improvvisazioni riusciamo a vedere fin dove le cose possono spingersi, cercando di tenere sempre ben saldi i punti di partenza. Ma arriva un momento in cui ci perdiamo, ed è allora che torniamo al testo, rielaboriamo ciò che abbiamo fatto e spesso troviamo risposte o altre domande.

In Victor quali sono le tematiche che avete affrontato a partire da “Frankenstein” di Mary Shelley? Come si è strutturato il lavoro di ideazione e creazione dello spettacolo?

Partiamo dalle immagini e dalle atmosfere che sentiamo vicine e dalle emozioni e dalle visioni che scaturiscono dalla lettura. Abbiamo cercato di attraversare degli stati emotivi attraverso un lavoro di improvvisazione. Improvvisazioni che venivano sempre piú “guidate” nel senso che mettevano in campo oggetti e immagini che ci parlavano e che quindi erano per noi irrinunciabili. Siamo partiti riflettendo sulla parola “creazione”. Ci siamo interrogati su che cosa significasse per noi creare e come spesso in noi e tra di noi si creino dei “mostri” che non avremmo mai desiderato creare. Come spesso rinchiudersi nella nostra passione ci faccia allontanare dagli affetti del presente. Siamo arrivati a immaginare il paradosso di rinchiudersi in una stanza per creare la maschera del volto di una nonna che però è nell’altra stanza, ancora viva, che aspetta che tu esca da lì per abbracciarti. Abbiamo pensato tanto alla mancanza.
Ci sono persone che ci mancano terribilmente e che cerchiamo in tutti i modi di tenere legate a noi e persone di cui cerchiamo di colmare la mancanza in tutti i modi. Abbiamo pensato all’abbandono, che fa piangere tutti. Non accettare la fine. Voler ridare vita e anima a tutto. Abbiamo tentato di dipingere il ritratto dell’interiorità di Victor. Ci siamo lasciati guidare dalle immagini, dalle visioni e dalla musica. Ci ha colpito molto il rapporto tra Victor ed Elizabeth, sorella e amante. Il rapporto con la sua creatura. Il rapporto con la famiglia, con gli amici, con tutti gli affetti che lui abbandona dopo la morte della madre. Gli incubi, la paura che diventa malattia. La solitudine di cui ci si libererà, forse, in un’altra vita.

Quali saranno i progetti che vi vedono protagonisti nel prossimo futuro?

Siamo entrambi amanti dei libri illustrati, quindi forse sarà questo il prossimo materiale di partenza. Sentiamo pulsare sempre di più il desiderio di lavorare con la musica, un compositore, degli strumentisti. C’è da un po’ l’idea di creare uno spettacolo concerto…
Uno dei grandi sogni che abbiamo nel cassetto è quello di riuscire a rendere questo lavoro sostenibile. E questo, nel periodo in cui viviamo, è forse una delle più grandi sfide che possiamo porci.

Che impressioni ed emozioni riportate a casa dall’esperienza di Direction Under 30?

Portiamo a casa delle osservazioni e delle critiche meravigliose, uno scambio reale con il pubblico e con le altre compagnie, degli sguardi e delle parole preziose che ci danno molta forza per andare avanti a lavorare.

Non son solo marionette: Alberto Jona racconta il Festival Incanti

Non son solo marionette: Alberto Jona racconta il Festival Incanti

Che si tratti di burattini, marionette, pupazzi o ombre, dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, la narrazione di storie attraverso questi strumenti antichissimi ha trovato una denominazione che li racchiude tutti in un’unica macrocategoria, quella del cosiddetto Teatro di figura. Eppure, a dispetto del riconoscimento formale e della forte tradizione, qui in Italia non si rintracciano percorsi accademici di formazione, affidata altrimenti a corsi e laboratori all’interno dei festival (che per fortuna non mancano), e a singole compagnie e centri di produzione teatrale. 
La realtà, però, è animata e tutt’altro che stantia, grazie soprattutto agli scambi internazionali con quei Paesi in cui il teatro di figura si apre a suggestioni di ricerca, arrivando fin qui come una ventata d’aria fresca e rigenerante. 

Seguendo questa doppia direttrice – con un occhio alla formazione in Italia e un altro all’estero – si muove il Festival Incanti di Torino, giunto nel 2021 alla ventottesima edizione: il direttore artistico Alberto Jona – nonché musicista tra i fondatori della compagnia Controluce – Teatro d’Ombre che lo ha ideato – ha approfondito alcuni aspetti della rassegna: a partire dalle origini, passando per una pandemia, e arrivando fino a oggi.                                 

Quali sono gli elementi caratterizzanti del festival e che evoluzione ha seguito col succedersi delle edizioni?

Quello che è cambiato negli anni ha sicuramente a che fare con l’impostazione del festival, che all’inizio era molto più “tradizionale”, in quanto vetrina delle nuove istanze di teatro di figura. Innovativa e abbastanza rara per quei tempi, era invece la sua caratteristica principale: quella di essere, fin dagli albori, nel ’94, uno dei primi festival di teatro di figura dedicato sostanzialmente a un pubblico adulto, come avveniva di fatto all’estero, dove quest’arte era maggiormente orientata alla sperimentazione. Si evince, dunque, il secondo elemento caratterizzante che è stato, e continua a essere, la forte attenzione verso il mondo internazionale, da cui la novità di presentare sul palco di Incanti compagnie estere in prima assoluta, spesso, o in prima italiana.

L’evoluzione è avvenuta anche grazie all’appoggio della Regione Piemonte che ha sponsorizzato molto il festival e ci ha spinti alla creazione di percorsi formativi. Dal 2008, ha preso infatti avvio il Progetto Incanti Produce (PIP) che, arrivato fino alle soglie della pandemia, ha ospitato artisti di fama internazionale – tra cui Frank Soehnle, Neville Tranter, Duda Paiva –  nei luoghi messi a disposizione dal comune di Grugliasco. 

Per anni siamo dunque andati avanti con questo progetto che si è poi ampliato con una serie di workshop collaterali al festival e dedicati in modo particolare al teatro d’ombre, essendo questo il focus artistico della nostra compagnia; dieci anni fa ha così preso forma il Progetto Cantiere, che ancora resiste nel tempo. Nato dapprima come uno spazio di visibilità per giovani compagnie, è divenuto negli anni un più esteso percorso di formazione: si è creata infatti una rete di sette festival che, agendo sinergicamente, conducono al debutto e alla circuitazione degli artisti emergenti del panorama italiano. 

Un ulteriore step, purtroppo interrottosi con l’arrivo della pandemia, è il Progetto Accademia, grazie al quale abbiamo ospitato i lavori conclusivi degli allievi di importanti accademie europee – le quali prevedono una sezione specifica relativa al teatro di figura – così da sensibilizzare e stimolare l’attenzione di pubblico e istituzioni anche qui in Italia. 
Da non dimenticare, infine, i rapporti continuativi che si sono stabiliti, ad esempio, con Animateria, corso di formazione di teatro di figura guidato da Teatro Gioco Vita di Piacenza, per sopperire più efficacemente al vuoto presente in ambito accademico.

È abbastanza evidente che oltre al vuoto di cui mi parli, un altro elemento di disturbo sia stato l’arrivo della pandemia che ha rallentato l’evolversi del festival. Come avete reagito a questa esperienza?

Incanti 2020 è stato un festival principalmente italiano, non potendo ospitare compagnie dall’estero per ovvi motivi. Abbiamo reagito dunque creando spazi virtuali, non tanto per fare spettacolo – dato che il teatro ha bisogno della fisicità nonché, eventualmente, dei mezzi tecnici per lo streaming che nel nostro piccolo abbiamo comunque attivato – quanto per favorire un incontro proficuo con gli spettatori. L’edizione 2020 è nata infatti a partire da un dialogo col pubblico che abbiamo interpellato per capire come declinare la nuova versione del festival sfruttando l’elemento tecnologico; ne è scaturita l’apertura di un sipario virtuale per mostrare ciò che accade dietro le quinte nella costruzione di una tipologia di spettacolo in cui è insita una forte componente di magia, e di un dialogo con maestri e compagnie del settore. Questa e altre iniziative sinergiche di successo, come quella con la Scuola Holden relativa a un progetto di scrittura per il teatro, hanno contribuito alla fidelizzazione del pubblico.

Il focus tematico delle scorse edizioni è stato principalmente sul viaggio, accompagnato, in quest’ultima, al tema della natura violata. Come avete trattato questi argomenti in relazione alla contemporaneità?

L’intento di Incanti è sempre stato quello di agganciarsi a temi quotidiani e contemporanei. Lo stimolo ha preso avvio dal fenomeno delle migrazioni e, dunque, il viaggio ha assunto, da un lato, la dimensione reale e fisica (come nel caso del meraviglioso spettacolo dello Stuffed Puppet Theater di Neville Tranter, Babylon, presentato in prima nazionale nel 2018); dall’altro, in particolare in quest’ultima edizione, il senso metaforico di un viaggio dentro di sé e, in un momento di emergenza in cui non era facile spostarsi all’estero, anche verso la conoscenza. Il tema, che è rimasto una costante e lo sarà ancora per un triennio, prevede di spaziare oltre i confini fisici, di genere, biologici, per trovare un aggancio con le questioni attuali più dibattute che il teatro di figura può affrontare; esso presenta inoltre anche un elemento di ambiguità che non ne costituisce una limitazione, quanto piuttosto un’amplificazione del senso, dove ognuno trova, tra le molteplici, la sua chiave di lettura.

Il problema stringente dell’ultimo periodo è poi quello della natura violata, e la pandemia, in tal senso, è stata la risposta inaspettata dell’ambiente all’uomo; il tema dell’ecologia è anch’esso altrettanto importante, e qui voglio ricordare, in particolare, Kumuluninbu della Compagnia Ortiga, uno spettacolo forte e poetico sul tema dell’acqua, andato in scena nell’edizione del 2019. 
È interessante notare come la sensibilità verso queste tematiche si riscontri anche tra le giovani compagnie italiane, che sono attente al problema e stanno lavorando in una direzione che mi convince molto.

Ph Yair Meyuhas

Hai accennato allo spettacolo spagnolo della Compagnia Ortiga e, in generale, ho notato che nella scorsa edizione di Incanti vi siete concentrati molto sulla Spagna. C’è una precisa ragione dietro questa scelta?

Da qualche anno, Incanti prevede, per ogni edizione, un focus su una nazione, ed è una scelta resa possibile anche dalla vittoria di bandi internazionali. Per quest’ultima, ci siamo concentrati sulla Spagna essenzialmente per due motivi: oltre al riconoscimento da parte del Ministero della Cultura spagnolo verso la nostra attività, nel 2019 si è venuta a creare una bella sinergia tra il Progetto Cantiere di Incanti e la Plataforma de Lanzamiento, un’iniziativa analoga nell’ambito del festival madrileno Pendientes de un hilo; inoltre, il teatro spagnolo, insieme a quello francese a cui abbiamo già riservato un’edizione, risulta davvero molto interessante sul fronte della sperimentazione. Nel 2021, per esempio, Incanti ha portato per la prima volta in Italia la compagnia emergente Zero en Conducta, che qui non è ancora conosciuta, ma in Spagna sta spopolando e, in generale, il teatro spagnolo presenta un sincretismo linguistico e un connubio molto forte tra la danza, il circo e l’uso dei puppet che ci è sembrato stimolante in un’ottica di ricerca.

Perché in Italia, sebbene ci sia una grande tradizione, il teatro di figura sembra aver preso una strada diversa e sia in generale più indietro rispetto all’innovazione di linguaggi che si riscontra oltre confine? Immagino non sia solo un problema legato alla formazione, ma abbia a che fare con una questione culturale a monte…

Anni fa, c’è stato un dibattito a tal proposito tra Incanti e organizzatori teatrali provenienti da vari Stati, ed è emerso che una delle cause può rintracciarsi proprio nel forte radicamento alla tradizione; mentre in Paesi come la Francia questa si è un po’ perduta e il teatro di figura ha preso altre strade di ricerca, in Italia abbiamo alle spalle un grande patrimonio in tal senso e una grande sicurezza, che è meraviglioso ci sia, ma al contempo rappresenta, più che un limite, un ancorarsi a qualcosa di certo. Per fare un esempio di teatro di figura tradizionale che si è aperto nel tempo a nuovi influssi, potrei citarti quello turco del Karagöz, un teatro d’ombre che ha ritrovato linfa vitale agganciandosi a temi contemporanei. 

Anche qui in Italia, comunque, ci sono esempi che pur inserendosi nella tradizione si sono spinti oltre: basti pensare al cunto di Mimmo Cuticchio, al patrimonio dei Pupi, e allo spettacolo con Virgilio Sieni, dove la danza contemporanea dialoga con l’arte della marionetta dando origine a una commistione di linguaggi che è assolutamente di ricerca; ma anche altre giovani compagnie stanno portando avanti un significativo lavoro di ricerca, penso alle Unterwasser e agli Zaches, per fare due nomi.

Esiste poi un’altra causa, ovvero un problema relativo alla fruizione, dato che soprattutto alla fine del ‘900 le marionette e i burattini sono stati associati a un teatro prettamente per l’infanzia, mentre una volta avevano una funzione totalmente diversa… basti ricordare che la prima edizione dell’Aida di Verdi al Teatro Regio di Torino andò in scena in un teatro di marionette!

L’elemento di meraviglia, già insito nel nome del festival, penso sia il vero punto di forza di questo teatro, ma mi chiedevo se non risieda anche lì il diffuso pregiudizio di considerarlo un tipo di spettacolo più per bambini che per adulti. Pensi ci sia una sorta di timore nel meravigliarsi attraverso questo linguaggio? 

L’elemento dello stupore è indubbiamente il punto di forza di questo teatro in cui tutto è possibile senza effetti speciali, ma con un lavoro artigianale; anche la qualità di movimento di quelli che definirei dei piccoli golem lascia esterrefatti, così vicina a quella di un essere umano. Ma tale meraviglia non appartiene solo al mondo dell’infanzia, ed è stata proprio questa la nostra scommessa di ventotto anni fa, quando abbiamo deciso di rivolgere Incanti esplicitamente a un pubblico adulto; volevamo infatti dare dimostrazione che con questo linguaggio potevamo affrontare qualsiasi argomento, anche complesso e in maniera ancor più incisiva proprio grazie a quello stupore che amplifica la lettura e che forse da adulti abbiamo un po’ paura di recuperare. Cito, per esempio, uno spettacolo dello Stuffed Puppet Theater sugli ultimi giorni di Hitler che molte persone ancora ricordano per l’effetto sconvolgente che ha generato. 

E si tratta di un pubblico assolutamente trasversale, con una media anagrafica piuttosto alta che va dai 35 ai 38 anni, quello di Incanti, che affascina un po’ tutte le generazioni, le quali riconoscono la grande capacità immaginifica e narrativa del teatro di figura, e che noi proviamo a raggiungere nei luoghi più desueti, grazie anche alla collaborazione con realtà come l’Università o il Museo del Cinema di Torino.

Abbiamo già accennato alla commistione tra diverse espressioni artistiche, come la danza e il teatro di figura, data la capacità di quest’ultimo di amalgamarsi magicamente con linguaggi differenti. Cosa mi dici, dunque, del rapporto col cinema?

La Compagnia Controluce nasce, in un certo senso, proprio grazie al Museo Nazionale del Cinema di Torino, quando l’allora direttore Paolo Bertetto si innamorò del nostro primo spettacolo definendoci “i nonni del cinema”; in effetti, non è poi così azzardato affermare che il teatro d’ombre sia stato il primo tentativo di immagini in movimento. Si tratta dunque, da parte nostra, di un rapporto quasi trentennale (a cui negli anni si è affiancata l’ASIFA, l’associazione dedicata al teatro di animazione), che dal 2000 si è più strutturato anche rispetto a Incanti; il festival, infatti, dedica sempre una serata alla relazione tra cinema di animazione e teatro di figura, e sono stati inoltre organizzati dei workshop sulla stop-motion per sottolineare la stretta parentela tra queste due forme artistiche e la sperimentazione che le accomuna. 

Tra esse, esiste dunque una grande possibilità dialogica, favorita dal concetto allargato di teatro di figura, nel quale rientra ormai qualsiasi genere che operi sull’immagine animandola, come nel caso delle lanterne magiche giapponesi utilizzate nel teatro spagnolo e olandese; il segreto credo stia allora nel mantenere il delicato equilibrio di questo interscambio, tra l’affascinante macchina “barocca” del teatro di figura e l’altrettanto affascinante e sperimentale mondo del cinema.

Teatro di Figura, immagini di vita. Annientare lo stigma: intervista a Créature Ingrate

Teatro di Figura, immagini di vita. Annientare lo stigma: intervista a Créature Ingrate

La demonizzazione della sessualità della donna, che imperversa nella vita di ciascuna di noi, non ha placato la sua corsa in epoca odierna ma ha trovato nuovo slancio quando, nel corso della pandemia, è divenuta una fonte di reddito per numerose lavoratrici ritrovatesi senza occupazione.

La crisi economica generatasi durante e dopo il confinamento ha mietuto molte vittime, la maggior parte delle quali donne. I dati evidenziano come i tagli al personale abbiano colpito principalmente posizioni lavorative al femminile. Come far fronte, dunque, alle necessità d’ogni giorno? Molte donne, giovani e adulte, sono approdate al mondo del sex work online in cerca di guadagni, scontrandosi con la violenza di un fenomeno dalla preoccupante crescita come il revenge porn.

Ma il lavoro sessuale non si svolge solo dietro un monitor: tante sono le sex workers in Italia e nel mondo, a cui non viene riconosciuto alcun tipo di tutela, per le quali non è prevista alcuna legittimazione civica, sociale e professionale dell’attività svolta. Lasciate in balìa di abusi, marginalizzazione e precarietà, si dimenano tra promesse di legalizzazione e mancanza di regolamentazione. Un vuoto politico e culturale per cui si battono da mezzo secolo i movimenti femministi pro-sex.

Silvia Torri e Rita Giacobazzi, attiviste, artiste e fondatrici della compagnia Créature Ingrate, hanno trovato in tale tematica il fil rouge della propria ricerca scaturita dapprima in Flirt e poi in Bozzoli, spettacolo vincitore del Premio Cantiere Risonanze 2021.

Il Teatro di Figura con la sua capacità di innestare la metafora sulla vita, di amplificare lo sguardo e la riflessione, di parlare ad adulti, giovani e bambini si presta come potente mezzo di comunicazione e di annientamento dello stigma.

Approfondendo il processo creativo di Bozzoli, ne parliamo con Silvia Torri e Rita Giacobazzi.

Con Bozzoli portate avanti una riflessione delicata che, a partire dall’aumento di sex workers verificatosi in seguito alla pandemia, indaga i movimenti femministi pro-sex. Come nasce la scelta di questo tema?

Silvia Torri: Da molto tempo mi interrogo su questo tema in quanto donna e in quanto teatrante. Come donna, fin dalle prime scoperte della sessualità ho dovuto fare i conti con la stigmatizzazione che quasi tutte le donne subiscono. Sociologicamente è formalizzato lo “stigma della puttana” che colpevolizza e che affibbia una sorta di sporcizia alle donne in quanto esseri sessuati. Chi paga il prezzo più alto, tra il rigetto della famiglia, la marginalizzazione e le molestie sono però le prostitute. 

Dato il mio interesse per questa tematica, ho iniziato a lavorare nell’ambito dell’educazione sessuale rivolta a bambini, adolescenti e adulti per sfondare un tabù e creare uno spazio di apertura. Nella vita di tutti i giorni è più complesso affrontare argomenti simili, il teatro invece ci da l’occasione di portare tale dibattito a un livello pubblico. Ho creato il primo spettacolo sul tema che si chiama Flirt e che si collega alla ricerca che stiamo conducendo con Bozzoli.

Rita Giacobazzi: Entrambe riflettiamo da tempo sul tema come attiviste e donne, perché è qualcosa che riguarda tutte noi anche se ci sentiamo distanti dal mondo del sex work. Durante la pandemia, la questione è diventata enorme ai nostri occhi. Se noi abbiamo ricevuto dei sussidi come lavoratrici dello spettacolo, per le sex workers non è stato introdotto un sistema di protezione se non grazie alla sorellanza tra colleghe. Molte altre donne che hanno perso il lavoro si sono riversate in questa occupazione, anche online. Mi sono chiesta quindi come rappresentare tutto ciò attraverso il teatro d’oggetti, un linguaggio che ci parla da tempo e che permette di creare delle metafore anche scomode in maniera molto diretta.

La tematica trattata fa emergere una situazione preoccupante in termini di disparità da un punto di vista non solo occupazionale ma anche civico e sociale. Qual è in questo senso la situazione del nostro Paese? Da donne e da artiste, che tipo di responsabilità adduce un lavoro come Bozzoli

S.T: Ci sono molte realtà e associazioni che in Italia portano avanti questo discorso anche su un piano politico. La precarietà femminile è un problema importante e investe anche il lavoro sessuale che, non essendo regolamentato, deve sottostare a una serie di leggi che impediscono lo sfruttamento e l’incentivo alla prostituzione. Ciò comporta una mancata collaborazione tra le sex workers e una conseguente messa in pericolo delle lavoratrici sessuali che in tal modo vengono spinte alla solitudine. Più che disincentivare lo sfruttamento si disincentiva il lavoro stesso che consente a molte donne di far fronte alle necessità della vita. 

Il vuoto legislativo, in ambito di diritti e tutele, è collegato a un vuoto culturale: entrambi necessitano di essere colmati. Questo stigma accresce la violenza subita da molte lavoratrici sessuali che non possono denunciare, non essendo tutelate a livello lavorativo. In Italia la discussione politica sul tema è solo relativa alla legalizzazione, la vera questione è come regolarizzare. Le sex workers chiedono la decriminalizzazione del lavoro sessuale, molto diversa dalla legalizzazione che comporta una presa in carico dell’attività da parte dello Stato e la conseguente creazione di profitti.

R.G: In quanto donne abbiamo una sensibilità e un’esperienza particolare e specifica. Sento la responsabilità di avere uno sguardo intersezionale, riuscire a veicolare il mio messaggio in maniera chiara e con attenzione.

Una delle frange di questa tematica è il revenge porn, anche questo in rilevante crescita per via della sessualità online amplificata dal trasferimento in contesti telematici delle relazioni e delle pratiche sessuali. Per raccontare tale situazione, il vostro spettacolo affianca al teatro di figura tecniche di video-live. Come avete lavorato sull’ibridazione di questi linguaggi? 

R.G: Abbiamo ancora molta sperimentazione da fare in questa direzione. Nei primi dieci minuti che abbiamo presentato c’è un utilizzo parziale del video-live rispetto a quello che vorremmo diventasse. Il linguaggio video si sposa con la tematica del lavoro sessuale online perché permette di rinforzare la lettura dei meccanismi. Per il momento abbiamo lavorato su delle immagini e sull’interazione tra video e testo.

S.T: Abbiamo scelto di utilizzare questa tecnica in Bozzoli perché, oltre a essere a noi vicina, il teatro d’oggetti innesca un lavoro di immaginazione che chiediamo anche al pubblico. Il video ci serve per riempire il vuoto della metafora e creare altri paesaggi. Ciò che ci interessa è raccontare l’intimo e la video live può creare cortocircuiti interessanti e aprire spazi di senso inaspettati. 

La vittoria di Cantiere Risonanze vi da accesso a un percorso di sostegno che fornirà a Bozzoli una rilevante occasione di crescita. Su quali aspetti del lavoro intendete concentrarvi? In quanto giovane compagnia, che cosa significa per voi poter godere del supporto di un network nazionale?

S.T: Le prossime tranche di lavoro riguarderanno certamente la drammaturgia e la sperimentazione sui diversi linguaggi. Rita sta sottoponendo il progetto a dei tutor di eccellenza ma poter avere delle residenze a disposizione per approfondire il lavoro è veramente importante. Questa vittoria rappresenta un’occasione anche perché la mancanza di spazi è una delle frustrazioni più grandi per le giovani compagnie. Nel momento in cui guardiamo a ciò che facciamo come a un lavoro e non come a un hobby, è giusto non dover poi fare affidamento solo sulle proprie economie per far evolvere i progetti. 

Ricevere questa cura ci fa sentire meno sole, ci fa avere una visione del progetto. Inizieremo a capire anche come ottenere dei finanziamenti per rilanciare l’aspetto produttivo, adesso sentiamo di avere tutti gli strumenti per lavorarci.

R.G: È un’occasione meravigliosa anche per entrare in rete con realtà che sentiamo affini a noi e al nostro lavoro. Per noi è stato importante vincere con questo tema, ci siamo rese conto che c’è un’attenzione è come se la nostra ricerca fosse stata in qualche modo legittimata. Inoltre, l’idea delle residenze diffuse ci permetterà di confrontarci con pubblici diversi per scoprire le modalità di relazione che gli spettatori, in tutta Italia, applicano a questo tipo di narrazione.

Teatro di Figura, immagini di vita. Illoco Teatro racconta U-Mani

Teatro di Figura, immagini di vita. Illoco Teatro racconta U-Mani

Quello della compagnia Illoco – composta da Roberto Andolfi, Annarita Colucci, Dario Carbone, Cecilia Carponi, Anton De Gugliemo, Valeria Dangelo, Adriano Dossi, Alessia Giglio, Michele Galella – è un teatro artigianale, onesto, che svela la finzione concedendo allo spettatore una composizione dettagliata e personale dell’immagine.
L’ibridazione tecnologica che sta interessando molte delle manifestazioni artistiche del Teatro di Figura, a livello nazionale e internazionale, sta potenziando fortemente la dimensione immaginifica del genere senza mortificarne, piuttosto rinvigorendone, l’aspetto ancestrale. 

L’attenzione di Illoco Teatro nei confronti delle nuove generazioni è visibile, oltre che nella sperimentazione artistica rivolta ai nuovi linguaggi, anche nelle esperienze pedagogiche del gruppo. Da molti anni, infatti, Illoco si impegna in laboratori e workshop, in collaborazione con atenei e accademie, svelando tecniche e saperi del Teatro di Figura. Micromanipolazione, cinema e teatro compongono la triade di U-Mani – ultimo lavoro di Illoco, in cui echeggia la didattica lecoquiana in un delicato equilibrio tra cura della tradizione e scoperta del nuovo – che ha debuttato a giugno nell’ambito del Festival Storie di Lavoro di Civita Castellana, riscuotendo un importante successo di pubblico e di critica.

A gran voce, l’intero comparto del Teatro di Figura chiede che l’associazione al Teatro Ragazzi non incateni la fruizione del genere a pubblici di predefinite fasce d’età. Il Teatro di Figura, con i suoi artifici e le sue migrazioni in mondi altri, è in grado di affascinare spettatori d’ogni generazione, ponendosi come un teatro tout-public, ancora tutto da scoprire.

Ne parliamo con il regista Roberto Andolfi e con l’attrice Annarita Colucci di Illoco Teatro.

Con U-Mani affrontate la progressiva perdita di immaginazione che ha interessato diverse generazioni di ragazzi dall’avvento della tv, e che si è acuita sempre più con la diffusione della tecnologia. Partendo dalle esperienze pedagogiche che da sempre la vostra compagnia affianca a quelle artistiche, che valore è ancora in grado di apportare l’immaginazione nella vita dei più giovani e che ruolo può avere in questo processo di riscoperta il teatro di figura?

Roberto Andolfi: Rispetto al lavoro che facciamo con i ragazzi, e che abbiamo fatto negli anni nelle scuole, il Teatro di Figura può dare qualcosa in più. Questo spettacolo che abbiamo proposto, già durante la prima replica, mi ha fatto notare quanto le nuove generazioni tendano a fidarsi delle immagini. La soglia di attenzione che i giovani hanno su un attore in scena è bassissima, quella che hanno invece nei confronti di qualcosa che vedono in video è molto elevata. 

Vista questa grande fiducia nei confronti dell’immagine, la domanda che abbiamo deciso di porci riguarda il modo in cui possiamo entrare in dialogo con la tecnologia. Escludere la tecnologia dal lavoro teatrale è perdente con le nuove generazioni, perché il teatro è una lingua che non capiscono. Il Teatro di Figura può fare tanto in questa direzione se si confronta con sé stesso. Come Compagnia Illoco, siamo amanti delle compagnie d’arte, delle famiglie ma come artisti dobbiamo confrontarci con quello che succede intorno a noi: il covid, le nuove generazioni…altrimenti siamo noi che ci tiriamo fuori dal mondo.

I vostri spettacoli sono caratterizzati da una forte ibridazione dei linguaggi che prevede la compresenza tra l’artigianalità e le nuove tecnologie digitali. Qual è il punto d’incontro tra questi elementi e come viene strutturato il percorso di ricerca che conducete per il raggiungimento di una sintesi artistica?

R.A: Il punto di partenza è il nostro approccio alla ricerca teatrale. Quando abbiamo iniziato a lavorare con Michele Galella, che è un operatore, era lui l’unico della compagnia in grado di usare le macchine. Successivamente abbiamo capito che potevamo utilizzare le macchine anche noi, come facciamo con una sedia o una quinta, cioè approcciandoci al lavoro con curiosità e cercando di capire le potenzialità di quell’oggetto.

Da lì in poi gli attori hanno seguito Michele per capire quale fosse il centro del lavoro per poi dargli un valore artistico, cioè quello che consideriamo il lavoro d’artista: capire come funziona l’oggetto e poi come utilizzarlo, un lavoro che ha a che fare con i clown, il mimo, con la scuola lecoquiana da cui deriviamo. Mi sono reso conto sempre di più che Michele, da operatore, fa un movimento scenico che riesco ad associare alla didattica lecoquiana: muove il corpo, partendo dal bacino, esattamente come insegnava Lecoq o come fa Marceau. I linguaggi si incontrano, perché quando il corpo si allena fa le cose giuste.

Viviamo in un tempo in cui esibizione e vanità tendono a “ingrandire” la dimensione umana, lasciando l’intimità sempre più ai margini dell’esistenza. In questo contesto, il teatro di figura si pone in controtendenza: essendo un teatro legato al processo, alla minuzia, allo stupore, fa dell’intimità uno dei suoi maggiori elementi di attrazione. Come viene preservata questa caratteristica anche in un lavoro come U-mani che gioca sul disvelamento dell’artificio?

R.A: La tecnologia potenzia enormemente le minuzie, perché ci fornisce ciò che al teatro manca rispetto al cinema, ovvero la possibilità di comporre le immagini. Se io non mostro l’artificio, il manovratore, un filo, lo spettacolo non funziona più, perché l’immagine è data. Ho quindi disseminato degli errori perché quello è il trucco di magia svelato: mostrando l’illusione e il prestigio, lo spettatore può scegliere. Trovo che sia un buon modo di affrontare il teatro oggi, dato che l’illusione non esiste più. Mostrare i due piani insieme offre la possibilità di vedere il trucco e stare dentro la magia, come un allievo prestigiatore.

Annarita Colucci: L’assenza o la presenza del pubblico crea una differenza, anche laddove l’uso della tecnologia sembra creare un distacco, in realtà esiste sempre un rituale. Roberto ha spinto verso questa direzione. A livello attoriale il rapporto con il pubblico viene preservato anche se non lo guardiamo, perché lo sentiamo. In U-Mani c’è una doppia scrittura, quello che il pubblico vede in video e una coreografia interna portata avanti dagli attori, che tende a salvaguardare la relazione con lo spettatore.

È evidente il fervore che sta animando le sperimentazioni italiane nell’ambito del teatro di figura. Ma qual è la situazione del teatro di figura in Italia, da un punto di vista di tutele dei suoi lavoratori e delle sue lavoratrici e di opportunità di ricerca?

R.A: La regolamentazione del settore teatrale risale alla fine dell’800, per cui più ti tieni come lavoratore all’interno di un cluster, più sei in grado di giustificare all’istituzione cosa fai. Se sei un museo delle cere, che non evolve, sei più facilmente riconoscibile. U-Mani, che è evidentemente un lavoro di Teatro di Figura, potrebbe avere dei problemi di categorizzazione a livello ministeriale. Il sistema tende ad incasellare, è ottocentesco. Le istituzioni non hanno ancora un sistema neanche lontanamente in grado di concepire che quest’arte possa evolvere, questo allontana gli artisti dalla sperimentazione. 

A.C: Noi siamo cresciuti con il lavoro lecoquiano, l’immagine, il lavoro con l’oggetto, lo spazio, il lavoro dell’attore più che la prosa, prediligendo l’illusione scenica e l’immagine. Mi accorgo sempre di più che esistono realtà che finalmente sperimentano sul Teatro di Figura, distaccando il genere dal solo teatro per bambini. La possibilità del Teatro di Figura di rivolgersi come linguaggio a un pubblico adulto, inizia a farsi spazio anche in Italia. Nel resto del mondo, in Europa il Teatro di Figura è un teatro tout-public da 20 anni. Sono contenta che piano piano questo si stia verificando anche da noi.

Teatro di Figura, immagini di vita. Intervista a Zaches Teatro

Teatro di Figura, immagini di vita. Intervista a Zaches Teatro

È una storia che attraversa i secoli quella del Teatro di Figura, mutando nella forma e nei linguaggi, preservando artigianalità e ritualità. In un gioco di rifrazioni, burattini, oggetti e marionette, portano in scena l’umano sentire, celando e svelando mani e corpi che compongono l’atto teatrale. 

In Europa, il Teatro di Figura italiano ha rappresentato un importante traino per lo sviluppo del genere, ibridandosi con le maschere della Commedia dell’Arte, fino a giungere in epoca contemporanea a una contaminazione di tipo performativo e tecnologico.
Colto e popolare, alto e basso, improvvisazione e cura del dettaglio, minuzia e maestosità, magia e realtà: in questa compresenza antitetica risiede il fascino di un teatro erroneamente associato alla sola spettatorialità infantile, capace di coinvolgere fasce di pubblico eterogenee.

Della crisi generata dalla diffusione della pandemia il Teatro di Figura ha risentito fortemente a livello sistemico, ponendo numerosi quesiti sulla tutela destinata al genere. L’effervescenza delle sperimentazione e il fiorire di compagnie dedite a quest’arte, a livello nazionale e internazionale, necessitano di un’indagine approfondita che faccia affiorare il cammino impetuoso del Teatro di Figura.

Con il ciclo di ricerca Teatro di Figura, immagini di vita analizziamo lo stato di questo genere teatrale dando voce ad artisti e compagnie.

Nel corso della XXI edizione del festival Maggio all’infanzia, abbiamo incontrato Luana Gramegna ed Enrica Zampetti della compagnia Zaches Teatro – di cui fanno parte anche Francesco Givone, Stefano Ciardi e Gianluca Gabriele –, in scena con lo spettacolo Sybilla Tales, che mercoledì 30 giugno sarà presentato, nell’ambito del progetto Live Streaming Theatre, al Festival Dominio Pubblico di Roma.

Il lavoro di Zaches è incentrato sulla compresenza di diversi coefficienti artistici che restituiscono l’artigianalità del fatto artistico senza però complicare la fruizione dello spettatore che piuttosto viene spinto a porsi come produttore di senso. Come convive la ricerca della semplicità con impianti visivi e drammaturgici così sofisticati?

Luana Gramegna: Hai colto il centro della nostra ricerca: per noi la sfida risiede proprio in questo. Infatti le difficoltà in fase di creazione nascono dalla riflessione su come non rinunciare ai vari strati di lettura, pur cercando la semplicità della fruizione. Per me è sempre stato molto importante fare in modo che lo spettatore di qualunque età, provenienza sociale e culturale, potesse sentirsi partecipe di ciò che accade in scena

Mi riferisco a una partecipazione attiva, nel senso che tutto il lavoro è costruito in un modo per cui a chi guarda spetta il completamento del quadro, non solo a livello visivo ma anche emotivo e intellettuale. Pur interagendo sempre in maniera complessa, la compresenza di questi piani è il fulcro della nostra creazione. 

Enrica Zampetti: A un certo punto subentra un grande lavoro di sottrazione, perché all’inizio sperimentiamo tutti questi linguaggi, cercando un modo attraverso il quale possano integrarsi l’uno con l’altro. Nella fase attiva della ricerca c’è una grande sovrapposizione che poi, arrivando all’essenzialità, trova un’integrazione tra i vari linguaggi. Il giusto equilibrio.

Questo atto di semplificazione vi consente di affrontare la contemporaneità andando a rintracciare la radice archetipa delle narrazioni proposte, innescando di fatto una ritualità che mette al centro il pubblico. Quanto conta la dimensione rituale nel teatro di figura, un genere che fa di sensorialità e magia (intesa come capacità di dominare la natura) una caratteristica fondante? 

L.G: Il teatro di figura parte dall’ancestralità, dalla figura dello sciamano, dall’idea di totem, per questo pensiamo che sia molto importante recuperare la matrice rituale. Mi riferisco a quella materia invisibile di cui parla anche Paul Klee quando dice che l’obiettivo dell’arte risiede nel rendere visibile l’invisibile. Si tratta di forze che sono quelle della natura e da cui, nel mondo contemporaneo, ci siamo allontanati moltissimo. Nella ricerca che stiamo conducendo con La trilogia della fiaba, di cui Sibylla Tales è una costola, vogliamo proprio andare a riprendere gli archetipi e rimetterli in luce, farli riaffiorare con tutta la loro potenza.

E.Z: La forza dell’archetipo è relativa alla sua capacità evocativa, che non attinge alla logica preponderante nella nostra società occidentale, trovando invece una fonte in un universo più antico, spirituale.

L’ausilio di mezzi tecnologici ha rafforzato il vostro lavoro intervenendo ancor più sul coinvolgimento sensoriale degli spettatori. A partire dal 2020, invece, avete cominciato a sperimentare la fruizione streaming. Come è cambiato in questo senso il vostro approccio al lavoro e come siete riusciti a mantenere attiva  la relazione con il pubblico?

L.G: La macchina da presa si è rivelata uno strumento veramente interessante perché ha amplificato dettagli che, nel caso specifico di Sibylla Tales, sono molto importanti. Lo sguardo dello spettatore si è immedesimato nell’obiettivo, innescando il desiderio di rendere tangibile quanto veniva visto. Quando il lavoro si è spostato in presenza abbiamo cercato di capire come portare con noi quest’eredità. 

Il linguaggio delle proiezioni video ha completato l’immagine in scena senza sostituirla. Ci stiamo ancora interrogando sulla questione del dettaglio, anche perché il lavoro ha debuttato da poco. Vogliamo capire ancora come riuscire a riportare quel coinvolgimento che si era creato con lo streaming e che in uno spazio teatrale più ampio rischia di perdersi. Sono sicura però che organizzando meglio lo spazio di fruizione, saremo in grado di ricreare quel coinvolgimento.

E.Z: Con il live streaming abbiamo avuto modo di creare un progetto che ci ha consentito di incontrare i ragazzi, anche se in forma digitale, sia prima sia dopo lo spettacolo, facendoli entrare in una dimensione creativa e di vita, che altrimenti non avrebbero potuto percepire. Abbiamo colto lo stupore del pubblico che, attraverso la live, ha potuto vivere la collettività, accedendo a quel contagio emotivo che si verifica tra spettatori.

L.G: In questo senso spero che il teatro, grazie alla pandemia, riesca a entrare anche in contesti in cui purtroppo non vi è una grande qualità, offrendo un’alternativa a ciò che di solito i ragazzi guardano. 

Il Teatro Ragazzi ha subito un’importante battuta d’arresto a causa della pandemia, che ha reso evidenti i limiti di un sistema spettacolo che tende a tutelare debolmente alcune posizioni lavorative, come gli intermittenti, particolarmente diffuse in questo genere teatrale. Considerando anche la vostra lunga esperienza all’estero, di quali azioni di sostegno necessiterebbe il Teatro Ragazzi italiano?

E.Z: Innanzitutto non dovrebbe essere considerato un teatro pensato solo per i ragazzi: il teatro è teatro. Pensiamo il teatro per un tout public, ma per una questione pratica lo spettacolo viene categorizzato. Questo però lo sminuisce, lo definisce automaticamente un teatro di serie B. All’estero, soprattutto in Russia e in centro Europa, non si percepisce un distacco così netto tra il teatro per adulti, il teatro per ragazzi e il teatro di figura. Già cambiando i termini linguistici con cui si definiscono le cose si cambia la percezione delle cose stesse.

L.G: Credo che il problema si anche culturale, molto legato al nostro paese: il teatro di figura all’estero è un teatro di ricerca, d’avanguardia molto forte e può essere per adulti come per bambini. Poi è chiaro che nella creazione si guardi più a un target che ad un altro ma solo qui esiste questa grande differenza. Esistono dei temi spinosi, come la morte, la paura, il buio che si ha paura di affrontare in sala perché richiedono un lavoro ulteriore prima e dopo la visione. Noi cerchiamo sempre di proporre un progetto più ampio, culturale e per questo non possiamo portarlo avanti da soli come compagnia. C’è bisogno che i programmatori e gli organizzatori abbiano in mente un progetto più ampio perché non possiamo farlo da soli.