Di pupi e opranti. Il patrimonio tattile di Mimmo Cuticchio
Quella dell’Opera dei pupi è un’antica storia di devozione. Nel corso dei secoli, intere famiglie si sono dedicate cuore e bottega a quest’arte che ha posto le radici sul suolo trinacrio, facendo vibrare i palmi di spettatori d’ogni luogo. Il legame tra oprante e pupo è di una profondità archetipa: in quella danza di fili si genera un’energia capace di costruire mondi altri. Mondi che hanno saputo affrontare il mutare delle stagioni, il corrodersi del tempo, l’affanno della tecnologia.
L’Opera dei pupi è giunta fin qui ed è viva più che mai in quel patrimonio di memoria e sapienza che sono le mani di Mimmo Cuticchio. Raccolta l’eredità di una grande tradizione tramandatagli dal padre Giacomo, maestro puparo, Mimmo Cuticchio fonda nel 1971 la compagnia Figli d’arte Cuticchio. Da allora sono passati cinquant’anni, un traguardo che la compagnia ha scelto di celebrare con la rassegna web Il teatro di Mimmo Cuticchio. Un cartellone digitale composto da dieci spettacoli, tra i più rappresentativi dei Figli d’arte Cuticchio, disponibili online da aprile a giugno 2021.
Ma trasporre sul web il teatro dei pupi non è solo un modo di assecondare l’impossibilità dettata da questi tempi funesti: per Cuticchio significa fare ancora una volta i conti con la propensione verso l’ibridazione e l’innovazione che ne hanno caratterizzato la statura artistica.
Tracciando il lungo itinerario di una storia di famiglia fatta di legno, incontri, fili e legami, Mimmo Cuticchio racconta l’Opera dei pupi.
Il lavoro di Figli d’arte Cuticchio si è diretto verso un rinnovamento che ha consentito la sopravvivenza dell’Opera dei pupi. Spesso, però, la tradizione appare come qualcosa di intoccabile. Nell’addentrarsi in un’operazione come quella da lei condotta, fatta di apertura, ibridazione, scoperta, esiste un confine invalicabile?
Tra passato e futuro non esistono confini, siamo noi che costruiamo muri e frontiere. Io non difendo il passato per dirigermi verso il futuro e non calpesto il futuro per recuperare il passato. Da ragazzo ho conosciuto il pubblico tradizionale, quello che partecipava per anni al lungo ciclo dei Paladini di Francia. Era un pubblico che seguiva l’Opera dei pupi fin da giovane e che, in platea, diventava adulto. Frequentando a lungo questo teatro, gli spettatori si affezionavano ai personaggi che mio padre Giacomo rappresentava con il suo ciclo perché, pur essendo antichi, quei racconti parlavano dei sentimenti dell’uomo.
Ho vissuto la mia infanzia con i pupi, sono nato e cresciuto tra i pupi, poi ho visto il declino alla fine degli anni ’60, quando il pubblico di appassionati è diminuito, distratto com’era dalla televisione.
Cefalù fu l’ultima piazza che feci con mio padre nel 1967, dove lui scoprì un nuovo pubblico, quello dei turisti, che trovava nell’Opera dei pupi un teatro antico ma ancora vivo. Così mio padre decise di spostarsi a Palermo dove nel ‘69 inaugurò il Teatro Ippogrifo, che lavorava per i turisti, in continuo aumento in città. Io, Nino e Guido – i miei fratelli – eravamo sul campo di battaglia a mettere in scena gli spettacoli di papà.
Mio padre, avendo fatto ormai la sua carriera, si accontentava di questo nuovo pubblico a cui proponeva ogni giorno gli stessi spettacoli: La Morte di Ruggiero dell’Aquila bianca oppure qualche episodio di Orlando e Rinaldo. Era convinto che in questo modo potesse risparmiare la voce e conservare meglio i suoi pupi. All’inizio lo trovavo divertente, poi sono arrivato al punto di sapere esattamente quando gli spettatori mi avrebbero applaudito, come innescare l’applauso con il virtuosismo. Avevo vent’anni e dopo numerose repliche ero ormai annoiato, quindi tentai di convincere mio padre a riprendere il ciclo ma lui non volle, aveva perso un pubblico ma ne aveva guadagnato un altro e non aveva intenzione di cambiare.
Nel 1971 ho dato vita alla compagnia Figli d’Arte Cuticchio. Ho costruito una quindicina di pupi con grande sacrificio, lavorando notte e giorno, poi ho aperto un teatrino a Trabia, vicino Palermo, dove tentai di fare ancora il ciclo. Nel periodo invernale funzionò ma, essendo una zona balneare, nei mesi estivi non veniva nessuno. Allora ripresi a fare spettacoli itineranti: avevo una 600 multipla con un portapacchi rinforzato su cui caricavamo i pupi e con cui raggiungevamo festival, giardini, piazze, scuole.
Non ci presentavamo più con il nome del titolare del teatro, come si era fatto per 200 anni ma con una nuova dicitura: Figli d’arte Cuticchio. Ho pensato di partire da quello che eravamo, da quello che siamo, dei figli d’arte. E i figli d’arte per me sono tutti coloro che amano l’arte. Quest’anno celebriamo 50 anni di attività dei Figli d’arte Cuticchio.
Man mano che continuavo a costruire i miei pupi, mi rendevo conto che urgeva dare loro una casa. Girando nel quartiere dell’Olivella – dove 10 anni prima mio padre aveva aperto un teatrino – trovai in Via Bara un magazzino abbandonato, vicino alla chiesetta della Madonna dell’Odigitria, la Madonna dei viandanti.
Lì, il 29 luglio del 1973, inaugurai il Teatrino dei pupi. Qualche tempo dopo, durante un’intervista, stavo passeggiando nel vicolo che ospita il teatrino con un giornalista che mi chiese come si chiamasse il teatro. Io lo chiamavo semplicemente Teatrino dei Pupi ma inventai un nuovo nome. Nel momento in cui stavo per rispondere a quella domanda, alzai gli occhi e vidi la cappelluccia con la Santuzza Rosalia e così dissi: «Si chiama Teatro dei Pupi Santa Rosalia». Volendoci ripensare, Santa Rosalia è la patrona di Palermo ed è bello che si chiami così, anche se noi lo continuiamo a chiamare il Teatrino.
Intanto, con la nascita dei quartieri popolari nella zona nord, il centro di Palermo iniziava a sfasciarsi. Chi sarebbe venuto al Teatro dei pupi? Pian piano iniziarono a frequentarlo i ragazzini del quartiere dell’Olivella e del Rione Capo: mi ritrovai con il teatrino strapieno di giovani che animavano il mio ciclo. Si affezionavano talmente tanto ai personaggi che durante duelli e battaglie urlavano per sostenerli. Era meraviglioso perché le grida di quei ragazzi durante lo spettacolo risuonavano in tutto il quartiere. Le nuove generazioni mi hanno incoraggiato a continuare, poi iniziai a scrivere testi nuovi.
Tra il ’73 e il ’74, presentai in anteprima Giuseppe Balsamo conte di Cagliostro, con una sessantina di pupi nuovi vestiti con abiti del ‘700. Essendo palermitano, il personaggio di Cagliostro sostituì il Mago Malagigi e anche Orlando se vogliamo. Questo pupo non fece un intero ciclo ma un solo spettacolo. Fu una carta vincente perché i giornalisti iniziarono a parlare di me, che all’epoca avevo 25 anni, come di un giovane che voleva rinnovare una tradizione con pupi e testi nuovi.
Più facevo nuovi spettacoli, più pensavo che, come durante una crisi in cui non nascono bambini, quei nuovi pupi rappresentassero una vita nuova. Soprattutto negli ultimi 20 anni ho lavorato per un teatro di comunicazione, che parlasse dei sentimenti umani e di ciò che accade nel mondo, in parte conservando le tecniche e i saperi che ho imparato da mio padre, in parte sperimentandone di nuove.
Pensando alla questione dell’integrazione, ho creato Aladino di tutti i colori. Sono solito portare questo spettacolo proprio nei luoghi in cui c’è una forte resistenza all’apertura nei confronti degli immigrati.
Spesso, bambini e ragazzi che provengono da famiglie di diverse nazionalità e che vivono in Sicilia non frequentano l’arte perché i loro genitori temono che nei nostri spettacoli si parli della nostra religione. Allora ho scelto una favola vicina alle loro tradizioni, quella di Aladino e la lampada meravigliosa da Le mille e una una notte e ne ho costruito il copione secondo il linguaggio dell’Opera dei pupi. In questo spettacolo non si parla di Maometto, di Buddha, di Krishna, di Cristo, raccontiamo solo l’amore, la famiglia, i viaggi, i sogni. Questo è il consiglio che vogliamo dare ai ragazzi: non perdete i sogni, perché essi sono il patrimonio dell’uomo.
Una delle maggiori rivoluzioni rispetto alla tradizione dell’Opera dei pupi risiede nell’aver svelato gli opranti in scena. Quando ciò accade è come se venisse a mancare la certezza che il teatrino dà rispetto alla manovrazione agita dal puparo e subìta dal pupo. Le rivolgo una domanda che mi è capitato di pormi alle visione di Nudità, uno dei suoi spettacoli, creato insieme a Virgilio Sieni, in cui avviene il disvelamento: chi manovra chi?
Kleist e Craig sono i due intellettuali che hanno maggiormente studiato e teorizzato l’arte della marionetta. Io e Virgilio Sieni abbiamo letto e studiato questi autori, lui come coreografo e io come oprante puparo. Per lavorare a Nudità ci siamo posti proprio questa domanda: Chi è l’uno e chi è l’altro?
Abbiamo deciso di lavorarci insieme cercando di capire cosa potessimo fare noi e cosa potesse fare la marionetta, sostenendoci, ispirandoci a vicenda. La marionetta muore se tagliamo i suoi fili, allo stesso modo il danzatore invecchia se spezziamo la sua energia.
Abbiamo iniziato a sperimentare lavorando con alcuni giovani durante dei laboratori. Poi abbiamo trovato una nostra sintesi che abbiamo portato in scena. Inizialmente avevamo individuato una ventina di pupi tra i mille che ho nel mio teatro, infine abbiamo scelto 2 marionette: un’ossatura – un corpo che non è ancora un personaggio – e un pupo armato, Orlando che rappresentava la nostra folle volontà di lavorare su cose che già 100 anni fa erano state messe in evidenza da illustri personaggi come Kleist e Craig. Se non potevamo sperimentare qualcosa di nuovo, volevamo quantomeno verificare ciò che avevamo studiato.
L’Opera dei pupi ha subito una mutazione anche in termini di durata degli spettacoli, dovendosi adattare alle trasformazioni socio-culturali che hanno comportato una fruizione sempre più veloce. Considerando l’anno appena trascorso, questo adattamento riconduce al cambiamento rivolto al digitale che è in atto nel teatro, in termini di strumenti, di supporti, di relazioni. Essendo lei custode di una tradizione tattile, antica, come si pone rispetto a questa mutazione?
Per mezzo di questa disgrazia, ho potuto mettere concretamente in atto la proposta che facevo continuamente a papà quando ero ragazzo. “’A televisione nni sta ammazzannu”, ripeteva negli anni ’60. Io ero giovane e cercavo di fargli capire che la televisione era un’invenzione utile, che dovevamo imparare a sfruttarla anche noi dato che non potevamo combatterla. Tentai per anni di proporre agli autori di alcune trasmissioni televisive di realizzare con i pupi un ciclo di storie per ragazzi. A tutti sembrava un’idea interessante ma non se ne fece mai nulla.
Ormai siamo chiusi da più di un anno, il nostro è un piccolo teatrino da 90 posti che, quando e se riaprirà, non potrà ospitare più di 25 o 30 persone. Ho pensato che questo fosse davvero il momento giusto per dare tornare ai discorsi che facevo con papà. Così è nata l’idea di una rassegna digitale, Il teatro di Mimmo Cuticchio, che raggruppa gli spettacoli dei Figli d’arte Cuticchio.
Con questo primo cartellone online, entriamo nelle case delle persone ma a testa alta, dalla porta principale, senza dover più chiedere il permesso di fare l’Opera dei pupi in tv e in digitale.
L’ultimo spettacolo che manderemo in onda sarà La fuga di Enea, dall’Eneide di Virgilio. Si tratta dell’ultimo copione che ho scritto nel 2020 e per il quale sono nati 30 nuovi pupi che lavorano con 20 pupi antichi per raccontare, attraverso l’Eneide, il viaggio dei Figli d’arte Cuticchio. Da più di 50 anni sogno di presentare i miei spettacoli anche a un pubblico più giovane che non ha potuto seguire il nostro lavoro più datato, ma anche di realizzare uno spettacolo pensato appositamente per la visione in digitale.
Per La fuga di Enea, infatti, abbiamo invitato nel nostro teatro Chiara Andrich, una giovane regista che collabora spesso con noi e che ha ripreso lo spettacolo. Per realizzare le riprese de La fuga di Enea ho preso a modello Eduardo, montando lo spettacolo scena per scena. L’opera dei pupi è un teatro popolare che ha bisogno della presenza del pubblico. Oggi però sono certo di poter dire a mio padre che dopo una grande lotta per la sopravvivenza, sono riuscito portare il teatro dei pupi nelle case di tutti, attraverso un mezzo moderno.
La rassegna Il teatro di Mimmo Cuticchio celebra 50 anni di attività dei Figli d’Arte Cuticchio. Cosa immagina per il futuro della sua compagnia?
Fortunatamente ho avuto due figli, Giacomo e Sara entrambi nati e cresciuti tra i pupi. Giacomo è maestro di pianoforte e compositore, scrive le musiche per il nostro teatro. So che mio figlio ha imparato ad amare le marionette come ho imparato io. Mia figlia Sara è laureata in psicologia, i pupi ce li ha nel sangue tanto che li usa per fare terapia a bambini e ragazzi. Ho anche molti collaboratori che hanno studiato con me ma pensare che oggi possa nascere un nuovo teatrino per la continuità del passato, credo sia anacronistico.
Devono continuare a esistere la passione e l’idea; occorre conservare la tecnica, riutilizzarla, stravolgerla. Tutto si trasforma e se vogliamo che qualcosa sopravviva dobbiamo accettare il cambiamento. Quando faccio i miei spettacoli spero sempre che ci sia tra gli spettatori un bambino che magari io non ho notato ma che mi ha spiato mentre lavoravo e che inventerà un altro pupo, forse vestito da astronauta, che forse parlerà di Marte o della luna. Non posso sapere se sia vero, se questo accadrà ma me lo auguro.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.