4 domande per 4 compagnie. Ctrl+Alt+Canc e Muchas Gracias/Teatro C’Art, aggrapparsi alla caduta

4 domande per 4 compagnie. Ctrl+Alt+Canc e Muchas Gracias/Teatro C’Art, aggrapparsi alla caduta

Per indagare lo stato del teatro contemporaneo e offrire processi di cura e di sostegno, il PimOff, per il secondo anno consecutivo, ha indetto un Premio che giungerà al suo esito finale il 23 ottobre.
L’eterogeneità delle proposte presentate e selezionate è segno di un’attività fervente, non arenatasi a seguito delle difficoltà che hanno investito il settore dello spettacolo dal vivo negli scorsi mesi.

“Il teatro è ancora vivo”, si grida dalle tastiere e nei foyer, una vivacità che, però, non va rintracciata nella sola — ci si augura sempre maggiore — presenza in sala ma anche e soprattutto nella sperimentazione. La ricerca, croce e delizia dell’arte, richiede tempo, quello che PimOff intende fornire per consentire uno sviluppo creativo sganciato dalle vorticose dinamiche distributive. Proprio qui risiede l’alto valore del Premio PimOff, ideato da una realtà composta da professioniste attente ai processi di crescita dei progetti in concorso e del teatro tutto.

Ne abbiamo parlato con Alessandro Paschitto della compagnia Ctrl+Alt+Canc, regista di Mastroianni e con Julieta Marocco e Chiara Fenizi di Muchas Gracias Teatro/Teatro C’Art, attrici e autrici di Lei Lear, due progetti dalla struttura originale che, attraverso la bizzarrìa, addomesticano il presente. 

Mastroianni

Ctrl+Alt+Canc

Come si è avviato il percorso di compagnia di Ctrl+Alt+Canc? Vi è già una riconoscibilità stilistica che caratterizza le vostre produzioni? In questo senso, quali sono i vostri riferimenti?

La compagnia è composta da me, Francesco Roccasecca e Raimonda Maraviglia. Ctrl+Alt+Canc è la sequenza di tasti che si digita disperatamente quando non sa più che fare davanti a un pc malfunzionante, soprattutto se non si è a proprio agio con l’informatica. Ci è sembrato che avesse un significato intuitivo, che fosse un modo immediato e diretto per “contattare un tema”, pur consapevoli di non possedere lo strumento più adeguato. Il percorso è partito con il progetto Opera didascalica con cui debuttiamo a novembre al Teatro di Napoli.

I nostri lavori sono caratterizzati dalla sottrazione della forma: rinunciamo ai meccanismi classici della drammaturgia e della messa in scena ovvero la continuità psicologica, la trama e il personaggio. Cerchiamo di ridurre al massimo le strutture presenti e di lavorare nel qui e ora, sulla presenza e sulla specificità del performer. Non fornendoci appigli, siamo continuamente costretti ad aggrapparci a qualcosa e questa è la ragione drammaturgica che porta avanti il progetto.
«Non potendo aggrapparci a niente, ci aggrappiamo alla caduta».

Mastroianni è la performance-concerto che presenterete al Premio PimOff, un progetto che dal divismo cinematografico vira verso una riflessione sulla contemporaneità. Intorno a quali temi ritieni sia urgente accendere o ri-accendere il dibattito? Su cosa riflette Mastroianni?

Cosa importa agli spettatori di ciò che facciamo? Come possiamo entrarci in contatto? Questo è il macro-tema all’interno del quale per me ogni tema è lecito. Dobbiamo lavorare su qualcosa che riguardi in maniera profonda e inattesa chi viene a vedere uno spettacolo teatrale. Un altro macro-tema su cui urge interrogarsi è la forma, non solo quella testuale o registica ma proprio la forma di interlocuzione, quella forma di relazione tra il performer e lo spettatore. Potremmo chiamarla la “cornice comunicativa” o in altri mille modi ancora ma resta il ventaglio di modalità con le quali si comunica con qualcuno. In questo senso Mastroianni parte da un’impossibilità molto concreta: è davvero difficile riuscire a capire attorialmente e performativamente come realizzarlo, c’è un piccolo bug per cui non si riesce a catturarlo. Questo bug, analizzato sempre più da vicino, ci porta lontani da Mastroianni che non è più solo una figura dell’immaginario, un attore, il volto sullo schermo che tutti conosciamo ma un fenomeno, qualcosa che ci abita e che si scompone, una sorta di virus, con un’estensione metastatica che scopriamo abitare tutte le cose. 

Tutto è infettato da questa cosa che ha ereditato il nome Mastroianni ma che si è completamente svuotata del suo significato: Mastroianni è tutto quello che non va all’interno di tutte le cose del mondo. La cosa interessante a cui arriviamo è che non siamo noi ad andare alla ricerca di Mastroianni ma siamo gli strumenti attraverso cui Mastroianni si manifesta. Scopriamo che non solo noi non siamo più noi, ma che siamo un’estensione di Mastroianni e questa cosa ci piace, ci fa comodo. Questo è l’altro aspetto interessante: non è solo la rinuncia di qualcosa che non va ma scoprire che siamo noi la cosa che non va. 

In questo lavoro è molto forte la compresenza di linguaggi: dalla musica alla performance fino alle video-installazioni. Come avete strutturato questa ibridazione? I plurimi linguaggi utilizzati sono stati mezzo con cui tradurre in scena il piano ideativo dello spettacolo, o piuttosto elementi sorgivi del processo creativo?

La scrittura è stata la sorgente principale. Utilizziamo diversi linguaggi ma non c’è la volontà di comunicare delle cose attraverso questo passaggio di testimone, quanto piuttosto di creare un “guazzabuglio” di immagini e musica: lo spettacolo inizia come una conversazione nel qui e ora tra noi e gli spettatori e man mano è come se marcisse. In questo caso, infatti, la commistione dei linguaggi non è una cosa che chiarifica ma che sporca la comunicazione. Intendiamo di fatti indagare come, attraverso il linguaggio, non si crei un mondo altro o una realtà diversa di rappresentazione, ma come si faccia emergere nella realtà scenica qualcosa di diverso. Attraverso il linguaggio la realtà stessa che stiamo abitando in quel momento si deforma e rivela valori inaspettati. Ci interessa più far emergere la realtà presente anziché fingere una seconda realtà a cui noi abbiamo sempre avuto difficoltà a credere. Abbiamo bisogno di sentire che stiamo parlando di cose vere e riconoscibili a cui chiunque può accedere. 

Diverse realtà italiane stanno apprezzando il tuo percorso artistico. Il Premio PimOff è un’attenzione rinnovata verso la tua arte. Che tipo di sviluppo stimolerebbe la vittoria di questo premio?

Ci regala la risorsa più importante in assoluto: il tempo e, insieme, la sostenibilità di quel tempo. Sostenere un lavoro teatrale in questo periodo significa attingere a qualunque risorsa temporale e materiale, costruire uno spazio in cui non chiudere il prodotto velocemente ma metterlo in crisi e aprire delle domande. Ci piacerebbe porci una domanda e conservare la possibilità di non rispondere subito, per prendere un tempo di sedimentazione dentro di noi. Questo tempo consente al lavoro di diventare un frutto maturo uscendo dalla logica e dall’ansia prestazionale che in alcuni casi è sicuramente efficace perché può aiutare a dare il meglio, ma in altri significa non approfondire davvero la soluzione.

Oltre alla tutela di uno spazio protetto dal punto di vista del finanziamento, della risorsa e del tempo, c’è la possibilità di un seguito. Al posto di questo vecchio mito dei “contatti” ci sono degli interlocutori con cui condividere la volontà di continuare insieme un percorso. Abbiamo bisogno di incontrare lo staff del Pim Off perché vogliamo capire cosa vedono nel nostro lavoro e abbiamo voglia di incontrare la loro realtà. Successivamente, possiamo proseguire in qualche modo e andare fino in fondo a un certo tipo di percorso: quando questo capita il pubblico si sente infinitamente contattato. 

Lei Lear

Muchas Gracias Teatro / Teatro C’Art

Come è avvenuta la scelta di collaborare con Teatro C’Art? Come hanno trovato una sintesi le vostre modalità compositive?

Julieta Marocco: Abbiamo conosciuto André Casaca durante un laboratorio da lui condotto e a noi interessava avere uno sguardo “clownesco” sul nostro lavoro – che di per sé ha una carica clownesca importante – nato da una collaborazione con Alfonso Santagata. Abbiamo creato tre personaggi in un contesto noir da cui spesso partiamo per dirigerci verso una comicità naïf legata all’improvvisazione, al contatto con il pubblico e all’assurdo.
Eravamo sicure che avremmo trovato la forma scenica più adeguata anche grazie al supporto di André. Ci siamo trovati subito bene nonostante le diverse modalità di lavoro completandoci a vicenda. È stato un bell’incontro perché ci ha fatto crescere e lavorare in modo naturale, fluido e nel rispetto del materiale che avevamo già.

Durante la finale del Premio PimOff presenterete lo spettacolo Lei Lear, l’ultima parte di una trilogia di spettacoli di creazione denominata “Trittico Urbano”. Mi parlereste di questa trilogia? Perché Lei Lear ne è l’epilogo?

J.M: La trilogia è una produzione internazionale, soprattutto per il mio essere fortemente radicata in Brasile e in Spagna. La trilogia nasce da un’attenzione alle differenze tra lo sguardo pubblico e privato. Io provengo da una realtà in cui lo spazio è molto differenziato rispetto a quella europea: ciò che è pubblico fa parte di un universo completamente distante da ciò che è privato. L’idea di indagare il senso della condivisione è cambiata nel tempo ma è sempre rimasta nel nostro lavoro, tornando con forza nell’ultimo anno e mezzo.

Chiara Fenizi: Volevamo finire questa trilogia con la volontà di lavorare su uno spazio virtuale. Abbiamo una modalità di lavoro poco predefinita, ci piace iniziare dalla forma dei personaggi o dalla suggestione di un’immagine o di un luogo; le nostre decisioni vengono assieme alla ricerca poi, a un certo punto, emerge una particolarità tematica che mette fine al lavoro. Ci facciamo tante domande e non riconosciamo quello che sta succedendo. Risulta difficile fare una previsione, è come se vivessimo per la prima volta un momento storico per cui non abbiamo riferimenti e facciamo fatica a immaginare quale sarà il prossimo episodio.

Questo è il luogo che stiamo cercando di far emergere nel nostro lavoro, anche perché abbiamo preparato questo spettacolo in casa, in piena pandemia proprio quando la chiusura ci ha fatto vivere il rapporto con lo spazio in modo diverso: da lì è venuto tutto. A parer mio i lavori vengono sempre contaminati da ciò che avviene nel proprio tempo.

Nei materiali di presentazione Lei Lear viene definito uno spettacolo “cacofonico”. Perché? Quali atmosfere lo caratterizzano?

J.M: È concretamente cacofonico. La simbiosi tra i due personaggi crea nervosismo, precarietà. La tensione che si è generata nei mesi di preparazione è diventata parte del lavoro. Questo crea cacofonia, una strana interferenza mentre parliamo all’unisono e che va trasposta all’intera struttura dello spettacolo: è come se mancasse una certezza drammaturgica e registica

C.F: Emerge in questo senso la volontà di avere l’altro, di dominarlo e di averlo sotto controllo. C’è la costante necessità di dare la battuta all’altro e queste dinamiche sceniche raccontano spontaneamente ciò che volevamo raccontare non sapendo inizialmente come farlo.

In cosa la vittoria del Premio PimOff potrebbe essere d’aiuto alla crescita del progetto?

J.M:  Mi piacerebbe inserirmi in un contesto che per la nostra compagnia è abbastanza sconosciuto. Mi piace l’idea di raccogliere e unire proposte che si dicono contemporanee e dare loro visibilità pur essendo in fase di crescita. Lavorando a livello internazionale, abbiamo ancora tanto da conoscere del mondo teatrale italiano.

C.F: Per noi lavorare in Italia non è stato semplice. Questo ci spingerebbe un a inserirci nel contesto italiano che a noi è risultato abbastanza difficile. Vorremmo continuare la nostra ricerca in Italia. Questo premio può essere un accesso, un’occasione di condivisione e di studio.