da Edoardo Borzi | 3 Set 2021 | Uncategorized
Abbiamo raggiunto al telefono Sandro Mabellini, regista dello spettacolo Trainspotting, per chiedergli alcune battute intorno al lavoro di trasposizione scenica dell’omonimo romanzo di Irvine Welsh – da cui Danny Boyle trasse il film cult degli anni ‘90 – per approfondire e comprendere il legame fra l’estetica e la ricerca teatrale e le forme letterario-drammatiche, mutuate dalla versione di Wajdi Mouawad – tradotta in italiano da Emanuele Aldrovandi.
Trainspotting, in scena a Roma al Teatro Brancaccino dal 5 al 8 Aprile, è il risultato di un processo di confronto creativo e di riscrittura scenica dell’opera drammaturgica da parte degli attori Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali e Marco Bellocchio, coordinati dal regista Mabellini. Lo spettacolo, prodotto dal Festival Intercity di Sesto Fiorentino e dal Festival Quartieri dell’Arte di Viterbo con Alessandro Longobardi – Teatro Brancaccio insieme all’Accademia degli Artefatti, ha ottenuto di recente un grande successo al Teatro i – Milano.
Trainspotting ph. manuela porchia
La droga, l’arte e la politica
Risponde Sandro Mabellini: « L’autore Irvine Welsh ha scritto il romanzo perché aveva avuto problemi con la droga e dopo essersi disintossicato ha scritto il testo come una forma catartica. Quasi una specie di allucinazione a occhi aperti su esperienze che aveva vissuto: per l’autore il romanzo.è molto autobiografico
Io e gli altri attori, che non abbiamo vissuto questo tipo di droghe, abbiamo tentato di immedesimarci in una forma di malessere che può provare un giovane di oggi rispetto ai modelli univoci che propone la società capitalistica. Se un giovane non si sente tutelato e rappresentato può darsi che decida di rifiutare totalmente questi modelli e di accettare le proposte di drogarsi perché preferisce tutto questo piuttosto che accettare la vita che gli viene imposta.
Secondo me anche in Italia oggi ci sono situazioni simili, in tutte le province, dalle periferie alle metropoli. Purtroppo ci sono molti giovani che comunque continuano a fare uso di eroina e di altre droghe. Questa situazione però si può leggere anche in una chiave politica perché laddove lo Stato non tutela e non offre modelli sociali alternativi ci può essere un rifiuto sociale come nel caso di Irvine Welsh.
Rispetto alla versione cinematografica non c’è alcun riferimento tranne ovviamente i quattro personaggi; anche ell’adattamento teatrale di Mouawad non vi è alcun riferimento al celebre monologo iniziale presente nel film. Ci siamo quindi voluti distaccare dal film per non cadere nella retorica. In ogni caso se uno ha letto il romanzo o ha visto il film ritrova quelle situazioni però in un’ottica teatrale.»
Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio ph. manuela porchia
Processo di dialettica attoriale e di sintesi registica
« Io ho coinvolto praticamente tutti e quattro gli attori, i quali sono registi e autori. Con loro c’è stato un processo quasi condiviso anzi addirittura come regista mi sono sentivo di troppo perché volevo solo accondiscendere il processo creativo che accadeva di fronte ai miei occhi. Ho scelto gli elementi che volevo mettere in scena ponendo una griglia dentro la quale fare interagire le parti.
La drammaturgia è stata rielaborata dagli attori. Le cose sono avvenute naturalmente con molta complicità e molta consapevolezza ed è la prima volta che mi succede una cosa del genere. Qui è arrivato il lavoro iper-positivo da parte di tutti, senza egocentrismo quindi si è creato un lavoro collettivo. Gli attori si fanno da soli le luci durante lo spettacolo e gestiscono i suoni attraverso un computer – infatti non abbiamo assunto nemmeno un tecnico per questo lavoro.
Abbiamo trovato su Internet e utilizzato in una scena abbastanza clou dello spettacolo una versione di “Felicità” di Albano e Romina mixata con un pezzo dei Moderat – storico gruppo di musica elettronica. Questo brano crea veramente uno straniamento in un momento in cui gli attori parlano di cosa significhi assumere eroina e degli effetti che provoca. C’è un Climax emotivo legato all’uso dell’eroina e c’è questo contrasto con la musica anni ‘80 che sembra ricreare la società ideale attraverso le figure di Al Bano e Romina, emblemi della felicità, la cui storia – come si sa – è andata poi allo sfacelo.»
Reazioni del pubblico
« Ho percepito molta sensazione di disgusto rispetto alle droghe e rispetto alle storie narrate. Una serie di elementi triviali che hanno provocato al pubblico una forma di disgusto in grado di creare anche un pensiero e delle domande intorno alla questione. La durezza del linguaggio del testo comunica fortemente il malessere di una contemporaneità, io lo sento molto attuale.
A volte c’è anche un processo di identificazione con quelle storie come quando abbiamo fatto lo spettacolo a un festival a Vitorchiano vicino Viterbo. I giovani di quel paese, digiuni di teatro, totalmente immedesimatisi nella storia, ci hanno detto che sembrava la loro vita. Altre volte invece alcuni pensano che il problema sia lontano e quindi non interessi loro. Io credo che la via giusta di lettura sia la chiave metaforica come nel caso di Arancia Meccanica dove l’opera non spinge a drogarsi o a essere violenti ma apre degli squarci di dubbio e di consapevolezza. »
Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio
TRAINSPOTTING
di Irvine Welsh, versione Wajdi Mouawad
traduzione Emanuele Aldrovandi
regia Sandro Mabellini
con Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio
costumi Chiara Amaltea Ciarelli
drammaturgia scenica Festa, Di Giacomo, Bellocchio, Cardinali
rassegna di drammaturgia contemporanea 2017/2018
III edizione
La società s’inventa una logica assurda e complicata, per liquidare quelli che si comportano in un modo diverso dagli altri. Ma se, supponiamo, e io so benissimo come stanno le cose, so che morirò giovane, sono nel pieno possesso delle mie facoltà eccetera eccetera, e decido di usarla lo stesso, l’eroina? Non me lo lasciano fare. Non mi lasciano perché lo vedono come un segno del loro fallimento, il fatto che tu scelga semplicemente di rifiutare quello che loro hanno da offrirti. Scegli noi. Scegli la vita. Scegli il mutuo da pagare, la lavatrice, la macchina; scegli di startene seduto su un divano a guardare i giochini alla televisione, a distruggerti il cervello e l’anima, a riempirti la pancia di porcherie che ti avvelenano. Scegli di marcire in un ospizio, cacandoti e pisciandoti sotto, cazzo, per la gioia di quegli stronzi egoisti fottuti che hai messo al mondo. Scegli la vita. Beh, io invece scelgo di non sceglierla, la vita. E se quei coglioni non sanno come prenderla, una cosa del genere, beh, cazzo, il problema è loro, non mio. Come dice Harry Lauder io voglio andare dritto per la mia strada, fino in fondo…
da Edoardo Borzi | 8 Lug 2021 | Interviste
In vista del debutto dell’8 e del 9 Marzo al Teatro Brancaccino in Roma de Il Generale diretto da Ciro Masella, con Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini e Ciro Masella, intervistiamo l’autore teatrale Emanuele Aldrovandi per analizzare le tematiche trattate nello spettacolo a partire dalle origini creative del testo scritto dal drammaturgo emiliano le cui parole ci offrono numerosi spunti di riflessione per ragionare secondo una prospettiva comparativa sugli sviluppi della drammaturgia contemporanea in Italia e in Europa.
Dopo essere stata vittima di numerosi attacchi terroristici, una potenza mondiale invade militarmente un piccolo stato considerato responsabile degli attentati, ma il generale che comanda la “missione di pace” si comporta, fin dal suo arrivo, in modo imprevisto: chiuso fra le quattro mura del suo ufficio impartisce al sottoposto ordini apparentemente contraddittori che in un parossismo di distruzione portano all’annientamento del suo stesso esercito. Qual è la genesi della drammaturgia “Il Generale” e qual è stato il processo creativo dall’inizio della stesura del testo fino alla messinscena?
L’opera è nata come prima bozza di scrittura nel 2010 quando frequentavo la Paolo Grassi come esercizio di un corso all’interno dell’Accademia. Ovviamente aveva una forma molto diversa rispetto al testo attuale perché negli anni l’ho riscritta e cambiata. Nel mezzo ha vinto alcuni premi e ha avuto qualche studio e mise en espace e questo mi ha dato l’occasione di cambiarla. Dopo era lì già codificata ed il fatto che Ciro Masella l’avesse letta e avesse voluto metterla in scena mi ha dato lo stimolo per chiudere il processo di scrittura.
Parlando e confrontandomi con lui sono arrivato a una versione definitiva quindi in realtà è una scrittura che è andata avanti sei anni a partire dal suo nucleo originale del 2010 e cambiando alcune cose fino a quando ha debuttato. L’idea di questa storia, senza fare spoiler, nasce dalle vicende di un generale pacifista che sceglie di combattere la guerra con le stesse armi di chi fa la guerra. Questa idea mi è venuta nel 2002 quando, dopo gli attacchi dell’11 settembre e dopo le guerre americane in Afghanistan e in Iraq. Io ero in seconda liceo e sono andato coi miei compagni di classe a manifestare contro le guerre americane in una manifestazione pacifista.
Durante la manifestazione hanno messo la canzone Contessa dei Modena City Ramblers che diceva: ”Ma se questo è il prezzo vogliamo la guerra vogliamo vedervi finire sottoterra”. Tutti coloro che erano lì per manifestare per la pace hanno cantato vogliamo la guerra. Quindi ho pensato che per far smettere di uccidere chi uccide bisogna ucciderlo quindi per far smettere le guerre c’è bisogno di fare un’altra guerra e questo mi è rimasto in testa. Poi c’è stata l’occasione di scrivere questo testo che era nato come commedia ma poi ha preso un tema, come le migliori commedie da Molière in poi, molto profondo nonostante sia trattato in maniera molto divertente. Il tema è come ci si rapporta con ciò che vogliamo combattere, lo si combatte con le stesse armi o si combatte con con altre armi? Quali armi? A livello tematico questo è il punto di partenza del testo.
Il Generale affronta alcuni temi centrali dell’attuale situazione internazionale, come il terrorismo, o il presunto “scontro di civiltà”, e racconta con linguaggio tragicomico il paradosso di un pacifista che sceglie di sconfiggere la violenza della guerra con una violenza ancora più cieca, estrema e radicale. Nello spettacolo “Il Generale” sono ravvisabili due piano tematici da una parte il potere che prospera sul servilismo ottuso – come scrive Matteo Brighenti – e dall’altra lo zelo cieco al potere dei sottoposti. Riconosci come valida questa chiave interpretativa?
In molti fanno notare l’aspetto dell’ottusità potere e del servilismo dei soldati: in effetti è questo il doppio piano perché se da un lato c’è un uomo che crede di essere illuminato e di aver avuto un’idea rivoluzionaria che fa del bene al mondo ma la mette in pratica in un modo delirante e in questo c’è anche il dramma di un personaggio che si crede buono e che pensa di fare una cosa giusta ma soffre molto per come vanno le cose. È un personaggio che credo abbia lo spessore tragico ma quello è molto merito di come l’ha reso Ciro, bravissimo a interpretare il generale.
Dall’altro canto c’è anche una linea tematica rispetto alle dinamiche di potere per cui come è possibile che un uomo che dà ordini di potere dica dalla prima scena di regalare i mezzi corazzati ai nemici e che mandi i suoi soldati a fare le missioni in cui è evidente che verranno uccisi. Il Generale riesce a convincere il tenente a dare questi ordini e i soldati ad andare a morire quindi l’altro piano che è parallelo a questo è sul potere e sull’ottusità dei sottoposti. Come se in cima alla piramide ci fosse una persona che dà ordini senza senso che portano alla morte dei sottoposti, in questo contesto la piramide stessa e la struttura gerarchica fa sì che le persone siano obbligate o convinte a seguire gli ordini e questa è una delle espressioni di come l’ottusità dei sudditi favorisca i sovrani sanguinari.
Penso che al giorno d’oggi sia un tema abbastanza attuale. Al Generale non interessa questa dinamica di potere né questo desiderio di esercitarlo ma lo utilizza per un fine che per lui è più alto: quindi c’è sia il dramma di un personaggio che cerca un fine più alto sia quella dinamica di potere che funziona perché gli altri la riconoscono.
Che rapporto professionale hai instaurato con Ciro Masella? Quali sono le impressioni rispetto al suo lavoro registico?
Il rapporto con Ciro è stato fondamentale perché il testo era il frutto di varie altre riscritture e quindi confrontandomi con lui sono riuscito a definirlo in maniera compiuta in questo senso è stato molto utile anche il confronto col suo sguardo registico.
Per quanto riguarda lo spettacoli sono soddisfattissimo e lo considero molto bello anche grazie agli altri due attori Giulia Eugeni e Eugenio Nocciolini. Ciro è stato bravissimo a livello interpretativo e credo che abbia diretto anche molto bene i due attori perché comunque ha una cifra molto chiara e molto specifica, coerente con sé stessa e con il testo e anche gli attori lo seguono nella sua scelta interpretativa e registica. Inoltre mi piace moltissimo la scenografia di Federico Biancalani che rende molto bene le atmosfere dello spettacolo.
Il rapporto è stato molto bello anche rispetto all’idea che ha avuto Ciro di come rendere il finale attraverso una scelta registica che considero molto poetica e molto suggestiva. Quando l’ho visto la prima volta ho pensato che fosse molto bello e che Ciro fosse stato molto bravo. Spero che lo spettacolo abbia l’occasione di girare tanto e che abbia lunga vita.
Parlando di drammaturgia, vorrei riflettere in particolare sulla tua figura di drammaturgo e sulla tua storia professionale segnata dalla vittoria nel 2013 del premio Tondelli indetto da Riccione teatro e più in generale capire i problemi attuali e le prospettive future della Drammaturgia contemporanea.
Per quanto riguarda me io sono contento di riuscire a fare l’autore teatrale, quando ho iniziato non era affatto scontato. Sicuramente il Premio Riccione è stato uno spartiacque perché mi ha dato la possibilità di farmi conoscere da più persone e anche il lavoro costante con la compagnia MaMiMò quando facevo l’accademia è stato molto importante perché mi hanno fatto lavorare prima che vincessi i premi e altri riconoscimenti e quindi è stato un modo per cominciare a fare teatro durante l’ultimo anno di Accademia, in modo tale da non essere mai in quel limbo tra formazione e lavoro.
Anche l’impegno e il sacrificio oltre alla fortuna sono fattori importanti. Quest’anno ho iniziato ad insegnare al primo anno della Paolo Grassi e la cosa che dico e che penso sia vera è che bisogna sempre impegnarsi. Io negli ultimi dieci anni non ho fatto altro se non dedicarmi al Teatro e alla scrittura. Sì, c’è la fortuna e l’occasione di vincere i premi ma anche la costanza del lavoro perché in realtà se vinci il premio sei per poco nell’occhio dell’attenzione delle persone.
Io ricorderò sempre ciò che mi ha detto Fausto Paravidino ridendo alle 23.55 duranta la serata finale della premiazione del premio Riccione: “Goditi questi cinque minuti in cui hai vinto il premio perché fra 5 minuti nessuno si ricorderà più niente delle cose che hai scritto” . In realtà Fausto è stato uno di quelli che mi ha più aiutato e supportato. Quello che mi ha detto è vero perché l’attenzione finisce dopo poco e quindi la cosa fondamentale è la costanza del lavoro. Io credo che sia importante cercare di scrivere cose belle che abbiano un’importanza per te. Io cerco di scrivere cose che abbiano importanza e valore per me e quindi se poi queste cose hanno anche un valore importante per gli altri è un bene perché l’obiettivo principale non è mai quello di fare questo lavoro a tutti i costi ma di fare cose che mi piacciono.
Se le cose che mi piacciono mi permettono di fare questo lavoro e piacciono anche agli altri bene quando questo non succederà più troverò altre strade. Non ci sono attaccato per forza con le unghie perché penso che questo attaccamento nel voler lavorare per forza porta la gente a fare delle cose brutte e penso che le cose brutte non fanno bene al teatro e a chi le fa. In questo momento i miei testi stanno cominciando ad andare all’estero e di questo sono contentissimo perché scrivo in italiano ma mi fa piacere in un certo senso essere un drammaturgo europeo legato a vari progetti che mi permettono di far girare i miei testi in tutta Europa. Spero che si possa continuare così.
Per quanto riguarda la drammaturgia, io credo che negli ultimi 10-15 anni, dopo la fine del Novecento, soprattutto in Italia, ci sia stato un abbandono della scrittura e della figura dell’autore in favore di strutture più partecipate. Forse solo il teatro inglese ha espresso autori di un certo calibro che hanno avuto un ruolo importante nella scena mondiale. In Italia c’è stato quasi un buco non tanto per la mancanza di autori bravi quanto per la mancanza di un desiderio sia delle politiche culturali sia del pubblico rispetto alla scrittura. Io credo che negli ultimi anni ci sia un interesse forte soprattutto nel pubblico e lo vedo nei miei lavori ma anche nei tanti lavori di drammaturgia contemporanea che ci sono in scena e credo che il pubblico abbia voglia e un desiderio di sentire nuove narrazioni e di sentirsi rappresentato, di vedere costruiti e ricostruiti in un teatro i conflitti, i dubbi, i problemi e le dinamiche del mondo. Anche gli organizzatori e chi produce teatro si sta rendendo conto di questa cosa e si sta adattando.
La cosa che però deve migliorare e che ogni volta dico perché per me è molto importante è da un lato il fatto che non si può continuare a mettere la drammaturgia contemporanea in rassegne a parte cioè io odio e non sopporto più e credo che sia sbagliato e offensivo continuare a mettere la drammaturgia in “altra scena” in “altre proposte off” ma deve essere allo stesso livello delle altre proposte artistiche a partire dalla grafica delle locandine, di come vengono costruiti gli abbonamenti e di come vengono pensate le stagioni dei teatri.
Perché il rischio è che il pubblico si convinca che questo sia qualcosa di altro rispetto al teatro, ed accade soprattutto in Provincia. Questo per fortuna non succede spesso nelle grandi città come Milano, Bologna o Roma in cui questa pratica è sdoganata però ci sono molti altri teatri in cui questa cosa è all’ordine del giorno. Anche nei teatri di provincia vorrei che ci fosse un classico di Shakespeare come tutti gli anni nel cartellone con accanto uno spettacolo di qualsiasi altro autore contemporaneo con la stessa dignità perché il pubblico deve avere la possibilità di essere nelle condizioni di scegliere se una cosa ha valore, non come una proposta di qualcosa che vale meno.
Sicuramente il sistema italiano è registico-centrico, quindi un autore per far mettere un testo in scena deve convincere un regista a lavorarci. In altri paesi come in Germania o in Inghilterra esistono dei comitati di lettura che scelgono testi e poi scelgono il regista giusto in base a quel testo e questo lo vedo infattibile nel breve periodo ma credo che a lungo andare questo si possa fare. In Italia gli unici comitati lettura sono quelli dei premi.
A livello produttivo mi auspico che nel prossimo futuro anche nei grossi teatri italiani ci siano comitati di lettura come nel Royal Court o nei teatri tedeschi a cui arrivano cento testi li leggono tutti e ne scelgono uno e poi decidono di creare una produzione incentrata sul testo non come in Italia dove le produzioni vengono affidate al regista e poi lo stesso regista sceglie cosa fare o magari chiede al drammaturgo di scrivere un’opera di Shakespeare o di fare un’altra cosa. Secondo me ci vorrebbero entrambe le cose perché altrimenti si rischia che molta creatività dei drammaturghi venga persa nel momento in cui non si riesce ad andare in scena. Questo farebbe bene alla nuova drammaturgia ma anche al pubblico che si troverebbe di fronte a cose nuove.
Per approfondire —> Intervista a Ciro Masella a Radio Onda Rossa
Teatro Brancaccino 8 – 9 marzo 2018
di Emanuele Aldrovandi
regia Ciro Masella
con Ciro Masella, Giulia Eugeni, Eugenio Nocciolini
scena Federico Biancalani
luci Henry Banzi
costumi Micol J. Medda/Federico Biancalani/Ciro Masella
suoni Angelo Benedetti cura di Julia Lomuto riprese Nadia Baldi
Segnalazione speciale per la nuova drammaturgia al Premio Calindri 2010
Testo vincitore del Premio Fersen alla drammaturgia 2013
Selezionato dal Teatro Stabile del Veneto per Racconti di guerra e di pace 2015
da Redazione Theatron 2.0 | 3 Mag 2018 | Interviste
N.E.R.D.s
È arrivato a Roma da Milano, portando una brezza di novità, contaminando il genere della commedia con un dosaggio alto di ironia e provocazione, con una capacità di analisi lucida dei fenomeni sociali che ruotano intorno alla famiglia, alle convenzioni, al disagio di una, nessuna, centomila generazioni.
Tutto questo è N.E.R.D.s. di Bruno Fornasari, l’autore del testo pubblicato dalla Cue Press, casa editrice emiliana specializzata, ma anche regista dello spettacolo che di recente ha fatto tappa al Teatro Brancaccino di Roma, nell’ambito della rassegna “Spazio del Racconto”.
La storia è quella di una famiglia come tante, riunita per festeggiare l’anniversario dei 50 anni di matrimonio dei genitori in un agriturismo. Tutto dovrebbe essere perfetto e organizzato nei minimi dettagli. Come spesso accade, però, emergono conflitti, rancori, silenzi e segreti immagazzinati da troppo tempo che fanno scoppiare quel ménage familiare e la sua apparente perfezione. Sono passati tre anni dal suo debutto e la commedia ha riempito le platee di tanti teatri, incontrato il favore di spettatori e critica.
Un altro elemento fondamentale, dietro al successo di questo progetto, è la presenza di Tommaso Amadio. Attore e regista, diplomato all’Accademia dei Filodrammatici e dal marzo 2008 co-direttore artistico, insieme con Fornasari, del teatro dei Filodrammatici. Insieme sono giunti alla settima edizione di quella che è stata una stagione dinamica e ricca di fermenti. Dedicata al tema del fanatismo, positivo e negativo, una caratteristica della nostra società contemporanea.
Con un cartellone ricco e focalizzato da sempre sulla drammaturgia contemporanea, tante sono state le idee messe in campo. Ad iniziare da quella che è una collaborazione stimolante con il Teatro Elfo Puccini, immaginando future coproduzioni e affinità drammaturgiche. La mostra “Gocce in movimento” con i disegni progettuali dei mosaici dello scultore Francesco Somaini. Il ciclo di lezioni-spettacolo Retro-scena: storie di palchi, retropalchi e sottopalchi. Il biglietto dinamico acquistabile solo on line e che permette di trovare il giusto prezzo grazie ad un algoritmo. E infine CON_TESTO 2017, un contest-esperimento di scrittura teatrale: cinque squadre di giovani autori, registi, attori impegnati a realizzare uno spettacolo originale in 24 ore ispirandosi a temi di attualità e notizie. Il fil rouge di tutto questo è la curiosità vivace che si respira al Teatro dei Filodrammatici, è l’occhio che osserva ma non giudica la realtà. È anche il racconto, un’intervista con Tommaso Amadio che è parte di tutto questo.
N.E.R.D.s
Come è stata l’esperienza con N.E.R.D.s, come si è evoluta la sua storia fino ad oggi?
Lo spettacolo ha debuttato quattro anni fa; la regola che io e Bruno (Fornasari, ndr) ci siamo dati è questa: lui scrive, poi scaramanticamente mi fa leggere i testi, come prima persona, e ci confrontiamo sulle sensazioni. Come mi è già capitato di dire, quando ho letto il testo di N.E.R.D.s per la prima volta, sicuramente ho riconosciuto come sempre la penna di Bruno, la sua capacità, il suo sarcasmo, la sua ironia. Non avevo colto, non avevo immaginato quanto potesse avere un potenziale così comico, nonostante un tema così drammatico. Se tu leggi quanto è scritto sul copione, quello che emerge di più è la dimensione di violenza con cui questi personaggi si parlano. Durante il lavoro delle prove Il meccanismo è stato tutto al contrario, volto ad alleggerire.
Come spesso capita nella vita, riusciamo ad essere terribilmente violenti gli uni con gli altri. Incapaci di cogliere i bisogni degli altri perché tendiamo a guardare solo i nostri. Tutta la prima parte delle prove è stata impiegata per trovare la dimensione di leggerezza nell’interpretazione. Questa è un po’ la cifra stilistica della nostra compagnia da sempre, crediamo che la risata sia il meccanismo più genuino per entrare in contatto con il pubblico, tramite cui cerchiamo di passare una serie di interrogativi. Quindi l’idea è che la risata, l’intrattenimento non sia un fine ma il mezzo con il quale condividere poi delle domande. Questo è il nostro chiodo fisso, in questo caso specifico il testo richiedeva dei ritmi molto serrati. Sicuramente nella prima parte delle prove la cosa difficile è stata riuscire a dare tutti i significati che il testo suggeriva all’interno di un ritmo serrato. Nello spettacolo noi non indugiamo su nulla ma cerchiamo di correre come nella vita. Non ti dai il tempo di riflettere su cosa l’altro ti sta dicendo, sui bisogni che ti sta esprimendo. In Italia hai la sensazione che le persone siano in silenzio non tanto perché ascoltino, ma perché aspettano di poter intervenire.
L’altro tema essendo un blocco familiare era di far vedere come spesso siamo terribilmente insensibili e, volontariamente o involontariamente, cattivi con le persone che ci sono più vicine perché l’intimità spesso crea quella non barriera che fa essere cattivi e violenti.
Qualcosa è stato “ammorbidito”?
In realtà non voleva essere ammorbidito. La crudezza del testo, se si legge il copione, emerge molto chiara, senza una interpretazione attoriale. Il lavoro era proprio quello di non alleggerire per alleggerire, ma cercare di capire, e in questo c’è stato molto utile osservare la vita, come spesso possiamo dire le cose più terribili, ma col sorriso sulle labbra, buttandola sul ridere. Anche perché spesso il sarcasmo e l’ironia sono un po’ le cifre stilistiche del nostro tempo e sono anche lo strumento con cui noi spesso allontaniamo i problemi. Perché essere ironici e sarcastici dà la sensazione di essere capaci di dominare un fenomeno o un argomento. In realtà questo si traduce spesso in quel bruciore di stomaco di cui parla lo spettacolo.
Pensando al pubblico di Roma, che tipo di feedback avete ricevuto?
Il pubblico esce dal teatro molto contento e diciamo che conferma quella che è stata la galoppata di questo spettacolo in questi tre anni. Sicuramente, senza false modestie, possiamo dire che ha avuto tanto affetto, tanto pubblico e riscontri molto positivi. Quello che ti posso dire è che è stata la prima volta che siamo venuti in centro Italia, a Roma. Durante le prime repliche la sensazione che abbiamo avuto è come se il pubblico non si fosse concesso fino in fondo di ridere di certe dinamiche, come se un po’ si giudicasse. Ci sono tante situazioni in cui si ride parecchio, anche di alcuni meccanismi violenti Nel Nord Italia, invece, ridere anche di un certo cinismo, di situazioni, di contesti è stato liberatorio. Poi anche a Roma è avvenuto, ma è stato come se all’inizio il pubblico fosse un po’ intimorito.
Sono state le sensazioni solo delle prime repliche. Come puoi immaginare nello spettacolo noi raccontiamo sempre la stessa storia, ma in realtà la storia ogni sera è diversa perché incontra un ingrediente fondamentale: il pubblico che ogni volta è fatto di dinamiche diverse.
La formazione del cast è stato un percorso facile?
Noi tendenzialmente non facciamo provini ma facciamo dei workshop perché riteniamo che oltre a scegliere gli attori che lavoreranno con noi, ci devono scegliere anche loro. Ovvio che il regista, il drammaturgo hanno la parola finale su quello che sarà lo spettacolo, ma il contributo di ogni elemento del lavoro dalla scenografa, alla costumista, agli attori è un rapporto assolutamente creativo e implementare rispetto a quello che dobbiamo raccontare. Indipendentemente dal fatto che la base centrale è il testo. La scelta degli attori per noi è sempre centrale perché oltre a cercare dei bravi professionisti giusti per il ruolo, cerchiamo delle persone che secondo noi possono avere delle caratteristiche umane particolarmente idonee per quel progetto, per quella storia e con le quali sentiamo di poter condividere un modo di stare sul palcoscenico.
La dimensione di divertimento, la dimensione del dietro le quinte, la dimensione di condivisione come squadra per noi è centrale per il risultato dello spettacolo. Ed è proprio il nostro chiodo fisso in ogni produzione, in tutti i lavori che abbiamo prodotto con i Filodrammatici in questi anni. Si è creato un clima molto bello di squadra. Nel caso specifico per noi è veramente una gioia lavorare insieme, mi piace citare Riccardo Buffonini, Michele Radice, Umberto Terruso che sono gli altri attori partner con me in scena. Senza di loro questo spettacolo sarebbe molto strano Ci tengo inoltre a ricordare anche una grandissima professionista e persona sul piano umano che è Erika Carretta la nostra scenografa e costumista che ci segue da quando abbiamo iniziato come compagnia ai Filodrammatici.
N.E.R.D.s
Com’è andata questa stagione al Teatro dei Filodrammatici?
Facendo tutti i debiti scongiuri, in questi ultimi anni c’è stato un bellissimo e grande riconoscimento. Abbiamo iniziato otto anni fa, improntando un teatro solo ed esclusivamente sulla drammaturgia contemporanea. Ricordo che gli operatori, tranne rare eccezioni, mosche bianche, dicevano che se non si facevano i classici il pubblico non sarebbe venuto. Oggi la situazione si è completamente ribaltata, almeno su Milano e sul nostro territorio. Quasi tutti fanno drammaturgia contemporanea e posso dire che la nostra realtà è riconosciuta e apprezzata proprio perché ci occupiamo solo di drammaturgia contemporanea da sempre. Abbiamo la fortuna, rincorsa e difesa con le unghie e con i denti, di avere un drammaturgo interno come Bruno che ogni anno produce un testo per il teatro. Oltre ovviamente ai testi di drammaturgia contemporanea europea che mettiamo in scena.
Che tipo di lavoro avete impostato per la definizione dei personaggi?
A me non piace parlare tanto di personaggi quanto di ruoli in un contesto. Mi spiego, tu adesso sei con me, mi stai intervistando, non ci conosciamo. Sei un’altra persona, un altro ruolo quando ti relazioni all’altro: fidanzato/fidanzata, madre/padre, amici Noi siamo la circostanza nella quale ci troviamo e assumiamo un ruolo a seconda dell’intimità che possiamo avere con gli altri. Questo per dire che cosa? Che il nostro lavoro, fin dall’inizio, nelle fasi di prova, è quello di cercare di capire il ruolo, in che circostanza si trova e che volontà ha. In base a quello andiamo ad osservare la realtà per cercare dii capire quali possono essere gli elementi che caratterizzano ogni ruolo in quei momenti. Quindi tutto va a cascata in base al testo, in base a che cosa ci suggerisce e pian piano andiamo a trovare quei segni, senza descrivere troppo, che riescano però a raccontare precisamente un momento, una situazione, un conflitto tra personaggi e ruoli.
come e’ stato Recitare i doppi ruoli maschile e femminile nello spettacolo?
Recitare doppi, tripli ruoli è già capitato con altri testi, non con questo cast. Nel lavoro con Bruno ci è capitato spesso di fare più ruoli, non sempre ovviamente, in base a quello che era il bisogno della storia che stavamo raccontando. Recitare le donne per certi aspetti è curioso. Giocare a recitare un ruolo molto distante da te è più facile perché hai più strumenti di osservazione. Osservare te stesso e quindi portarti in scena è sempre più difficile perché sei come sempre troppo vicino alla materia. Osservarsi, guardarsi con l’oggettività che ti porta a fare emergere degli elementi significativi è più complesso, mentre osservare qualcosa che è molto lontano da te, paradossalmente, ti permette di pennellarlo sicuramente con più divertimento e con maggior precisione.
Anche per gli altri attori di N.E.R.D.s l’idea di avere più ruoli è stata influenzata dal contesto, dalla circostanza in cui quei ruoli andavano, di volta in volta, a discutere o litigare, piuttosto che relazionarsi tra di loro.
Spesso viene citata la frase attribuita a Charles Darwin “Non è la più forte delle specie che sopravvive, né la più intelligente, ma quella più reattiva ai cambiamenti”. Il vostro spettacolo spinge più verso la descrizione di un adattamento passivo o attivo nell’evoluzione sociale e nella realtà?
Intanto farei una premessa doverosa: questa frase attribuita a Darwin, in realtà è un fake, nel senso che è di un economista che, per motivare i cambiamenti e il bisogno di adattarsi ai cambiamenti dell’economia moderna, ha tirato in mezzo Darwin parlando di questa teoria dell’adattamento, così come viene raccontato. Diciamo quindi che partiamo da un falso per arrivare, come dire, a toccare alcune verità.
Come Tommaso Amadio, sicuramente mi verrebbe da dire che lo spettacolo cerca di dimostrare come nel non ascolto degli altri, delle circostanze nelle quali ci troviamo perché preda della paura, perché spaventati dall’idea di essere prete di qualcosa, sicuramente perdiamo alcuni elementi fondamentali per la nostra capacità di adattamento. Come hai visto, tutti i personaggi di N.E.R.D.s sono affetti da un’unica grande malattia che quella di essere schiavi delle proprie paure, incapaci di ascoltare fino in fondo le istanze degli altri. Nel momento in cui veramente cerchi di mettere insieme agli addendi nella vita, non considerando l’altro per forza un pericolo, ma eventualmente un’opportunità. Allora esplode un significato altro che non è più il mio o il tuo significato, ma la somma dei nostri significati e di quello che noi osserviamo della realtà. Quando ci chiudiamo nelle nostre verità, nelle nostre certezze, che poi spesso sono frutto di paure, allora quello che avviene è una continua parcellizzazione della realtà che ci porta oltre ad una grande solitudine, ad una incapacità di guardare tutto con un occhio più ampio.
Il finale a sorpresa come è stato concepito?
È curioso perché in realtà quello è stato il primo pezzo che Bruno ha scritto. È stato presentato a Next, un bando della Regione Lombardia per i teatri di produzione Milanese, ed ebbe un successo molto grande. Era diverso, non era esattamente il tipo di composizione che è adesso. Lui è partito da quello, dalla fine, con quei personaggi. Ad un certo punto però è entrato un po’ in crisi perché tutta la macchina sembrava un grosso divertissement e lui come drammaturgo non riuscirà più a capire quale fosse il senso, la direzione del testo che stava costruendo. Per quanto uno scrive delle cose belle non è mai un processo facile, può essere frustrante. Per arrivare ad una sintesi, ha buttato tutto e ha ricominciato, così è venuto fuori N.E.R.D.s che aveva una sua compiutezza.
Abbiamo deciso di inserire quel pezzo di Charles Darwin e sua moglie Emma, nel controfinale, dopo gli applausi, perché quello di cui ci siamo resi conto con il produttore è che la fine dello spettacolo sembrava un po’ raccontarci che esistesse una sorta di età d’Oro, prima di questa società contemporanea, dove i rapporti tra le persone erano idilliaci. Questo non ci piaceva perché non è vero, la storia non ci racconta questo. Quindi il post finale è un modo leggero per raccontare come nelle società precedenti tutto quello di incoerente che oggi vediamo esplodere nell’ambito familiare non è che prima non ci fosse. È solo che le persone erano più abituate a gestire il senso del sacrificio, la frustrazione, quello che oggi invece abbiamo smesso di fare. Io credo che il risvolto oscuro della nostra società è che i meccanismi del consumismo sono stati applicati anche nelle relazioni: “ti uso fin quando sei qualcosa di interessante, poi sono legittimato a lasciarti nel dimenticatoio”. Non mi sento di giudicarlo, lo osservo e basta.
Il fatto è che questo crea inevitabilmente delle monadi impazzite. Le generazioni precedenti erano più abituate a pensare che le relazioni fossero un processo faticoso nelle quale ti dovevi impegnare, per farne qualcosa di sensato e non di mostruoso, a cui devi dedicare tempo. Oggi tutto questo impiego di energia nelle relazioni è qualcosa che noi abbiamo difficoltà a concepire culturalmente perché abbiamo la possibilità di attingere una quantità enorme di stimoli e desideri. Penso ai social network, agli oggetti di consumo che hanno addirittura l’obsolescenza programmata, che si romperanno in modo pianificato per darci l’illusione, il piacere di comprare qualcosa di nuovo e ancora nuovo e credo che tutto questo si traduca anche nei nostri comportamenti.
E il cane invisibile?
Fa parte del codice registico emerso durante le prove. Bruno non parte un’idea preconcetta di regia, ovviamente tutto è frutto del processo di prove. All’inizio si pensava di fare le donne con le parrucche stilizzate e poi siamo arrivati alla sintesi della sintesi che sono le borsette. Inevitabilmente se entrano degli attori vestiti sempre uguali, solo con dei piccoli elementi, avere un cane reale avrebbe spezzato il codice, la regola che avevamo costruito, il gioco con il pubblico. Da lì abbiamo utilizzato solo il guinzaglio e il cane lo immagini esattamente come devi immaginare che nel momento in cui ho una borsetta in mano sono una donna con alcune caratteristiche comportamentali. Ci sembrava logico e in linea con il codice che abbiamo deciso di usare con il pubblico.
Cosa ha mosso e cosa muove la tua emergenza artistica?
Di fronte alla parola “artista” ho sempre un certo imbarazzo. Se riusciamo a fare del sano artigianato, fatto bene, cioè di raccontare una storia, di riuscire a coinvolgere il pubblico rispetto a quelle che sono le domande che noi ci facciamo, nella vita e in pubblico, io sento che abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Sta ad altri definire se qualcosa è artistico o no. Nel mio campo, nel mio compito specifico di attore quello che cerco ogni volta è questo: provare a raccontare la realtà per come uno la sente, la osserva in base ai propri limiti, alle proprie idiosincrasie, con il massimo grado di onestà. E riuscire a condividere tutte quelle domande che senti che appartengono e senti che possono appartenere alla società di quel momento.
Come direttore del teatro posso dirti che a noi capita spesso di pensare a spettacoli, a testi che ci piacciono molto, ma ci facciamo sempre una domanda: è qualcosa che urge solo a noi? Abbiamo la sensazione che quella proposta possa contaminare e, in un certo qual modo, pervadere anche le persone che ci sono intorno? Se la risposta è positiva sulla seconda parte, quindi non è solo una nostra urgenza o elucubrazione, allora andiamo avanti sennò siamo disposti anche ad accantonare un testo, un’idea che ci piace molto, se abbiamo la sensazione che non sia urgente per la realtà che ci circonda. Perché ci sentiamo sempre fortemente immersi nel qui e oggi, noi come teatro. Siamo l’unico teatro ad essere “Shakespeare-free”, non abbiamo mai messo in scena un testo shakespeariano. Non perché non lo amiamo o perché non lo studiamo in modo approfondito anche in Accademia, con i nostri insegnanti e con i nostri allievi, ma perché cerchiamo di prendere un po’ quella che secondo noi è la grande lezione di Shakespeare che scriveva testi per il suo tempo e per il suo pubblico.
Per noi è un classico ma per gli spettatori si allora era un drammaturgo contemporaneo che affrontava temi contemporanei attraverso metafore. Per noi questo è forse lo stimolo più grande, spesso ci dimentichiamo che William Shakespeare che consideriamo uno dei più grandi poeti, sicuramente del teatro, ma non solo, uno dei più grandi della cultura europea, parlava a un pubblico che per il 95% era analfabeta. C’era una grande regola, ovvero che quello che si raccontava sul palco, da zero a uno, doveva essere un processo comunicativo chiaro per tutti. E ancora oggi, si possono fare tutte le intellettualizzazioni che si vuole, ma da zero a uno, se il teatro è un atto comunicativo il processo deve essere chiaro per tutti. Su questo secondo me Shakespeare è una grandissima scuola perché accanto ai grandi monologhi della Tempesta non a caso poi fa succedere momenti di comicità. La macchina che mette in moto è straordinaria, si concede grandi riflessioni sull’esistenza ma sempre all’interno di un meccanismo attentissimo a non ammorbare il pubblico. A farlo rimanere sedotto di quello che gli viene raccontato.
La webzine di Theatron 2.0 è registrata al Tribunale di Roma. Dal 2017, anno della sua fondazione, si è specializzata nella produzione di contenuti editoriali relativi alle arti performative. Proponendo percorsi di inchiesta e di ricerca rivolti a fenomeni, realtà e contesti artistici del contemporaneo, la webzine si pone come un organismo di analisi che intende offrire nuove chiavi di decodifica e plurimi punti di osservazione dell’arte scenica e dei suoi protagonisti.