Odin Teatret: una spedizione antropologica lunga 55 anni
Sono trascorsi 55 anni dal 1 ottobre 1964 quando Eugenio Barba fondò l’Odin Teatret riunendo intorno a sé, nella città norvegese di Oslo, un gruppo di attori, di diverse nazionalità, non ammessi alla Scuola di Teatro di Stato. Pur tenendosi sempre ai margini dei circuiti ufficiali, l’Odin Teatret ha saputo aprire una breccia di attivismo e di interculturalità nel teatro del Secondo Novecento, assumendo come fulcro della creazione artistica l’incontro con l’altro e l’impegno sociale.
Nel mese di febbraio, Roma ha voluto celebrare la cinquantennale attività del gruppo, organizzando conferenze, masterclass, workshop, mostre, spettacoli e dimostrazioni di lavoro, distribuiti in alcuni centri culturali della città. Avvalendosi dell’accoglienza riservata loro da Teatro Vascello, Teatro Valle, Teatro Argot, Abraxa Teatro, Palazzo delle Esposizioni e Università La Sapienza, l’Odin ha accompagnato il pubblico romano alla scoperta del proprio universo umano e artistico.
L’instancabile ricerca artistica e antropologica, coadiuvata da pubblicazioni teoriche sull’arte d’attore, fanno dell’Odin Teatret un baluardo di vocazione teatrale. 55 anni di viaggi e migrazioni, volti a raccogliere il siero della cultura spettacolare mondiale. Stormi teatrali dopo un lungo vagare tra Oriente e Occidente, sono giunti al Teatro Vascello, riuscendo a resuscitare l’Albero avvizzito dall’umana barbarie.
L’Albero: torneranno gli uccelli
Sgozzare: è quel che fa l’Odin Teatret nello scrigno arancione in cui accoglie gli spettatori. Un tumultuoso rovesciamento del quotidiano, a narrare impavido l’orrore della guerra. L’albero avvizzito è uno scheletro che sorregge il peso doloroso di bambini-soldato addestrati a uccidere per gioco, finiti ammazzati, sgozzati, riconsegnati senza volto alle mani delle proprie madri. Morto ma vigoroso, con le radici ancora affondate nell’arido terreno della speranza. È un albero della vita imbevuto di morte, quel tronco dai mobili rami che gli attori assemblano e spezzano in scena, su cui si arrampicano e si rifugiano. Tra le fronde, Thanatos e Bios, impiccagioni e frutti polposi a fronteggiarsi in attesa che tornino a cantare gli uccelli.
Lo spazio scenico del Teatro Vascello, che nel febbraio scorso ha ospitato lo spettacolo, è completamente sovvertito: il racconto si snoda in un piccolo ambiente costruito dietro il palcoscenico, in cui un ristretto gruppo di spettatori è invitato a prender posto su due tribune contrapposte. Gli spalti, sono costituiti da un lungo tubo grigio che emette vibrazioni e suoni, amplificando il coinvolgimento sensoriale di coloro che, abbattuta la disposizione classica da teatro all’italiana, abitano lo spazio prendendo parte a un evento. La prossemica, punto di forza degli spettacoli dell’Odin, fa sì che gli attori taglino la testa anche al pubblico, testimone inerme, aiutato a indossare collettivamente un telo bianco bucato che ne camuffa i corpi e ne trasforma il capo in trofei venatori da museo.
Al centro, come contenuto da due sponde sabbiose, lo sgorgare dell’interculturalità targata Odin Teatret, in cui attori di provenienze diverse, ricamano il tessuto sonoro e drammaturgico dello spettacolo, ciascuno con il filo dorato della propria tradizione. Le donne della compagnia, Iben Nagel Rasmussen, Elena Floris, Parvathy Baul, Carolina Pizarro e Roberta Carreri, accendono, in un continuo gioco di rifrazioni autobiografiche e numeri musicali multietnici, il lume della crudeltà delle cronache di guerra.
Julia Varley e Donald Kitt sono una coppia di dolci monaci che nel deserto siriano piantano un albero dai rami secchi, nella speranza che accolga la nidiata degli uccelli, messi in fuga da bombe e proiettili. Occidente e Oriente mostrano la stessa spietatezza quando a impersonare il conflitto sono due efferati signori della guerra: Kai Bredholt, soldato europeo dagli occhi vitrei che con fisarmonica e tromba, glorifica la sua forza distruttiva e I Wayan Bawa, attore balinese, che fa della danza tradizionale del suo Paese la penna con cui disegnare i tratti di un Ares nero.
Torneranno gli uccelli ma non i bambini uccisi dal conflitto, amara e responsabilizzante consapevolezza che chiude uno spettacolo di forte impatto emotivo ma claudicante per chi dall’Odin si aspetta l’energica prestazione di sempreverdi performers, impegnati in un perpetuo tourbillon antropologico.
L’antropologia teatrale di Eugenio Barba
L’intervento attorale di I Wayan Bawa nello spettacolo L’Albero è, tra tutti, il più emblematico rispetto a quel “cielo comune” in cui fluttuano i diversi saperi artistici dei componenti della compagnia: la danza balinese, nell’espressione performativa della maschera del Re Gambuh, è qui messa al servizio di un racconto della guerra che passa attraverso gli occhi occidentali del regista, Eugenio Barba, e che viene proposto a un pubblico occidentale anch’esso.
Come può, dunque, lo spettatore cogliere il significato di un certo modo di muovere i piedi o di inarcare la schiena tipico di una tradizione artistica a lui sconosciuta, senza che la decontestualizzazione ne depauperi la portata drammatica? L’antropologia teatrale, disciplina fondata da Eugenio Barba negli anni Settanta, parte dalla volontà di risolvere tale quesito e di indagare il comportamento socio-culturale e fisiologico dell’uomo in situazione di rappresentazione.
A tal proposito, nel corso di una conferenza organizzata presso Il Palazzo delle Esposizioni di Roma, con la partecipazione di Franco Ruffini, Julia Varley e Nicola Savarese, Eugenio Barba racconta:
Come fa un attore ad affascinare? Fino al 1963, ho visto attori, in Polonia, che mi affascinavano. Quando nello stesso anno ho assistito a uno spettacolo di Kathakali, fu qualcosa di sconvolgente e mi chiesi perché non mi fossi interessato alle convenzioni del teatro indiano ma, soprattutto, mi domandai perché questi attori riuscissero ad appassionarmi. È talento ciò che mi affascina? Questa domanda mi ha seguito fino al mio trasferimento a Bonn, dove ho iniziato a studiare i costumi, la musica, gli attori, tutti quegli orpelli che mi hanno permesso di vedere il bios, la vita, che sembra muscolare anche se, in realtà, il corpo è quella parte dell’anima che i cinque sensi percepiscono.
Principi-che-ritornano, è questo il modo in cui Barba definisce quei principi archetipi che sono rintracciabili nel lavoro di attori e danzatori appartenenti a epoche e culture differenti: le tecniche extra-quotidiane del corpo, usate in situazione di rappresentazione, tendono all’informazione. Queste tecniche, basate sull’energia e su una cosciente alterazione dell’equilibrio, sono riscontrabili a livello globale, sia nei teatri orientali sia in quelli occidentali.
La convivenza di saperi artistici tradizionali, cifra stilistica delle attività spettacolari dell’Odin Teatret, produce un importante potenziamento delle possibilità comunicative dell’evento scenico. Partendo da questo assunto, risulta chiaro come la danza balinese di I Wayan Bawa riesca a veicolare l’attenzione e la comprensione anche di quello spettatore che si trova affascinato da qualcosa che non conosce ma che, nella cornice dello spettacolo, riesce a riconoscere.
Questo riconoscimento, derivante dalla capacità dell’attore di creare una relazione con chi lo osserva, è frutto di quel processo di canalizzazione dell’energia che Eugenio Barba chiama pre-espressività.
Pre-espressività: il livello base di organizzazione dell’actor’s performance
Il pre-espressivo è quel livello base della comunicazione artistica, capace di stabilire la connessione tra chi agisce e chi osserva. Si tratta di una “fisiologia transculturale”: prescindendo dalla tradizione culturale, la pre-espressività organizza l’energia dell’attore-danzatore in modo che diventi scenicamente viva e che catturi l’attenzione dello spettatore.
L’artigianato dell’attore, dunque, è la capacità di trasporre qualsiasi stimolo, proveniente da un testo, dallo spazio, dalla musica, da un quadro, da un ricordo e dargli una consistenza oggettiva che un osservatore può percepire. C’è tutto un flusso di moderazione energetica che può essere utilizzato.
Il training dell’attore non è un allenamento del corpo ma è un allenamento alla giusta predisposizione alla creatività. Tutto il lavoro dell’attore tende a farlo liberare dal riflesso pragmatico, diventato una seconda natura, influenzato dalla famiglia, dalla cultura, dalla scuola. Separarsi dalla spontaneità e dai riflessi condizionati significa poter raggiungere la capacità di ritrovarsi inermi di fronte a una situazione.
In questo modo ogni passo, porta l’attore a scoprirsi ogni giorno e a presentare allo spettatore qualcosa di noto, attraverso una trasfigurazione estetica, tecnica che presuppone una capacità di manipolare l’energia che è fisica, mentale, vocale. L’attore lavora con sé stesso per trasformare il suo spazio interiore in segni estetici.
Con grande generosità, questo lavoro di ricerca e composizione è stato mostrato da Julia Varley e I Wayan Bawa, in una serie di matinée ospitati presso il Teatro Vascello di Roma, a svelare i segreti della creazione Odin.
L’Odin Teatret al Teatro Vascello di Roma: Il tappeto volante e L’attore totale
Un refuso teorico vuole l’operato spettacolare dell’Odin Teatret scevro dall’apporto drammaturgico del testo, basato com’è sull’esperienza empirica di intrecci culturali e sull’incontro, di matrice antropologica e artistica, con l’altro.
In realtà, come Julia Varley ha voluto dimostrare, l’Odin lavora anche a partire dal testo, trattandolo al pari di tutti gli altri elementi costitutivi del corpo di uno spettacolo. Ad alcuni curiosi e appassionati, la storica attrice della compagnia danese ha svelato il rapporto dell’Odin con il testo, per mezzo di una dimostrazione di lavoro intitolata Il tappeto volante.
“Il testo è un tappeto che deve volare lontano”. E non necessariamente nella sua interezza e linearità. La Varley suddivide in due fasi la dimostrazione: una in cui modula l’enunciazione del testo secondo diversi principi (ritmo, illustrazione, azioni, musica, lingua); l’altra in cui recita degli estratti di tutti i testi utilizzati negli spettacoli dell’Odin Teatret dal 1976 ad oggi. Da Brecht a Kafka, il ricco apporto testuale dell’Odin è un trampolino per la creazione di immagini e contenuti, su base improvvisativa, che prendono forma nelle messe in scena attraverso il corpo e la voce degli attori del gruppo.
Allo stesso modo, I Wayan Bawa, ne L’Attore Totale, rivela i principi tecnico-estetici della danza balinese – arte di tradizione familiare, tramandata di padre in figlio – per mostrare l’innesto delle tecniche compositive orientali sulle creazioni dell’Odin Teatret. A rapire lo sguardo, la sapienza artigiana delle maschere e dei costumi tradizionali indossati dal danzatore nel corso della dimostrazione.
La danza balinese si basa su tre elementi fondamentali: la postura del corpo, ovvero il modo in cui il danzatore compone il proprio corpo in virtù della danza; il ritmo della danza, rapporto tra musica e movimento; il sentimento, la connessione tra corpo e bellezza interiore.
Movimento degli occhi, modulazione della voce e distribuzione del peso corporeo su aree specifiche, caratterizzano la vasta schiera di personaggi maschili e femminili che popolano le danze balinesi. La cifra estetica ed etno-antropologica apportata da I Wanan Bawa al lavoro dell’Odin è un valido esempio della transculturalità di cui il gruppo si alimenta per dare vita alla creazione.
Lo spazio interiore dell’attore
Ma dove avviene la creazione, qual è il suo luogo deputato? Se è vero che l’Odin Teatret è un gruppo che ha incontrato gli spettatori in ogni parte del mondo, dentro e fuori dai teatri, recitando per le strade, in terre sconosciute popolate da piccole tribù, nei centri occupati, in edifici abbandonati, il luogo della creazione non può che essere un non-luogo trasportabile in ogni dove.
Si tratta dello spazio interiore dell’attore, quello spazio di cui Eugenio Barba palesa i confini, dando avvio alla conferenza-spettacolo Modificare il Sahara tenutasi presso il Teatro Valle, con il contributo di Julia Varley.
Lo spazio ha degli occhi e ci obbliga a confessare. La nostra confessione personale è un vomito, un conato malgrado noi e la nostra volontà. Io entro qui, al Teatro Valle, e immediatamente il vomito procurato dallo sguardo sommerge la mia consapevolezza. Questo spazio non è innocente, è qualcosa che domina queste mie reazioni personali e la domanda è: da dove vengono queste reazioni personali? Perché queste reazioni oscurano la percezione del luogo in cui mi trovo, con occhi e sensi nuovi?
Siamo dominati dal nostro spazio interiore che è invisibile e dal quale parte il processo creativo di qualsiasi artista. Qual è il vero processo creativo? Come traghettare quel che avviene dentro di noi sulla scena? Possiamo farlo solo se siamo noi i poeti. E per l’attore da dove proviene questo primo segno concreto che parte dal suo spazio interiore, che lui domina e che lo domina? Il passaggio è traghettare dallo spazio interiore allo spazio esteriore un luogo condiviso che noi conosciamo e che attraverso l’agire dell’attore trasformiamo.
È questa la summa del pensiero di Eugenio Barba sull’arte d’attore: che l’attore sia un Caronte capace di trasportare lo spettatore da una riva all’altra dell’interiorità, perché questo sia capace di abitare il mondo e di osservare la vita attraverso la lente immaginifica dell’arte.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.