Il teatro è un giardino incantato dove non si muore mai La drammaturgia di Franco Scaldati
Un mondo meridiano e notturno, lirico e carnale vive nei testi teatrali di Franco Scaldati. Una Palermo fatta di voci di venditori, di serenate all’amata, di richiami di bambini all’imbrunire, di violenze improvvise e apparentemente immotivate, di giochi, dialoghi fra figure erranti che sognano piatti di tennerumi, creature eteree o al contrario estremamente radicate ai bisogni terreni. Alla sua morte avvenuta nel 2013, Franco Scaldati, drammaturgo, poeta, attore e regista, lascia un ampio fondo di opere teatrali, la maggior parte delle quali inedite, e una consistente mole di varianti redatte anche a distanza di anni: tredici testi pubblicati e trentasei inediti, e a questi sono da aggiungere undici riscritture tratte dalla letteratura teatrale nazionale e internazionale. Il progetto ha come obiettivo quello di far conoscere la produzione per il teatro di un grande scrittore che, in quarant’anni di attività, ha operato essenzialmente a Palermo, una città che né in vita né dopo, ha saputo valorizzare la sua figura di artista, il suo magistero di formazione nei confronti dei giovani che hanno partecipato alle attività che lo scrittore-attore ha portato avanti, per lo più in sedi precarie e disagiate.
Il 29 e 30 novembre 2017 presso la Biblioteca nazionale centrale di Roma, due giornate di studio dedicate alla drammaturgia di Franco Scaldati con storici del teatro e della letteratura, linguisti e critici, per analizzare il mondo, la scrittura e il linguaggio dell’autore-attore nel contesto della storia del teatro e della letteratura del Novecento, italiana (Pirandello, De Filippo, Testori, Pasolini) ed europea. Gli interventi di studiosi (Lucia Amara, Stefano Casi, Valeria Merola, Cristina Grazioli, Matteo Martelli, Donatella Orecchia, Antonella Ottai, Marco Palladini, Viviana Raciti, Stefania Rimini, Andrea Scappa, don Cosimo Scordato, Carlo Serafini, Valentina Valentini) e di artisti di teatro (Antonella Di Salvo, Melino Imparato, Carlo Quartucci, Stefano Randisi, Carla Tatò, Enzo Vetrano), indagano la dimensione orale, raccontano le figure femminili, i tonti che popolano il suo mondo, le tenebre e la luce in cui sono immersi. Insieme alle analisi e alle discussioni che ne scaturiranno, si inseriscono proiezioni e ascolti di Franco Scaldati e di Mimmo Cuticchio, entrambi sulla figura di Lucio, di Edoardo De Filippo, Roberto Latini e Melino Imparato su tre diverse versioni linguistiche de La Tempesta shakespeariana. Di Federico Tiezzi si proietta il finale de IGiganti della Montagna di Pirandello riscritto su sua richiesta da Scaldati, Enzo Vetrano e Stefano Randisi danno vita alla coppia di Totò e Vicé erranti nelle vie di Palermo in un recentissimo film di Marco Battaglia e Umberto De Paola. L’ipotesi che sottende la composizione delle due giornate di studi è quella di far circolare la produzione di questo scrittore insulare, soave e violento, nella trama dei testi per il teatro degli scrittori italiani ed europei del Novecento, cosa che fino a oggi non è avvenuta.
PROGRAMMA:
29 novembre | ore 14:30 Biblioteca nazionale centrale di Roma (via Casto Pretorio, 105) Saluti dal direttore Andrea De Pasquale Presiede: Valentina Valentini
30 novembre | ore 9:30 Biblioteca nazionale centrale di Roma (via Casto Pretorio, 105) Presiede: Donatella Orecchia (Università di Roma Tor Vergata)
30 novembre | ore 14:30 Biblioteca nazionale centrale di Roma (via Casto Pretorio, 105) Presiede: Vito di Bernardi (Sapienza, Università di Roma)
Notturno Scaldati | ore 21:00 Teatro Argentina (Largo di Torre Argentina, 52) ingresso libero
coordinamento di Antonio Calbi e Roberto Giambrone letture e intermezzi coreografici di Aldes, Marco Cavalcoli, Elio De Capitani, Marion D’Amburgo, Antonella Di Salvo, Melino Imparato, Roberto Latini, Saverio La Ruina, Luigi Lo Cascio, Opera, Carlo Quartucci, Stefano Randisi, Carla Tatò, Enzo Vetrano
È possibile parlare la lingua di Scaldati? È possibile comprenderla? In effetti è come se fosse una lingua straniera, anche per chi è nato a Palermo trenta/quaranta anni fa. L’attore Scaldati comunicava con la sua voce, con il ritmo dei suoi gesti e con i movimenti del suo corpo a platee che non conoscevano il teatro né comprendevano la sua lingua. Cosa succede, ci chiediamo, quando un suo testo viene restituito da un attore che non conosce la sua lingua, destinata a diventare come un geroglifico quando non ci saranno più quei pochi attori che la parlano e la comprendono? L’esperimento messo in opera con Notturno Scaldati è quello di testare come si manifesta il mondo-teatro scaldatiano attraverso figure di attori e attrici differenti per generazione, per pratiche vocali, linguistiche, sonore e performative, per esperienza diretta di lavoro con Scaldati o completa ignoranza del suo mondo. Ovvero verificare se e come sia possibile far vivere il teatro di Scaldati senza Scaldati, sulla scena, sulla pagina e per radio.
Progetto di Valentina Valentini con la collaborazione di Viviana Raciti
Con il sostegno di: Sapienza Università di Roma, Università di Roma Tor Vergata, Teatro di Roma, Biblioteca nazionale centrale di Roma (MIBACT), Associazione Ubu per Franco Quadri, Dipartimento Cultura Roma Capitale, Rai Radio3, Move in Sicily, Associazione Lumpen e ILa Palma, PAV, Sciami.com
Fino al 4 novembre, al Teatro Argentina, Giancarlo Sepe, maestro dell’avanguardia italiana anni Settanta, protagonista della stagione delle “cantine” romane, porta in scena Barry Lyndon – Il creatore di sogni, trasposizione del romanzo di William Makepeace Thackeray, dal quale Stanley Kubrick ha tratto uno dei suoi capolavori.
Una lezione “sull’arte della vita”, prendendo a pretesto il protagonista dell’opera che, da povero a ricco aristocratico, subisce la scalata sociale alle soglie della Rivoluzione Francese. Dal romanzo alla trasposizione teatrale, Giancarlo Sepe agguanta le emozioni dal film del 1975 di Kubrick e le situazioni dall’opera picaresca di Thackeray, dirigendo dodici attori nella favola nera di Redmond Barry. Lo spettacolo si districa fra duelli, incontri furtivi, fughe e giochi di potere, per parlarci di giustizia e di ingiustizia, di sacro e di profano.
Raggiunto da Theatron 2.0, il regista Giancarlo Sepe si offre per una breve ma densa intervista.
A partire dal dato letterario, quali sono stati gli aspetti più rilevanti del romanzo che ha voluto trasporre teatralmente?
Il romanzo non lo conoscevo, solo quando ho visto il film di Kubrick nel 1975 ho saputo dell’esistenza de Le memorie di Barry Lyndon. Di Thackeray conoscevo La fiera della vanità ma non conoscevo altro. Appena cinque anni fa, dopo aver visto nuovamente il film, ho letto il romanzo con grande curiosità. Ho notato che all’interno del libro vi era una caratteristica molto importante che Kubrick non aveva osservato: il cineasta gira il film narrando in terza persona, invece il romanzo è in prima persona.
Questa diversa prospettiva cambia totalmente la visuale del racconto perché Kubrick narra in terza persona di una storia conclusa con le aggettivazioni che merita quella storia. Mentre nel romanzo, essendo il dicitore il protagonista stesso, è chiaro che, ascoltando in prima persona Barry Lyndon, sembrerebbe che lui non sia così colpevole perché ha dei momenti di grande empatia.
In ogni caso, resta in vigore il concetto che Barry Lyndon sia un personaggio mediocre e negativo, una persona che non ha un progetto di vita, imbucandosi nelle prime situazioni favorevoli che incontra senza sapere. Avere questa confessione in prima persona è stato l’elemento che mi ha indotto a pensare di metterlo in scena in teatro.
Per la messinscena, Barry Lyndon di Kubrick è un capolavoro, mentre il romanzo di Thackeray è un buon romanzo, ma non un capolavoro. Allora certe soluzione intuitive di Kubrick le ho adottate per denunciare la matrice – se non avessi visto il film, non avrei mai fatto Barry Lyndon, perché non sarei stato così incuriosito dal romanzo. Vedendo, invece, che certe cose nel romanzo erano più appetitose ho fatto molto passaggi dalla parte letteraria.
Quali sono gli elementi di continuità e quali di divergenza rispetto alla versione cinematografica di Kubrick?
Innanzitutto una cosa fondamentale che dà l’impronta a tutta la seconda parte del film di Kubrick: la conoscenza della Contessa di Lyndon. Nel film è una donna eterea, quasi trasparente, come sognante e invece non era né una donna eterea né una donna divina. Perché dice addirittura Thackeray: “Se voi vi aspettate che la Contessa di Lyndon abbia qualcosa di divino, non è così.È una donna di poche parole e di poco cuore che si fregia di una cultura che non ha. Non ama il primo figlio avuto dal marito Reginald, quindi è una donna fasulla e negativa a sua volta”.
Questo è un elemento di diversità fondamentale: una delle cose che sorprende di più il pubblico è sapere che non è l’eterea Marisa Berenson che nel film faceva la lady, non è quella angelicata che ha fremiti e tremiti, no è tutt’altro. Questa è una diversità fondamentale.
Dal punto di vista registico, qual è stato il lavoro affrontato con gli attori per la produzione dello spettacolo?
Come al solito, lavorando molto sulla musica, tutto passa attraverso una visione che è indotta dalla musica che ha una sua impulsività nel gesto attoriale ma dovuta all’ascolto della musica e alle varie funzioni che la stessa assolve. Come del resto, nei film di Kubrick. Anzi quest’ultimo è stato uno dei pochi, se non il solo, che abbia corredato tutti i suoi film con una colonna sonora straordinaria che era propedeutica all’immagine e alla drammaturgia parlata.
Direi che questa è una mia caratteristica, nel senso di trattare tutto attraverso la musica e di contestualizzare la musica nell’accezione drammaturgica, non decorativa, né interlocutoria ma necessaria come se fossero tutte parole, situazioni che si creano. È un lavoro che porta via mesi e mesi, non un lavoro semplice.
Rispetto ai contenuti dello spettacolo, quali sono gli elementi di richiamo alla nostra contemporaneità?
Penso che le cose, nel momento in cui vengono fatte, risentano di una contemporaneità. In questo caso, parlando di una persona che millanta un’ascendenza e un censo che non ha, che bara al gioco, che prende lezioni di scherma perché a quei tempi le dispute si risolvevano tramite il duello, non dal fatto che si avesse ragione. Per tutte queste ragioni è inevitabile che questo spettacolo abbia a che fare con l’oggi.
C’è semmai una profonda misoginia in Barry Lyndon, e forse anche in Thackeray, scrittore satirico, che non amava molto il modo di essere femminile, molto differente dal modo in cui l’ha rappresentato Kubrick nel suo film. In realtà sono donne che pensano a tradire, agli amori rubati, a collezionare una serie d’incontri che le ripaghino dall’avere un marito anziano. Insomma, mi sembra che ce ne sia per tutti i gusti.
Parlando della nostra contemporaneità: dopo le dimissioni di Calbi, cosa si augura per il Teatro di Roma?
Innanzitutto Calbi è stato colui che ha voluto co-produrre il nostro Barry Lyndon, per questo ci tengo a ringraziarlo. Penso che il teatro debba avere la sua fisionomia a favore di una riconoscibilità del teatro stesso. Per esempio, nel caso del Teatro La Comunità, lo spettatore già sa dove va e conosce le modalità di un certo teatro. Gestire un teatro e avere poco spazio di tempo per far conoscere il prodotto perché ci sono molti spettacolo è un problema; l’altro problema è di non avere una riconoscibilità artistica particolare.
Quando c’erano gli Stabili sapevo che dal Teatro Stabile di Genova dove c’erano Squarzina, Lionello ed Eros Pagni uscivano certi spettacoli, così come sapevo che al Piccolo c’era Strehler e così a Torino vi era Aldo Trionfo. Ognuno aveva una fisionomia riconoscibili. Bisogna, secondo me, che anche il Teatro di Roma abbia la propria fisionomia, al di là delle ospitalità alle compagnie straniere o a quelle di ricerca. È giusto che ci sia una molteplicità, ma non è giusto non dare una fisionomia singolare a questo teatro.
BARRY LYNDON Il creatore di sogni
liberamente tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray riduzione teatrale e regia Giancarlo Sepe
con Massimiliano Auci, Sonia Bertin, Mauro Brentel Bernardi, Gisella Cesari, Silvia Como, Tatiana Dessi, Vladimir Randazzo, Federica Stefanelli, Giovanni Tacchella, Guido Targetti, Gianmarco Vettori e con Pino Tufillaro
scenografie e costumi Carlo De Marino musiche a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team luci Guido Pizzuti foto Salvatore Pastore
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale,Teatro La Comunità
Il dramma shakespeariano trasportato in una Sardegna arcaica e senza tempo. Un Macbeth che si esprime in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini, è l’originale e pluripremiato spettacolo di Alessandro Serra, MACBETTU, in scena dal 4 al 6 maggio al Teatro Argentina.
«Macbettu restituisce la natura profonda del testo shakespeariano», commenta il regista Alessandro Serra, sua la ideazione, scene, costumi e luci dell’immaginifica e originale rilettura del capolavoro del Bardo. Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno e premio Anct 2017 (Associazione nazionale critici di teatro), la pièce tradotta e adattata dall’inglese al sardo logudorese da Giovanni Carroni, sposta la cruenta tragedia dalla Scozia in Barbagia. Terra evocata, mai nominata, quasi luogo metaforico di un passato ancestrale con i suoi segni e simboli e la potenza di un linguaggio dove la parola diventa canto e conquista e emoziona lo spettatore con tutta la sua forza espressiva.
«Nel riscrivere il testo – racconta Serra – tutti i personaggi femminili sono stati omessi e la storia non sembrava subire alcuna ferita. Tutte le donne riassunte in un’unica dea madre reggitrice di morte: Lady Macbeth. Più alta e più forte degli uomini, come in una delle sue più antiche rappresentazioni, quella di Ozieri: filiforme, astratta, trascendente. L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia tra i suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti, le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo, soprattutto il buio inverno». Le sorprendenti analogie tra il capolavoro shakespeariano e le maschere della Sardegna diventano il fulcro di questo spettacolo.
La lingua sarda non limita la fruizione, bensì trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. «Abbiamo lavorato sulle analogie, sulla natura arcaica dei carnevali barbaricini, sui segni iconici, sugli archetipi, sui codici culturali, andando oltre la maschera e il folklore, quasi con un’operazione di ‘espianto di aura». Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
Il risultato è uno spettacolo di meraviglia cupa, in grado di utilizzare elementi della tradizione, senza fermarsi a una contemplazione statica, ma utilizzando i segni in modo contemporaneo, quindi ambiguo, tragico, affascinante. La scena è curata in una stilizzazione puntuale: ogni oggetto – i costumi, le pietre, il sughero, i campanacci – è elemento coerente e contribuisce alla costruzione di uno spazio visionario e evocativo, in cui gli attori si muovono, seguendo precise traiettorie coreografiche. Macbettu inquieta con l’atroce bellezza di un racconto senza parole, in grado – come da tradizione barbaricina – di dire senza rivelare.
Parliamo del Macbettu con Leonardo Capuano, protagonista di questo kolossal teatrale, espressione e sintesi maestosa delle intuizioni geniali del Macbeth di Shakespeare e l’ispirazione del regista di fronte al Carnevale barbaricino.
Macbettu ph. Alessandro Serra
com’è nata la collaborazione con Alessandro Serra?
Leonardo Capuano ph. Alessandro Serra
In maniera del tutto normale, io e Alessandro ci conoscevamo di vista. Abbiamo fatto dei percorsi di lavoro a Castiglioncello dove magari ci siamo incrociati, salutandoci senza sapere chi fosse l’altro. Poi credo che Alessandro abbia saputo che io ero nato a Cagliari e aveva il progetto del Macbettu che non era ancora partito. Nel 2016 mi ha telefonato e mi ha parlato di questo progetto e io gli ho detto che l’idea mi sembrava molto bella da sviluppare. Poi mi ha richiamato e mi ha detto che ci sarebbe stata la produzione del Teatro di Sardegna, io ho accettato dopo aver visto cosa faceva attraverso dei video per capire in che modo lavorava così che potessi rendermi conto di chi fosse- perché non avevo mai visto niente. Ho visto qual è la sua forma di teatro e l’ho trovato molto bella, così ho preso un aereo e sono andato a Cagliari per lavorare quattro giorni. Ci siamo riconosciuti in qualche modo come persone che cercavano di lavorare sodo e seriamente cercando di fare al massimo delle nostre possibilità. Vedendo le cose allo stesso modo, è stato bello incontrarsi perché è difficile che questo possa succedere.
Che tipo di lavoro hai affrontato durante le prove?
Non è stato per niente difficile né tantomeno sgradevole, nel senso che ci siamo incontrati a lavorare e io ho riconosciuto immediatamente quelle che erano e anche quelle che sono le metodiche di Alessandro e riconosciuto in che modo lui approcciava al lavoro. Un modo che reputavo molto vicino al mio, c’è stato quindi un lavoro di creazione totale insieme a tutto il gruppo di attori – altri sette a parte me – e abbiamo lavorato giornate intere, 10 ore al giorno stimandoci a vicenda. Quando due persone hanno delle affinità, si incontrano e si rendono conto che parlano la stessa lingua e hanno una serie di desideri comuni tutto procede nel migliore dei modi. Abbiamo collaborato su alcune parti del testo, è stato un lavoro di creazione totale e di grande collaborazione. Naturalmente, via via che si manifestava la sua competenza è chiaro che c’è stata piena fiducia nei confronti del regista e piena fiducia da parte sua nei miei confronti rispetto a quelle che erano le mie competenze. Abbiamo capito durante le prove in che modo si poteva lavorare in scena, cercando di risolvere e di creare del materiale che potesse essere possibile all’interno di quello spettacolo.
A tuo avviso da dove nasce il grande successo del Macbettu?
Se dovessi indicare le motivazioni di questo grande successo, lo sminuirei. Io conosco tutta la fase di lavorazione essendo stato coinvolto in prima persona e ne ho anche delle responsabilità come tutti gli altri. Sarebbe limitante pensare che lo spettacolo è in lingua sarda e allora questa peculiarità garantisce un’unicità. Questo è vero, ma non è la sola motivazione. Posso considerare tutte quelli che sono i livelli che compongono lo spettacolo e so quali sono e quali potrebbero essere i motivi per cui ha riscosso grande successo però rischierei di smontare lo spettacolo e renderlo in qualche modo ridicolo. Invece quello che posso dire è che credo che ci siano spettacoli fortunati, non tutti sono così e questo è una sorta di mistero, così anche per i miei spettacoli alcuni dei quali sono stati fortunati; perché il pubblico ha decretato che fossero così fortunati? Non certo io posso dirlo. Quello che posso dire di questo spettacolo è che è il frutto di un incontro con artisti che si sono messi insieme parlando poco, lavorando molto e cercando di fare la cosa più bella che potevano riuscire a fare tutti insieme. Questo è molto difficile che avvenga ed è questo il modo con cui vorremmo continuare a lavorare con Alessandro. Nessuno di noi poteva pensare che sarebbe successo quello che è successo – alla fine non è che sia successo niente di trascendentale, abbiamo avuto la fortuna che lo spettacolo sia piaciuto a molti e che venga richiesto e noi siamo felici di questo. Prima di questo riscontro, non avevamo molto credito ma credo che questo sia il frutto di duro lavoro e di grande intelligenza e una certa dose di talento – la fortuna poi ha fatto il resto.
Leonardo Capuano condurrà un seminario a Roma a maggio: SCOPRI DI PIÙ
MACBETTU
di Alessandro Serra regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra tratto da Macbethdi William Shakespeare con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini musiche pietre sonore Pinuccio Sciola – composizioni pietre sonore Marcellino Garau Produzione Teatropersona, Sardegna Teatro con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
PREMIO UBU 2017 | Spettacolo dell’anno PREMIO ANCT 2017 | Associazione Nazonale dei Critici di Teatro
Giovedì 3 dicembre si è svolta la conferenza stampa del gruppo Presidi Culturali Permanenti di Roma. Una realtà nata di recente e in maniera spontanea, subito dopo il decreto che ha imposto la chiusura di cinema, teatri e sale da concerti lo scorso 26 ottobre. Dal giorno successivo numerose lavoratrici e lavoratori, afferenti a tutto il settore dello spettacolo dal vivo — tecnici, attori e attrici, addetti all’organizzazione, alla produzione, alla comunicazione — hanno iniziato ad incontrarsi fuori dal Teatro Argentina, lo stabile di Roma.
Giorno dopo giorno ha preso vita un presidio permanente che non solo continua ad andare avanti, con l’appuntamento fisso alle 11.30 della mattina, ma che si sta diffondendo anche in altre città: a Milano davanti a Il Piccolo Teatro a cui si sono aggiunte di recente Napoli e Padova.
La conferenza stampa cade nel trentaquattresimo giorno di presidio che viene definito dal gruppo un periodo di studio, di riunioni, di mobilitazioni. All’indomani della chiusura, i lavoratori e le lavoratrici hanno sentito l’urgenza di esserci e incontrarsi, non tanto per richiedere la riapertura ad emergenza in corso quanto per essere riconosciuti come categoria e per affermare i propri diritti, contro una narrazione che vorrebbe il settore tradizionalmente disunito e poco informato.
Il riconoscimento, sostiene il gruppo, potrà avvenire solamente se verrà sancita la natura intrinsecamente intermittente delle professioni dello spettacolo. Serve un progetto di politica culturale che immagini un modello lavorativo inedito, in grado di sostenere periodi di inattività, a prescindere della crisi sanitaria che stiamo attraversando. Ed è proprio per i momenti di non attività che i Presidi Culturali Permanenti hanno la loro proposta più specifica e concreta.
Un programma di formazione retribuito e permanente è lo strumento individuato per garantire tanto un aggiornamento professionale quanto un reddito di continuità. Il progetto prevede un insieme di corsi formativi che coprano tutte le mansioni interessate, così da rendere i momenti di inattività momenti di crescita e allo stesso tempo assicurare un salario con regolari contributi sia ai formatori che ai frequentanti. Nella proposta viene ipotizzata la creazione di una commissione formata da lavoratori e lavoratrici, esperti e critici insieme ai membri delle istituzioni, che possano di concerto fissare le regole per l’avviamento dei corsi.
Quelle suggerite dal gruppo riguardano un tetto massimo del reddito come criterio per l’ammissione e la parità di genere per la scelta dei formatori e delle formatrici. L’ente a cui si rivolgono direttamente i Presidi Culturali Permanenti è la Regione Lazio, chiedendo che il progetto venga inserito nei programmi finanziati dai fondi europei per gli anni 2021-2027, a cui si potrebbe aggiungere l’apporto del FUS. La formazione, sottolineano, sarebbe permanente come lo è attualmente il presidio: una buona pratica da estendere a tutto il territorio nazionale.
Oltre agli interventi più tecnici di Elena Vanni e Barbara Folchitto, nella conferenza stampa c’è spazio anche per spunti più poetici. Nell’introduzione, Giuseppe Filipponio evidenzia come siano passati nove mesi dall’inizio dell’emergenza sanitaria, il tempo giusto per una nascita. Il terreno fertile è stato proprio l’assenza, dove perdita e amore si fondono.
Lì è cresciuta spontaneamente la determinazione per unirsi e trasformare le fragilità in forza. In chiusura, Angela Saieva cita il filosofo Gilles Deleuze: «Vivere è sentire a fondo la potenza liberatoria, la pretesa che nasce quando i corpi si distendono nella gioiosa capacità di inventarsi reciprocamente alla vita». Un buon auspicio per il futuro, affinché il tempo sospeso della pandemia possa generare risultati inattesi.
Lucrezia Ercolani è nata a Roma nel 1992. Interessi e mondi diversi hanno sempre fatto parte del suo percorso, con alcuni punti fermi: la passione per le arti, soprattutto quelle dal vivo; l’attenzione per le espressioni sotterranee, d’avanguardia, fuori dai canoni. Laureata in Filosofia all’Università La Sapienza, è stata redattrice per diverse riviste online (Nucleo Artzine, Extra! Music Magazie, The New Noise, Filmparlato) e ha lavorato al Teatro Spazio Diamante. Ultimamente collabora con Il Manifesto.
Sfuggire alla politica per affidarsi al pubblico. Tornare alle origini del Teatro per vivere in purezza la relazione archetipa con l’altro. Incontri, umani prima che artistici, che fanno del Barbonaggio teatrale diIppolito Chiarello una preziosa risposta socio-culturale nel segno della condivisione. Nato per reagire a un sistema teatrale claudicante, troppo spesso incapace di garantire condizioni favorevoli ai lavoratori dello spettacolo, il Barbonaggio teatrale si è formalizzato in un movimento artistico diffuso e praticato in tutta Europa.
La strada diventa il palcoscenico-mondo di cantastorie migranti che innescano potenti meccanismi di fruizione, rivelandosi instancabili fautori dell’aggregazione. Piazze e monumenti si convertono in scenografie affascinanti, su cui scrivere nuove pagine di pratiche antiche. Uscire dai teatri per riempire le platee di nuovi spettatori. Ritrovarsi agli angoli delle strade per riconoscere la propria storia nell’arte di strilloni vaganti. Festeggiando il decennale del Barbonaggio teatrale, Ippolito Chiarello, fondatore del movimento, racconta esordi, aneddoti e prospettive del suo progetto artistico.
Come nasce l’esperienza del Barbonaggio teatrale? Su che necessità si fonda la tua fuoriuscita dal teatro?
È nato dieci anni fa. La causa scatenante è stata uno spettacolo prodotto dal Festival Castel dei Mondi, ad Andria, che all’epoca era molto importante. Ho realizzato questo spettacolo con un drammaturgo, una regista, un light designer e così via: lo spettacolo aveva una grande scenografia, tante luci e io ero da solo sul palco. Era il 18 luglio del 2008 e, la notte stessa della prima, era maturata dentro di me l’idea che questo spettacolo non l’avrei mai più fatto, o comunque che sarebbe stato difficile riproporlo. Il giorno dopo telefonai a Simona Gonella, la regista, al designer Vincent Longuemare, al drammaturgo Michele Santeramo, e dissi loro che secondo me lo spettacolo non avrebbe funzionato, che non avrebbe avuto la possibilità di girare.
Fortunatamente, tutti hanno accolto subito la mia perplessità: abbiamo comprato quattro lampade, le abbiamo messe su una scena ridottissima e ho ripreso lo spettacolo con 100 euro, a fronte dei 30.000 euro della produzione precedente. Non sentivo più la forza del lavoro dell’attore, la bellezza del racconto. Così sono andato al Teatro di Bari, ho proposto lo spettacolo e, in cambio, ho chiesto di poter lavorare un’intera settimana. Ho tolto tutto, ma proprio tutto, ho acceso la lampada di servizio del teatro, e ho raccontato questa storia solo con un microfono e la musica in accompagnamento.
Lo spettacolo cominciava a prendere forma, e io finalmente ho capito quale fosse la mia strada – che si è concretizzata quest’anno, tra l’altro, con un viaggio lunghissimo – ovvero quella di fare teatro in una maniera molto pura: devi far funzionare quello che vuoi raccontare. Questo spettacolo si chiamava Fanculopensiero Stanza 510 ed è il sunto della mia idea di teatro, diventata una vera e propria filosofia di vita. Il protagonista dice: «Molto spesso pensiamo a quello che dobbiamo fare, a quello che abbiamo fatto. Forse, a un certo punto, dovremmo fanculizzare il pensiero e vivere il momento che stiamo attraversando».
Barbonaggio teatrale- Ippolito Chiarello
Per promuovere lo spettacolo, il mio ufficio stampa mi propose di andare per strada a fare un po’ di volantinaggio e a me venne l’idea di montare un pezzo di scenografia, indossai l’impermeabile, e mi misi in piedi su un tappeto, in mezzo a una piazza. Ho cominciato a vedere la gente che si avvicinava e mi chiedeva che cosa stessi facendo, mi è venuto in mente di dire che stavo cercando qualcosa. Da quel momento è nato un dialogo con il pubblico. Ho diviso lo spettacolo in 11 pezzi di diversa lunghezza, gli ho dato un titolo e un prezzo la cui somma era pari a 65 euro, cifra che all’epoca corrispondeva alla paga minima di un attore. Ho cominciato a girare per l’Italia con un palchetto, l’impermeabile e una valigetta con qualche oggetto di scena. Ad oggi, sono circa cinquecento le città in cui sono stato con questo meccanismo spettacolare. Io volevo sfuggire alla politica, volevo affidarmi al pubblico. Il Barbonaggio teatraleè nato per incontrare il pubblico e per portarne di nuovo a teatro. Facevo quest’azione per strada perché volevo dimostrare alle persone che il mestiere dell’attore è un lavoro e non un divertimento, come troppo spesso viene considerato in Italia.
Con il Barbonaggio teatrale hai visitato diverse nazioni avendo modo di entrare in contatto con contesti organizzativi e produttivi differenti. Da questo punto di vista, in quali luoghi hai trovato delle buone pratiche che ritieni andrebbero assunte come modello dal sistema teatrale italiano?
Proprio continuando col racconto, la domanda capita a puntino. Per capire come funzionasse all’estero ho intrapreso un viaggio in tutte le capitali europee con un’interprete e con il regista-autore del film Ogni volta che parlo con me che successivamente abbiamo girato. Mi è capitato di lavorare in Canada, a Vancouver, in Francia e quello che ho compreso è che, in queste nazioni, se hai un progetto che vale, ti ascoltano. Ho cercato più volte di far circolare un progetto del Barbonaggio legato a un’azione di contatto tra artisti e cittadini, con famiglie di raccontatori, di barboni teatrali per far sì che la gente conoscesse il processo e sapesse che ci si può raccontare da soli, ma anche andare a teatro ed essere raccontati. In Italia non mi ha mai risposto nessuno.
Il Barbonaggio è diventato un movimento, è diventato un gergo del linguaggio teatrale, su di esso sono state fatte tesi di laurea ed è diventato un atto politico alto. Sono stato in Francia, a Nantes dove ho presentato il progetto al comune, al sindaco, alle istituzioni, e tutti ne sono rimasti entusiasti. Ho vinto il finanziamento della prefettura, il finanziamento della cittadinanza. Ormai a Nantes si parla del Barbonaggio, gli attori sono in giro a fare questa azione che durerà un anno: sto lavorando con tante etnie che si racconteranno sul palco, senza parlare di immigrazione, chiarendo che la diversità è una ricchezza. Mi sono posto il problema di fare qualcosa per la comunità perché, in fondo, io non avrei bisogno di andare per strada, eppure in questo modo mi conoscono ovunque e tutti mi riconoscono come l’inventore del Barbonaggio teatrale.
Il 28 dicembre sarai in scena al Teatro Argentina di Roma con lo spettacolo Mattia e il nonno, una coproduzione Factory Compagnia, Fondazione Sipario Toscana, in collaborazione con la tua compagnia Nasca Teatri di Terra. Come si collega il lavoro che hai svolto per questa nuova produzione all’esperienza del Barbonaggio Teatrale?
Il 10 maggio dello scorso anno ha debuttato a Milano, al Festival Segnali, lo spettacolo Mattia e il nonno tratto da un libro di Roberto Piumini, scritto vent’anni fa. È una storia straordinaria in cui si racconta a un bambino di sette anni come, anche quando una persona vola via, rimane dentro di te per tutta la vita. Lo spettacolo ha suscitato un grandissimo interesse, ha avuto molto successo, fino ad oggi sono state realizzate ottanta repliche. Questo spettacolo è venuto bene perché ho l’esperienza del Barbonaggio: in scena ci sono solo io con questo racconto delicatissimo, adatto a grandi e piccini. Il mio rapporto con il pubblico è così concreto e forte perché sono cresciuto artisticamente e politicamente recitando per strada.
A proposito di questo, il Barbonaggio teatrale innesca dei potenti meccanismi di relazione con lo spettatore. Credi sia possibile tradurre la forza di quel rapporto anche quando metti in scena i tuoi spettacoli in teatro?
Assolutamente! Questa forza attinta dalla strada – dalla relazione col pubblico reale –, mi riserva una grande consapevolezza quando sono sul palcoscenico. Quando io rivolgo il mio corpo, il mio sguardo verso il pubblico ho un’altra necessità: vorrei che, sul palcoscenico, la mia azione potesse trasformare la platea che è davanti a me in una comunità di persone che ascolta. In strada è così: se tu non funzioni, se tu non racconti qualcosa veramente, la gente passa dritta.
Adesso ho restaurato il palchetto e ho deciso di fare un’altra follia, anzi due: una è di mettere nel mio menù i cinque spettacoli che ho fatto, ciascuno suddiviso in cinque pezzi tra i quali è possibile scegliere. E devo farlo per strada perché per me è un modo per stare sempre con i piedi per terra, per continuare a lavorare con la testa, per non far morire certi spettacoli, perché sono un patrimonio che deve essere coltivato. L’altra follia che sto architettando è di fare un viaggio in America Latina, toccando tutte le tappe de I diari della motocicletta di Che Guevara.
Barbonaggio teatrale-Artisti barboni per un giorno
Qual è l’insegnamento o l’incontro che in questi anni di migrazioni è stato per te maggiormente significativo come uomo e come artista?
Come artista, ringrazierò sempre la strada perché mi ha formato come attore consapevole. Umanamente mi ha arricchito di relazioni e sono una persona diversa, una persona che affronta le cose senza paura dell’altro. Ho conosciuto le altre etnie, gli altri popoli, e gli altri modi di essere e di vivere la vita e ho davanti a me l’idea di una vita colorata, fatta di tante sfumature. Un aneddoto che ricordo con piacere riguarda un uomo che, incontrandomi per strada, mi ha dato dei soldi e senza chiedermi di recitare un pezzo dal mio listino mi ha detto: «Penso che quello che sta facendo sia molto importante».Poi penso ai ragazzi, i bambini che all’inizio sono molto diffidenti ma che poi, quando cominciano a vedere che sei tu stesso l’opera, si incuriosiscono. Io vorrei essere un esempio per queste persone.
Quest’anno hai festeggiato il decennale del Barbonaggio teatrale con un’azione pubblica a Lecce. Immaginati alle celebrazioni per i 20 anni del progetto: rispetto ad oggi, cosa speri di ottenere o di preservare nel cammino futuro del Barbonaggio teatrale?
Mi piacerebbe che, tra dieci anni, artisti e cittadini potessero adottare questa modalità per dire quello che non va, agli incroci delle strade, come si faceva una volta con gli strilloni. Spero che questi piccoli palchi si possano moltiplicare, che diventi sempre più forte la necessità di raccontare in un mondo in cui il virtuale sta prendendo il sopravvento. Mi piace immaginare che questo mondo sarà fatto di persone che praticano quello che è stato il teatro all’origine: una storia, un palco, e un pubblico in una piazza. Questo sicuramente.
Nasce a Napoli nel 1993. Nel 2017 consegue la laurea in Arti e Scienze dello Spettacolo con una tesi in Antropologia Teatrale. Ha lavorato come redattrice per Biblioteca Teatrale – Rivista di Studi e Ricerche sullo Spettacolo edita da Bulzoni Editore. Nel 2019 prende parte al progetto di archiviazione di materiali museali presso SIAE – Società Italiana Autori Editori. Dal 2020 dirige la webzine di Theatron 2.0, portando avanti progetti di formazione e promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
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