Le stelle del Teatro Alla Scala, monadi sul palcoscenico

Le stelle del Teatro Alla Scala, monadi sul palcoscenico

Scala
Teattro alla Scala – Ph Giuseppe Cacace

La prima del Teatro alla Scala di Milano, trasmessa il 7 dicembre su Rai 1, è stata sicuramente un grande spettacolo televisivo con uno share del 14,65% e 2 milioni e 600 mila spettatori televisivi, dati leggermente in flessione rispetto allo scorso anno (15% di share e 2,9 milioni di spettatori di media). Un’operazione mastodontica, che però ha lasciato qualche incertezza rispetto alla tradizionale prima scaligera.

Prima del Teatro alla Scala o Gran Galà?

È stata una prima anomala questa del 7 dicembre 2020 del Teatro Alla Scala, destinata sicuramente a dividere, ma soprattutto a rimanere come un evento eccezionale. Era infatti dal 1946, data di riapertura del teatro milanese dopo la Seconda Guerra Mondiale con l’immenso Toscanini, che la Scala non inaugurava la propria stagione con un’opera. Nel finale, il regista Davide Livermore ha cercato di mettere in continuità i due eventi, forse osando un po’ troppo; due tragedie senza dubbio, ma anche due eventi differenti quelli della Seconda Guerra Mondiale e della pandemia attuale.

Se allora il concerto fu un’occasione di ritrovo, di recupero di uno spazio sociale e culturale come quello del Teatro, ieri è stato un momento di speranza di recupero, attraverso un’operazione culturale forse un po’ troppo grande che puntava ad intrecciare le diverse anime della cultura, come la musica, la danza, il teatro, la letteratura, la vita civile e che alla fine ha prodotto un evento senza dubbio spettacolare ma anche confuso. 

La successione di arie dell’opera lirica europea, tra le quali è saltata l’esecuzione di Winterstürme da Walküre di Wagner probabilmente a causa delle tempistiche televisive, è sembrata una sequenza di monadi teatrali, inanellate una dietro l’altra, sottolineata anche da un palcoscenico inondato d’acqua su cui affiorava una piattaforma di legno modulabile sulla quale cantavano i cantanti. Probabilmente l’intenzione era quella di mettere in scena un Gran Gala della musica lirica e del teatro poiché la drammaturgia costruita al contorno dei nuclei tematici scelti, più che creare connessioni spezzava il ritmo, appesantendo il tutto. 

Intersezione tra attori, musica, politica e arte

I temi della la serata sono stati assolutamente di primo livello. Le arie tratte da  Rigoletto, opera in cui si tratta lo scherno dell’uomo e la violenza sulla donna, sono introdotte dai versi de Le Roi s’amuse dello stesso Hugo, da cui è tratta l’opera verdiana, attraverso la recitazione di Caterina Murino.  A seguire l’elogio degli ideali di Giancarlo Judica Cordiglia introduce le arie tratte dal Don Carlo di Verdi, mentre il ruolo fondamentale delle eroine operistiche è raccontato da Michela Murgia che ribadisce l’attualità ancor oggi dell’opera all’interno della società, come fonte di dibattito pubblico.

La scrittrice introduce i personaggi e le arie della Lucia di Lammermoor di Donizetti e della Madama Butterfly di Puccini; all’intersezione tra opera e cinema, con il ricordo di Federico Fellini, ci pensa Massimo Popolizio, che introduce alcuni brani tratti dal Don Pasquale e da Elisir d’amore  di Donizetti; lo Schiaccianoci è presentato dalle parole di Caterina Murino mentre il tema del dramma e del ruolo femminile all’interno della società, hanno il viatico dei versi della Fedra di Racine, recitati da  Laura Marinoni; i brani operistici scelti sono tratti dalla Turandot di Puccini e dalla Carmen di Bizet, un po’ carente di mordente passionale.

Sax Nicosia, invece introduce con i versi de Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, di Pavese il tema dell’ineluttabilità della morte violenta nell’opera, anticipando i brani di Un Ballo in Maschera di Verdi; ancora una volta la letteratura italiana, questa volta con Montale e la sua Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale, che attraverso la voce di Laura Marinoni porta sulle scene l’amore passionale e romantico del Werther di Massenet.

Un estratto poi della Lettera alla Danza di Rudolf Nureyev, recitata da Maria Chiara Centorami, Alessandro Lussiana e Marouane Zotti, introduce il bellissimo spettacolo di danza e luci di Roberto Bolle e le coreografie realizzate su alcuni ballabili da I Vespri siciliani, Jérusalem e Il Trovatore di Verdi. Un famoso passo di una lettera verdiana in cui si esplicita il suo faro drammaturgico, Shakespeare, e il suo modo di agire sulla scena, ovvero inventando il vero, è letto da Cordiglia e conduce il pubblico al tema delle illusioni della realtà, con il famoso Credo di Jago tratto dall’Otello verdiano.

Anche Gramsci trova posto nella drammaturgia della prima, il suo Odio gli indifferenti letto da Massimo Popolizio introduce inevitabilmente il tema politico con brani tratti dall’Andrea Chenier di Giordano. Le parole di Sting, recitate da Caterina Murina introducono di nuovo il tema della morte con E lucean le stelle, dalla Tosca di Puccini.

Il penultimo intervento è di Maria Chiara Centorami, Alessandro Lussiana e Marouane Zotti che portano sul palcoscenico galleggiante il tema della speranza, lasciando spazio al Nessun Dorma (Turandot) e a Un bel dì vedremo (Butterfly) di Puccini, mentre la conclusione è affidata allo stesso Davide Livermore, che firma la regia dello spettacolo, con un suo monologo che porta direttamente verso il finale occupato dal Tutto cangia, del Guglielmo Tell di Rossini

Come si è potuto vedere tanta la carne al fuoco, forse troppa per un evento di Gala come è stata questa prima. Non dando una direzione tematica unica alla serata, purtroppo, si è incorsi nel rischio di toccare marginalmente tanti, troppi temi, restituendo al pubblico un po’ di caos, purtroppo senza trasmettere quel gran messaggio artistico, politico, culturale che inevitabilmente da ogni prima della Scala ci si attende.

Performance, scene e orchestra

Arrivando alle performance della serata la notazione di merito da fare senza ombra di dubbio è all’orchestra. Non era semplice mettere insieme in poco tempo un repertorio così vasto, che comprendesse così tanti stili e compositori. Merito senza dubbio anche del suo direttore Riccardo Chailly, di spalle a palco e cantanti, che sa sempre tirare fuori il massimo, soprattutto nella musica pucciniana, dai maestri e professionisti di questa orchestra disposta ieri in platea. 

Seconda notazione di merito va indubbiamente all’esibizione di Roberto Bolle, sulle note di Waves di Boosta-Satie. La sua performance è un vera e propria riscrittura spaziale della danza, un passo a due con la luce laser che lo circonda, lo attraversa, viene respinta e allo stesso tempo si unisce ai tempi, ai movimenti e alle figurazioni dell’etoile italiano.

A brillare invece tra i cantanti sono indubbiamente Benjamin Bernheim nel Werther, di Massenet, Lisette Oropesa magnifica, soprattutto nelle coloriture finali di Regnava nel silenzio, della Lucia di Lammermoor di Donizetti e Rosa Feola che oltre a un’eccelsa prova di canto, dà anche un’ottima prova di recitazione nell’aria Son anch’io la virtù magica in un’ambientazione da vacanze romane del Don Pasquale donizettiano. Ottima prova anche di Elina Garanca, Ludovic Tézier e dell’intramontabile Placido Domingo, in Nemico della Patria, dall’Andrea Chenier, di Giordano. 

Non convincono infine alcune ambientazioni, che sembrano decontestualizzare le opere scelte, come quella del Don Carlo in treno o del Credo di Jago– cantato magistralmente da Carlos Alvarez – con la Casa Bianca che brucia o infine le immagini di Aldo Moro, Borsellino e Falcone, Gandhi e Papa Giovanni, che scorrono dietro le spalle di Domingo durante la sua esibizione. 

A stupire e a lasciare la pelle d’oca è sicuramente il finale, con le note del Guglielmo Tell rossiniano, che sembrano voler buttare giù i muri della Scala e far entrare questa esibizione, materialmente e fisicamente in tutte le case degli italiani, per fargli rivivere ancora una volta la magia del teatro, della musica e della cultura.

La forza della danza. Intervista a Christian Fagetti, ballerino del Teatro alla Scala

La forza della danza. Intervista a Christian Fagetti, ballerino del Teatro alla Scala

La danza, per Christian Fagetti, è arte e poesia. Ballerino solista del Teatro alla Scala di Milano, è noto per gli slanci dinamici della sua tecnica, il carisma e la capacità di dare spessore ai ruoli che interpreta, l’architettura euritmica delle sue linee, le fibre muscolari veloci e l’intensità dello sguardo. In questa intervista Christian Fagetti, ha raccontato la sua storia, la sua esperienza di artista e di uomo del suo tempo, ricalcando l’importanza di realizzare i sogni e gli obiettivi con pazienza, gentilezza d’animo e determinazione.

Brescia e Amisano ©️ Teatro alla Scala
Brescia e Amisano ©️ Teatro alla Scala

Puoi raccontarci la tua esperienza come ballerino alla Scala di Milano?

Ho fatto molta gavetta. A un anno dal mio ingresso nel corpo di ballo del Teatro alla Scala, grazie alla compianta direttrice dell’epoca Elisabetta Terabust, la mia carriera è iniziata in modo molto felice. Fu lei a notarmi e a darmi i primi ruoli da solista. Con l’arrivo di una nuova direzione, succeduta alla Terabust, era normale che cambiassero i gusti e con essi i ballerini. Per tre o quattro anni ho lavorato solo nel corpo di ballo facendo piccole parti da solista.

È stato uno dei momenti più duri per me, perché ho avuto la sensazione di essere tornato indietro. Il lavoro, però, non si è mai fermato e, anche in quella circostanza, ho trovato la forza di fare ancora di più per dimostrare a me stesso e a chi di dovere la mia determinazione. A livello psicologico è stata un’esperienza pesante da gestire. Al giorno d’oggi, se sei bravo e talentuoso, puoi essere scelto per ruoli di prestigio anche se sei appena entrato in una compagnia. Un tempo si facevano molti più sacrifici per raggiungere questo tipo di obiettivi.

Il primo ruolo importante, come primo ballerino, mi è stato assegnato quando avevo poco più di ventisei anni. Era l’Oscurantismo, nel balletto Excelsior, ma il ricordo al quale sono più legato in assoluto è quello di Rothbart ne Il lago dei cigni di Rudolf Nureyev. Un ruolo molto profondo che richiede grandi sforzi di interpretazione. Tutto il lavoro di danza è concentrato nella variazione del terzo atto, molto musicale e complessa a livello tecnico. Si tratta di un passo a due che in questa versione diventa a tre con Odile (il Cigno Nero), il Principe Siegfried e Rothbart.

Un altro ruolo che mi sta particolarmente a cuore e che sento molto nelle mie corde è Mercuzio in Romeo e Giulietta con la coreografia di Kenneth MacMillan. Ultimo, ma non il meno importante, è un personaggio al quale sono affezionato e che ho interpretato tante volte, ovvero Espada nel Don Chisciotte di Nureyev. Nel 2014 ho avuto l’onore di danzare con artisti come Natalia Osipova e Leonid Sarafanov e di realizzare, successivamente, il video che è andato in commercio e che, recentemente, è stato trasmesso da Rai5 e Rai Play.

L’esperienza è stato il valore aggiunto per il cambiamento e l’evoluzione artistica?

All’inizio non credevo molto in me. Quando ero più giovane avevo un basso livello di autostima e mai avrei pensato di raggiungere determinati risultati. Il lavoro in sala, le difficoltà e le esibizioni dal vivo hanno plasmato il mio carattere, la mia personalità. Ho realizzato così che avrei potuto fare qualcosa in più rispetto al far parte del corpo di ballo. Guardando indietro, ripensando a tutto ciò che mi sono lasciato alle spalle, posso dire che, adesso, alla soglia dei miei trentatré anni, mi sento un ballerino e un artista migliore.

Sento di avere un’esperienza e un bagaglio molto più ampi: vivo diversamente la scena, i momenti di tensione, le difficoltà di quando si danza. A vent’anni si danza con la voglia di ballare e con la disinvoltura che è tipica della giovane età. Crescendo, le paure un po’ aumentano ma vengono gestite meglio con la consapevolezza e la maturità. Le occasioni arrivano al momento giusto, non bisogna forzare troppo le cose.

Esprimersi, interpretare, lavorare con il corpo: in che modo si determina questo processo?

La possibilità di esprimersi che ha un danzatore è diversa da quella di ogni altro artista in differenti contesti artistico-espressivi. Noi ballerini dobbiamo essere capaci di comunicare con il pubblico attraverso la mimica facciale, le espressioni del volto, il linguaggio della musica e del corpo. Quando affrontiamo un balletto narrativo, dobbiamo raccontare una storia e non possiamo fermarci alla semplice variazione. Per esempio, quando ho interpretato Lescaut ne L’histoire de Manon, è stato necessario lavorare anche sulle caratteristiche del personaggio. A me capita spesso di interpretare ruoli decisi o da cattivo.

Bisogna essere duttili, cogliere tutte le sfumature e non cadere nella trappola di interpretare i diversi personaggi allo stesso modo. In questo risiede la nostra difficoltà più grande, ma devo dire che ci sono dei bravissimi Maître de ballet in grado di migliorare le nostre interpretazioni proponendo chiavi di lettura molto utili.

Questo periodo di emergenza ci ha costretto a guardarci dentro, nell’attesa di tornare ad avere un contatto fisico senza distanziamento. Qual è la tua riflessione?

Questo lungo periodo di emergenza sanitaria ci ha fatto riflettere su tante cose. Prima del blocco, vivevamo la nostra vita senza fermarci un attimo. Io ad esempio, pur avendo comprato il mio appartamento circa due anni fa, non sono mai riuscito a viverlo a fondo, uscendo di casa la mattina presto e ritornando all’ora di cena. Mai avrei pensato di utilizzarlo come una sala prove. Nei giorni della quarantena ho continuato ad allenarmi, iniziando alla sbarra il mio training quotidiano di almeno due ore.

Ho comprato anche un tappeto di linoleum, ma tutto questo non potrà mai sostituire quella che è la nostra routine, la specificità del nostro lavoro. Noi danzatori siamo abituati a lavorare a stretto contatto, dalle dieci del mattino fino alle sei di sera in sala prove, mantenendo in esercizio la resistenza fisica e il fiato. Al di là del mio allenamento, ho occupato il mio tempo dedicandomi a tutte quelle cose che a lungo avevo trascurato, a causa dei miei impegni.

Come hai vissuto e attraversato l’esperienza di isolamento e di lockdown?

All’inizio credo che ci sia stata, da parte dei mezzi di comunicazione, la tendenza a minimizzare la situazione. Abbiamo continuato a vivere le nostre vite pensando di non correre rischi, fino al momento in cui tutti siamo rimasti chiusi dentro le nostre case. Purtroppo, ho dovuto prendere le distanze anche dai miei cari, dalla mia famiglia. Una scelta condivisa ma molto sofferta. Con loro ho sempre avuto un rapporto simbiotico e questa è stata la mia prima grande difficoltà. Ognuno di noi ha imparato a vivere la quotidianità in modo diverso, con delle forti restrizioni sociali. Il rapporto con gli altri ha subìto delle trasformazioni radicali.

Essendo una persona molto espansiva ho sempre bisogno del contatto fisico con gli amici, con i miei cari. Adesso, pur avendo la possibilità di incontrarci con le persone le limitazioni ci impongono ancora un distanziamento. Quando potremo tornare ad abbracciarci e stringerci la mano, probabilmente ognuno di noi proverà un po’ di paura. Questo periodo ha segnato tutti. Nonostante questa catastrofe, cerco di vedere sempre gli aspetti positivi nelle cose. In questa emergenza sanitaria ho fatto un lavoro interiore di ascolto e devo dire che ad oggi ho trovato la mia pace. Sono riuscito a dialogare e a convivere serenamente con me stesso.

Brescia e Amisano ©️ Teatro alla Scala
Brescia e Amisano ©️ Teatro alla Scala

Quello della Danza e del Teatro è un settore al quale, purtroppo, non viene riservata la giusta considerazione. Quali sono secondo te i principali problemi, le urgenze su cui occorre lavorare per trovare delle possibili soluzioni ?

Parto dal presupposto che il grande pubblico sicuramente conoscerà i calciatori molto meglio dei ballerini. In termini di visibilità, noi artisti abbiamo bisogno di emergere. E, in generale, ci meritiamo di più. Oggi esistono dei potenti mezzi di comunicazione, ovvero Internet e i social network che ci offrono la possibilità di farci conoscere più facilmente. Sono felice del fatto che in questo periodo di lockdown siano stati trasmessi in televisione diversi spettacoli.

Ho trovato che fosse un modo interessante per avvicinare al teatro un maggior numero di persone e per allargarne gli orizzonti culturali. La Danza, in Italia, dovrebbe essere sovvenzionata maggiormente. Mi auguro che vengano trovate delle soluzioni per dare sicurezza ai molti che vivono una condizione lavorativa precaria. Da un lato, il pubblico dovrà essere educato nuovamente ad andare a teatro, dall’altro occorrerà una certezza finanziaria, sia per le grandi sia per le piccole realtà teatrali, che assicurare stabilità al settore.

Le scuole di danza, fondamentali per realizzare gli obiettivi di tanti giovani danzatori, stanno attraversando un momento di estrema difficoltà. Come si potrebbe migliorare l’attuale situazione?

Sono molto legato all’argomento delle scuole. È da lì che vengono i ballerini di oggi, di ieri e di domani. Sono entrato nell’Accademia del Teatro alla Scala all’età di 15 anni. Ero già grande e abbastanza formato, ma ho dovuto lavorare tanto durante mio percorso professionale. In poco tempo, ho capito e deciso che avrei fatto questo nella vita. Il mio sogno è sempre stato quello di diventare un ballerino. Appena iniziava la musica, entrando nella coreografia, mi sembrava di un’altra persona. Ero totalmente a mio agio con me stesso, con il mio corpo, con i movimenti.

Grazie agli studi che ho fatto nella scuola privata dove ho mosso i miei primi passi, grazie alle mie maestre che mi hanno spronato, sono riuscito a entrare nell’Accademia di danza del Teatro alla Scala. Servono impegno e sudore per diventare un bravo ballerino professionista. I sacrifici più grandi li hanno fatti i miei genitori e i miei zii che hanno pagato i miei studi. Verso di loro sarò sempre riconoscente. Il mio era un sogno che ha richiesto un grande lavoro su me stesso.Tanta fatica, tanti pianti, tanti ripensamenti ma, alla fine, se si nutre amore per quel che si fa, tutto il resto si annulla.

Mi auguro che lo Stato possa sostenere economicamente tutte quelle scuole che rischiano di chiudere o che già sanno di non poter riaprire. Sarebbe una grande perdita che porterebbe via molta forza lavoro. I bambini e le bambine, le ragazze e i ragazzi, che si affacciano a questo mondo hanno un sogno e dei diritti che devono essere salvaguardati. È come se vedessi me in ognuno di loro, per questo sento di dovermi fare portavoce della loro preoccupazione. Spero che il Governo abbia a cuore il futuro e le speranze di una nuova generazione di artisti, aiutando questo settore a ripartire.

Da uomo del XXI secolo come declini in chiave attuale le regole e il linguaggio della danza classica?

Credo di essere un ballerino abbastanza contemporaneo. Ho avuto certamente bisogno della rigidità della danza classica, senza la quale non sarei potuto diventare il ballerino che sono oggi. Nella scuola privata in cui ho studiato da bambino ero il migliore. Arrivato in Accademia, alla Scala, ho trovato una realtà totalmente diversa: lì ero uno tra tanti. Ho dovuto fare un grande lavoro su me stesso, sui miei “difetti fisici” e trovare la mia dimensione.

Ho smussato il mio corpo spigoloso grazie all’allenamento e alla mia forza di volontà, ma soprattutto grazie alla disciplina ferrea, al codice universale di un’arte senza tempo come la danza classica. Mi sento a mio agio nei costumi di un ballerino classico così come nelle coreografie del contemporaneo. Amo questi due mondi nello stesso identico modo, per me sono entrambi sullo stesso livello.

La Scala di Milano riparte a Settembre. Approvata la stagione autunnale

La Scala di Milano riparte a Settembre. Approvata la stagione autunnale

Il Teatro alla Scala punta a ripartire a inizio settembre con una commemorazione delle vittime del Coronavirus, sulle note della Messa da Requiem di Giuseppe Verdi diretta da Riccardo Chailly all’interno del Duomo di Milano, mentre sono allo studio due repliche a Bergamo e Brescia..

Una grande esibizione sull’esempio dell’11 maggio 1946, quando il teatro riaprì le porte (alla fine della guerra) con un concerto diretto da Arturo Toscanini. La scelta del paragone post-bellico non è casuale. Oggi, come allora, la musica risuonerà come un simbolo di rinascita, lasciando “un segno importante ed esemplare, visibile e avvertibile a Milano, nella regione, in Italia e in tutto il mondo”. Così ha immaginato la riapertura il sovrintendente Dominique Meyer nella lunga lettera inviata negli scorsi giorni ai dipendenti.

La stagione concertistica sarà connotata dalla presenza di alcuni tra i maggiori artisti del panorama internazionale. Innanzitutto, è prevista l’esecuzione della ‘Nona sinfonia’ di Ludwig van Beethoven, sempre diretta da Chailly, in una serata speciale dedicata al personale medico nell’anno beethoveniano. Programmati per settembre anche “il concerto della Staatskapelle Dresden diretto da Christian Thielemann e quello del pianista Maurizio Pollini, mentre a novembre è previsto il recital di Anna Netrebko e a dicembre quello di Daniel Barenboim. Anche Anne-Sophie Mutter ha dato la sua disponibilità a partecipare a un concerto diretto da Riccardo Chailly“, si legge nella nota ufficiale.

La programmazione operistica, invece, riprenderà con la messa in scena di tre storiche opere di repertorio della tradizione italiana: ‘La traviata’, diretta da Zubin Mehta, nella versione di Liliana Cavani a settembre; ‘Aida’, diretta da Chailly, nello spettacolo di Franco Zeffirelli con le scene di Lila de Nobili a ottobre; e ‘La bohème’, con direttore da definire e spettacolo di Zeffirelli.

L’attività del corpo di ballo inizierà con un Gala, seguito dal ritorno di due spettacoli di grande storia e prestigio: a settembre ‘La dame aux camelias’, coreografia di John Neumeier e a ottobre ‘Il lago dei cigni’, coreografia di Rudolf Nureev.

Il tutto avvalendosi di artisti già sotto contratto per contenere i costi. Nelle proiezioni fino a settembre, infatti, il danno economico alle casse del teatro provocato dalla chiusura dallo scorso 25 febbraio arriverebbe a sfiorare i 20 milioni tra mancata vendita dei biglietti e altre spese. “Nell’immediato futuro il nostro sforzo comune sarà dedicato in via prioritaria a mantenere il pubblico scaligero e a raggiungere nuovi spettatori”, ha dichiarato il sovrintendente nella lettera ai dipendenti.

Il piano per la ripartenza è stato approvato all’unanimità dal consiglio d’amministrazione riunitosi lunedì 27 aprile in videoconferenza. In questa occasione, è stato dato il via libera anche all’accordo con i sindacati che rinvia di due anni la trattativa sul rinnovo del contratto integrativo di tutti i dipendenti del teatro, in cambio dell’impegno dei vertici della Scala a integrare fino all’80% gli stipendi che il Fis (Fondo di integrazione salariale per i lavoratori dello spettacolo) coprirebbe solo fino al 40 per cento. Il bilancio 2019 sarà approvato alla prossima riunione di maggio.

La Scala e i suoi protagonisti: su RaiPlay il documentario in sei puntate

La Scala e i suoi protagonisti: su RaiPlay il documentario in sei puntate

Nella sezione on demand di RaiPlay da oggi è disponibile il prezioso documentario delle Teche Rai sulla storia del Teatro alla Scala, tempio della lirica mondiale e tra i simboli più prestigiosi di Milano, raccontato dalla regista Dora Ossenska, dando voce ad alcuni dei più importanti nomi della scena musicale e operistica del ‘900: Maria Callas, Claudio Abbado, Herbert von Karajan, Luchino Visconti. La serie andò in onda in sei puntate nel marzo 1977.  

VAI AL SITO > https://www.raiplay.it/programmi/lascalaeisuoiprotagonisti

THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

THEATROPEDIA #13 – Il grande attore

Sono emozionato, ho trovato il biglietto per la prima del teatro “alla Scala” e con esso tra le mani attraverso, a passi felpati, il corridoio dei palchetti, pensando già alla meraviglia che da qui a poco si magnificherà davanti ai miei occhi. Con accuratezza tento di aprire la porta, devo fare forza, fino a che una volta riuscitoci l’imbarazzo più totale mi fa desistere dall’entrare. Chiedo scusa a chi, all’interno, dopo aver chiuso le tendine del palco, si sta scambiando effusioni; chiudo la porta. È lunedì 26 dicembre 1831, Santo Stefano; a alla Scala di Milano c’è la prima della Norma di Vincenzo Bellini e a teatro è possibile fare anche questo: l’amore, come in un moderno privé. Guardo bene il biglietto, è colpa mia, ho sbagliato palco, entro in quello affianco, quello giusto, ci sono due signorotti per bene che gentilmente mi salutano, ricambio, noto che hanno con loro del cibo, stanno mangiando, per ora, dopo chissà; nel dubbio mi siedo.

Nel XIX secolo il teatro di prosa perde la sua rilevanza, gli attori, quelli importanti, sono i tenori, considerati interpreti completi che danno forma al genere teatrale più in voga: l’opera lirica. Sono questi gli anni del grande attore. Qui, oggi, nel 1831, quando lo spettatore si reca ad uno spettacolo l’unica cosa di cui si interessa, anticipatamente, è sapere da chi l’opera sarà interpretata, quali sono gli interpreti protagonisti. Nasce il gossip, quello sui vip. Questo grazie anche ai giornali che si occupano sempre di più, seriamente (e non), di critica teatrale, seguendo spesso le vite dei protagonisti della scena e generando così il mito del grande attore che cambierà la concezione del teatro avuta finora: il teatro degli attori, la compagnia, diventa dell’attore, il divo.

Nel frattempo il sipario si alza, inizia l’opera, il coro canta: “Ita sul colle, o Druidi, Ite a spar ne’ cieli…”; ed io mi perdo nella magnificenza della scena che soddisfa del tutto la mia curiosità. Appena il coro finisce di cantare sento sbatter le porte degli altri palchi e poi anche quella che chiude il mio posto… è incredibile, gli spettatori si fanno visita tra loro come se fossero ognuno a casa propria ad ospitare l’amico. C’è chi è addirittura appoggiato al parapetto del palco con le spalle rivolte al palcoscenico, disinteressato completamente allo spettacolo. Ogni tanto qualcuno butta un occhio, qualcun altro esclama, “io vedo solo gli intermezzi ballati”, qualcuno poi, “ancora deve uscire Donzelli”, il tenore. Mi vien da pensare: possibile che solo io trovo insensato questo comportamento? Mi guardo meglio intorno e la risposta è: no! C’è pure chi con un monocolo all’occhio guarda interessato ma infastidito l’opera proprio come a chi, invece, sembra dar fastidio la musica che di sottofondo (dell’opera) disturba le sue ciarle. Il teatro è un momento centrale della vita degli uomini dell’Ottocento, un momento di svago, un occasione di incontro. Non c’è la televisione, il cinema, il campionato di calcio, Sanremo e le canzonette, il concerto, non c’è nient’altro che il teatro come fonte di divertimento. Ed è una macchina economica non di poco conto; proprio per questo lo Stato italiano nel 1868 introdurrà una tassa del 10% sugli introiti lordi delle rappresentazioni teatrali per far fronte ai debiti finanziari del Bel Paese.

Finita la prima della Norma, tra applausi scroscianti e gente in visibilio, tutti si portano all’uscita degli artisti, vogliono vedere, alcuni toccare, conversare con il tenore Domenico Donzelli e la soprano Giuditta Pasta, sanno tutto di loro; un signore mi ha mostrato su di un foglio le loro carriere, anno per anno, le opere a cui hanno preso parte, proprio come si farebbe oggi con i calciatori e le squadre in cui questi hanno militato. Io, mi allontano dalla calca, dalla confusione e gironzolo nella capitale del Regno Lombardo-Veneto pensando a quel che sarà il teatro negli anni venturi, non so cosa mi piaccia di più. Ora, immaginatevi questa situazione sociale del teatro e pensate a come un attore di prosa si possa inserire nel divismo perpetrato dall’opera lirica, a come possono reggere il confronto quelle piccole compagnie di guitti con le grandi compagnie iper-finanziate dell’opera. Per scoprirlo ci dobbiamo spingere giusto di qualche anno più in là del 1831 e andare a Firenze.

Tredici maggio 1865, in occasione di alcune celebrazioni per il sesto centenario della nascita di Dante Alighieri, al Teatro Cocomero (oggi Niccolini) di Firenze va in scena Francesca da Rimini di Silvio Pellico. Fin qui niente di importante per gli uomini di quel tempo, lo abbiamo detto, gl’interessa soltanto sapere chi è il grande attore che si esibirà. Lo spettacolo è significativo perché vede in scena, insieme, i tre attori considerati “i più grandi del tempo”: Adelaide Ristori; Ernesto Rossi; Tommaso Salvini. A guardarli in scena la prima cosa che si nota è la loro tecnica attorica con la quale riescono a fronteggiare il successo di quelli dell’opera lirica. Il grande attore di prosa è riuscito a forgiare un tipo di comunicazione che accomuna volto, gesto, voce, creando una tensione drammatica che riesce ad attrarre anche lo spettatore più distratto. Difatti l’attore Salvini, interpretando con la sua verità il personaggio cattivo del Lancillotto riesce a far affezionare il pubblico anche al suo personaggio negativo. La sua interpretazione sarà ritenuta da tutti fenomenale. Il grande attore di prosa si è adattato agli ampi palcoscenici dei teatri dell’opera con i suoi movimenti balenanti; con gli intervalli di musica sotto forma di partitura musicale. È il cosiddetto animale da palcoscenico: Salvini intona le sue battute con le tonalità da basso, Ernesto Rossi con quelle del baritono, Adelaide Ristori recita in inglese pur non conoscendolo. Nessuno ai loro spettacoli ha nostalgia del melodramma, recitano le parole in modo armonioso, il loro copione è un vero e proprio spartito musicale.

Il teatro di prosa alla fine dell’Ottocento è ad appannaggio del divo. Il grande attore non si preoccupa più del valore artistico del testo che è visto come una intelaiatura in cui agisce il personaggio da interpretare a proprio gusto, spesso lo stesso personaggio, infatti, infonde nel pubblico un’impressione contraria a quella prevista dal drammaturgo. Per meglio far comprendere la situazione ho tra le mani alcune lettere intercorse tra Adelaide Ristori e il drammaturgo Paolo Giacometti, in una in particolare si legge della preoccupazione dell’attrice sui costumi di Maria Antonietta, personaggio che la stessa dovrà interpretare in un’opera drammatica che l’autore, a cui l’attrice si rivolge, ancora non ha scritto; difatti la Rinaldi ci tiene a precisare al povero drammaturgo: “il costume viene prima del testo”.

Sto per lasciare Firenze e il 1865 con una certezza, questi appariscenti divi del teatro hanno donato l’intera vita alla loro arte attorica che non consiste nel ritrovare, “semplicemente”, ogni volta se stesso nel personaggio, ma piuttosto nello sforzo di annullare sé nel momento stesso in cui si crea il personaggio. D’altronde negli anni a venire la Rinaldi rinfaccerà alla sua erede, Eleonora Duse, il fatto che la giovane interpreti un repertorio limitato di personaggi tutti uguali, e sostanzialmente tutti eguali a se stessa, invece di cimentarsi nello sforzo dilacerante di annullarsi per dar vita all’altro. Un attore può avere tutte le doti possibili, ma se gli manca quella “della trasformazione della sua soggettività”, proprio come un autore fa quando compone, resta solo un semplice attore, afferma Ernesto Rossi che dà a questa attitudine, del grande attore, una malcelata qualità divina, innata, che non si può “acquistare mediante lo studio”.

Gli attori dell’Ottocento, dunque, vissero anche di vana gloria, ma gli va ascritta col senno di poi che la loro fama fu davvero costruita con fatica e meticolosa dedizione, oggi che i divi son ben altri, beh non vedo poi così strano il secolo del romanticismo e, come un grande attore, solo me ne vo per la città a intonare anche io la mia voce e non chiedetemi chi sono perché son pronto a diventare un altro.

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Theatropedia è un blog di Aniello Nigro concepito come enciclopedia essenziale, raccontata, del Teatro. Fonte di informazioni per un primo approccio alla materia e spunto prolifico di approfondimenti tecnici. Segue un suo percorso tematico (non sempre cronologico) dall’origine del Teatro ai giorni nostri, ogni voce è formata da una parte romanzata ed una parte tecnica dell’argomento in questione. Ad affiancare le voci principali ci saranno poi quelle correlate dei protagonisti che siano essi drammaturghi, registi, attori o altro.