Fino al 4 novembre, al Teatro Argentina, Giancarlo Sepe, maestro dell’avanguardia italiana anni Settanta, protagonista della stagione delle “cantine” romane, porta in scena Barry Lyndon – Il creatore di sogni, trasposizione del romanzo di William Makepeace Thackeray, dal quale Stanley Kubrick ha tratto uno dei suoi capolavori.
Una lezione “sull’arte della vita”, prendendo a pretesto il protagonista dell’opera che, da povero a ricco aristocratico, subisce la scalata sociale alle soglie della Rivoluzione Francese. Dal romanzo alla trasposizione teatrale, Giancarlo Sepe agguanta le emozioni dal film del 1975 di Kubrick e le situazioni dall’opera picaresca di Thackeray, dirigendo dodici attori nella favola nera di Redmond Barry. Lo spettacolo si districa fra duelli, incontri furtivi, fughe e giochi di potere, per parlarci di giustizia e di ingiustizia, di sacro e di profano.
Raggiunto da Theatron 2.0, il regista Giancarlo Sepe si offre per una breve ma densa intervista.
A partire dal dato letterario, quali sono stati gli aspetti più rilevanti del romanzo che ha voluto trasporre teatralmente?
Il romanzo non lo conoscevo, solo quando ho visto il film di Kubrick nel 1975 ho saputo dell’esistenza de Le memorie di Barry Lyndon. Di Thackeray conoscevo La fiera della vanità ma non conoscevo altro. Appena cinque anni fa, dopo aver visto nuovamente il film, ho letto il romanzo con grande curiosità. Ho notato che all’interno del libro vi era una caratteristica molto importante che Kubrick non aveva osservato: il cineasta gira il film narrando in terza persona, invece il romanzo è in prima persona.
Questa diversa prospettiva cambia totalmente la visuale del racconto perché Kubrick narra in terza persona di una storia conclusa con le aggettivazioni che merita quella storia. Mentre nel romanzo, essendo il dicitore il protagonista stesso, è chiaro che, ascoltando in prima persona Barry Lyndon, sembrerebbe che lui non sia così colpevole perché ha dei momenti di grande empatia.
In ogni caso, resta in vigore il concetto che Barry Lyndon sia un personaggio mediocre e negativo, una persona che non ha un progetto di vita, imbucandosi nelle prime situazioni favorevoli che incontra senza sapere. Avere questa confessione in prima persona è stato l’elemento che mi ha indotto a pensare di metterlo in scena in teatro.
Per la messinscena, Barry Lyndon di Kubrick è un capolavoro, mentre il romanzo di Thackeray è un buon romanzo, ma non un capolavoro. Allora certe soluzione intuitive di Kubrick le ho adottate per denunciare la matrice – se non avessi visto il film, non avrei mai fatto Barry Lyndon, perché non sarei stato così incuriosito dal romanzo. Vedendo, invece, che certe cose nel romanzo erano più appetitose ho fatto molto passaggi dalla parte letteraria.
Quali sono gli elementi di continuità e quali di divergenza rispetto alla versione cinematografica di Kubrick?
Innanzitutto una cosa fondamentale che dà l’impronta a tutta la seconda parte del film di Kubrick: la conoscenza della Contessa di Lyndon. Nel film è una donna eterea, quasi trasparente, come sognante e invece non era né una donna eterea né una donna divina. Perché dice addirittura Thackeray: “Se voi vi aspettate che la Contessa di Lyndon abbia qualcosa di divino, non è così.È una donna di poche parole e di poco cuore che si fregia di una cultura che non ha. Non ama il primo figlio avuto dal marito Reginald, quindi è una donna fasulla e negativa a sua volta”.
Questo è un elemento di diversità fondamentale: una delle cose che sorprende di più il pubblico è sapere che non è l’eterea Marisa Berenson che nel film faceva la lady, non è quella angelicata che ha fremiti e tremiti, no è tutt’altro. Questa è una diversità fondamentale.
Dal punto di vista registico, qual è stato il lavoro affrontato con gli attori per la produzione dello spettacolo?
Come al solito, lavorando molto sulla musica, tutto passa attraverso una visione che è indotta dalla musica che ha una sua impulsività nel gesto attoriale ma dovuta all’ascolto della musica e alle varie funzioni che la stessa assolve. Come del resto, nei film di Kubrick. Anzi quest’ultimo è stato uno dei pochi, se non il solo, che abbia corredato tutti i suoi film con una colonna sonora straordinaria che era propedeutica all’immagine e alla drammaturgia parlata.
Direi che questa è una mia caratteristica, nel senso di trattare tutto attraverso la musica e di contestualizzare la musica nell’accezione drammaturgica, non decorativa, né interlocutoria ma necessaria come se fossero tutte parole, situazioni che si creano. È un lavoro che porta via mesi e mesi, non un lavoro semplice.
Rispetto ai contenuti dello spettacolo, quali sono gli elementi di richiamo alla nostra contemporaneità?
Penso che le cose, nel momento in cui vengono fatte, risentano di una contemporaneità. In questo caso, parlando di una persona che millanta un’ascendenza e un censo che non ha, che bara al gioco, che prende lezioni di scherma perché a quei tempi le dispute si risolvevano tramite il duello, non dal fatto che si avesse ragione. Per tutte queste ragioni è inevitabile che questo spettacolo abbia a che fare con l’oggi.
C’è semmai una profonda misoginia in Barry Lyndon, e forse anche in Thackeray, scrittore satirico, che non amava molto il modo di essere femminile, molto differente dal modo in cui l’ha rappresentato Kubrick nel suo film. In realtà sono donne che pensano a tradire, agli amori rubati, a collezionare una serie d’incontri che le ripaghino dall’avere un marito anziano. Insomma, mi sembra che ce ne sia per tutti i gusti.
Parlando della nostra contemporaneità: dopo le dimissioni di Calbi, cosa si augura per il Teatro di Roma?
Innanzitutto Calbi è stato colui che ha voluto co-produrre il nostro Barry Lyndon, per questo ci tengo a ringraziarlo. Penso che il teatro debba avere la sua fisionomia a favore di una riconoscibilità del teatro stesso. Per esempio, nel caso del Teatro La Comunità, lo spettatore già sa dove va e conosce le modalità di un certo teatro. Gestire un teatro e avere poco spazio di tempo per far conoscere il prodotto perché ci sono molti spettacolo è un problema; l’altro problema è di non avere una riconoscibilità artistica particolare.
Quando c’erano gli Stabili sapevo che dal Teatro Stabile di Genova dove c’erano Squarzina, Lionello ed Eros Pagni uscivano certi spettacoli, così come sapevo che al Piccolo c’era Strehler e così a Torino vi era Aldo Trionfo. Ognuno aveva una fisionomia riconoscibili. Bisogna, secondo me, che anche il Teatro di Roma abbia la propria fisionomia, al di là delle ospitalità alle compagnie straniere o a quelle di ricerca. È giusto che ci sia una molteplicità, ma non è giusto non dare una fisionomia singolare a questo teatro.
BARRY LYNDON Il creatore di sogni
liberamente tratto dal romanzo di William Makepeace Thackeray riduzione teatrale e regia Giancarlo Sepe
con Massimiliano Auci, Sonia Bertin, Mauro Brentel Bernardi, Gisella Cesari, Silvia Como, Tatiana Dessi, Vladimir Randazzo, Federica Stefanelli, Giovanni Tacchella, Guido Targetti, Gianmarco Vettori e con Pino Tufillaro
scenografie e costumi Carlo De Marino musiche a cura di Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team luci Guido Pizzuti foto Salvatore Pastore
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale,Teatro La Comunità
Il dramma shakespeariano trasportato in una Sardegna arcaica e senza tempo. Un Macbeth che si esprime in sardo e, come nella più pura tradizione elisabettiana, interpretato da soli uomini, è l’originale e pluripremiato spettacolo di Alessandro Serra, MACBETTU, in scena dal 4 al 6 maggio al Teatro Argentina.
«Macbettu restituisce la natura profonda del testo shakespeariano», commenta il regista Alessandro Serra, sua la ideazione, scene, costumi e luci dell’immaginifica e originale rilettura del capolavoro del Bardo. Premio Ubu 2017 come miglior spettacolo dell’anno e premio Anct 2017 (Associazione nazionale critici di teatro), la pièce tradotta e adattata dall’inglese al sardo logudorese da Giovanni Carroni, sposta la cruenta tragedia dalla Scozia in Barbagia. Terra evocata, mai nominata, quasi luogo metaforico di un passato ancestrale con i suoi segni e simboli e la potenza di un linguaggio dove la parola diventa canto e conquista e emoziona lo spettatore con tutta la sua forza espressiva.
«Nel riscrivere il testo – racconta Serra – tutti i personaggi femminili sono stati omessi e la storia non sembrava subire alcuna ferita. Tutte le donne riassunte in un’unica dea madre reggitrice di morte: Lady Macbeth. Più alta e più forte degli uomini, come in una delle sue più antiche rappresentazioni, quella di Ozieri: filiforme, astratta, trascendente. L’idea nasce nel corso di un reportage fotografico tra i carnevali della Barbagia tra i suoni cupi prodotti da campanacci e antichi strumenti, le pelli di animali, le corna, il sughero. La potenza dei gesti e della voce, la confidenza con Dioniso e al contempo l’incredibile precisione formale nelle danze e nei canti, le fosche maschere e poi il sangue, il vino rosso, le forze della natura domate dall’uomo, soprattutto il buio inverno». Le sorprendenti analogie tra il capolavoro shakespeariano e le maschere della Sardegna diventano il fulcro di questo spettacolo.
La lingua sarda non limita la fruizione, bensì trasforma in canto ciò che in italiano rischierebbe di scadere in letteratura. «Abbiamo lavorato sulle analogie, sulla natura arcaica dei carnevali barbaricini, sui segni iconici, sugli archetipi, sui codici culturali, andando oltre la maschera e il folklore, quasi con un’operazione di ‘espianto di aura». Uno spazio scenico vuoto, attraversato dai corpi degli attori che disegnano luoghi ed evocano presenze. Pietre, terra, ferro, sangue, positure di guerriero, residui di antiche civiltà nuragiche. Materia che non veicola significati, ma forze primordiali che agiscono su chi le riceve.
Il risultato è uno spettacolo di meraviglia cupa, in grado di utilizzare elementi della tradizione, senza fermarsi a una contemplazione statica, ma utilizzando i segni in modo contemporaneo, quindi ambiguo, tragico, affascinante. La scena è curata in una stilizzazione puntuale: ogni oggetto – i costumi, le pietre, il sughero, i campanacci – è elemento coerente e contribuisce alla costruzione di uno spazio visionario e evocativo, in cui gli attori si muovono, seguendo precise traiettorie coreografiche. Macbettu inquieta con l’atroce bellezza di un racconto senza parole, in grado – come da tradizione barbaricina – di dire senza rivelare.
Parliamo del Macbettu con Leonardo Capuano, protagonista di questo kolossal teatrale, espressione e sintesi maestosa delle intuizioni geniali del Macbeth di Shakespeare e l’ispirazione del regista di fronte al Carnevale barbaricino.
Macbettu ph. Alessandro Serra
com’è nata la collaborazione con Alessandro Serra?
Leonardo Capuano ph. Alessandro Serra
In maniera del tutto normale, io e Alessandro ci conoscevamo di vista. Abbiamo fatto dei percorsi di lavoro a Castiglioncello dove magari ci siamo incrociati, salutandoci senza sapere chi fosse l’altro. Poi credo che Alessandro abbia saputo che io ero nato a Cagliari e aveva il progetto del Macbettu che non era ancora partito. Nel 2016 mi ha telefonato e mi ha parlato di questo progetto e io gli ho detto che l’idea mi sembrava molto bella da sviluppare. Poi mi ha richiamato e mi ha detto che ci sarebbe stata la produzione del Teatro di Sardegna, io ho accettato dopo aver visto cosa faceva attraverso dei video per capire in che modo lavorava così che potessi rendermi conto di chi fosse- perché non avevo mai visto niente. Ho visto qual è la sua forma di teatro e l’ho trovato molto bella, così ho preso un aereo e sono andato a Cagliari per lavorare quattro giorni. Ci siamo riconosciuti in qualche modo come persone che cercavano di lavorare sodo e seriamente cercando di fare al massimo delle nostre possibilità. Vedendo le cose allo stesso modo, è stato bello incontrarsi perché è difficile che questo possa succedere.
Che tipo di lavoro hai affrontato durante le prove?
Non è stato per niente difficile né tantomeno sgradevole, nel senso che ci siamo incontrati a lavorare e io ho riconosciuto immediatamente quelle che erano e anche quelle che sono le metodiche di Alessandro e riconosciuto in che modo lui approcciava al lavoro. Un modo che reputavo molto vicino al mio, c’è stato quindi un lavoro di creazione totale insieme a tutto il gruppo di attori – altri sette a parte me – e abbiamo lavorato giornate intere, 10 ore al giorno stimandoci a vicenda. Quando due persone hanno delle affinità, si incontrano e si rendono conto che parlano la stessa lingua e hanno una serie di desideri comuni tutto procede nel migliore dei modi. Abbiamo collaborato su alcune parti del testo, è stato un lavoro di creazione totale e di grande collaborazione. Naturalmente, via via che si manifestava la sua competenza è chiaro che c’è stata piena fiducia nei confronti del regista e piena fiducia da parte sua nei miei confronti rispetto a quelle che erano le mie competenze. Abbiamo capito durante le prove in che modo si poteva lavorare in scena, cercando di risolvere e di creare del materiale che potesse essere possibile all’interno di quello spettacolo.
A tuo avviso da dove nasce il grande successo del Macbettu?
Se dovessi indicare le motivazioni di questo grande successo, lo sminuirei. Io conosco tutta la fase di lavorazione essendo stato coinvolto in prima persona e ne ho anche delle responsabilità come tutti gli altri. Sarebbe limitante pensare che lo spettacolo è in lingua sarda e allora questa peculiarità garantisce un’unicità. Questo è vero, ma non è la sola motivazione. Posso considerare tutte quelli che sono i livelli che compongono lo spettacolo e so quali sono e quali potrebbero essere i motivi per cui ha riscosso grande successo però rischierei di smontare lo spettacolo e renderlo in qualche modo ridicolo. Invece quello che posso dire è che credo che ci siano spettacoli fortunati, non tutti sono così e questo è una sorta di mistero, così anche per i miei spettacoli alcuni dei quali sono stati fortunati; perché il pubblico ha decretato che fossero così fortunati? Non certo io posso dirlo. Quello che posso dire di questo spettacolo è che è il frutto di un incontro con artisti che si sono messi insieme parlando poco, lavorando molto e cercando di fare la cosa più bella che potevano riuscire a fare tutti insieme. Questo è molto difficile che avvenga ed è questo il modo con cui vorremmo continuare a lavorare con Alessandro. Nessuno di noi poteva pensare che sarebbe successo quello che è successo – alla fine non è che sia successo niente di trascendentale, abbiamo avuto la fortuna che lo spettacolo sia piaciuto a molti e che venga richiesto e noi siamo felici di questo. Prima di questo riscontro, non avevamo molto credito ma credo che questo sia il frutto di duro lavoro e di grande intelligenza e una certa dose di talento – la fortuna poi ha fatto il resto.
Leonardo Capuano condurrà un seminario a Roma a maggio: SCOPRI DI PIÙ
MACBETTU
di Alessandro Serra regia, scene, luci, costumi Alessandro Serra tratto da Macbethdi William Shakespeare con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini musiche pietre sonore Pinuccio Sciola – composizioni pietre sonore Marcellino Garau Produzione Teatropersona, Sardegna Teatro con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna
PREMIO UBU 2017 | Spettacolo dell’anno PREMIO ANCT 2017 | Associazione Nazonale dei Critici di Teatro
ROMing è un progetto di collaborazione volto a incentivare uno scambio culturale tra organizzazioni internazionali, specialmente nel campo delle arti performative. Il dipartimento di Arti Performative della Middlesex University di Londra ha prodotto lo spettacolo “Gilgamesh” destinato a debuttare il 3 giugno all’interno del Festival “Dominio Pubblico – La città agli under 25”, che si terrà a Roma nel periodo dal 29 maggio al 3 giugno 2018, nelle strutture del Teatro Nazionale di Roma, Teatro India.
GILGAMESH è un progetto ideato da Simone Giustinelli e realizzato con gli studenti del corso Triennale (BA) e Magistrale (MA) del dipartimento di Arti Teatrali della Middlesex University of London. Tutti gli attori e la maggior parte delle maestranze, provenienti da India, Brasile, UK, Portogallo, Lituania, Zimbabwe, Polonia, Giappone e Italia, hanno meno di 23 anni. Il 4 Giugno, presso il foyer del Teatro Valle, ci sarà una tavola rotonda con i membri della Middlesex University, del Dipartimento di Arti Performative, dell’Associazione Dominio Pubblico e con gli organizzatori del progetto ROMing, sui temi del teatro giovanile, progetti di collaborazione internazionali, programmi per i prossimi anni.
La storia di Gilgamesh
Gilgamesh è la prima opera letteraria della storia dell’uomo e resta, ad oggi, tra le più incredibili mai realizzate. Scritto nell’antica Mesopotamia nel secondo millennio a.C., anticipa la stesura dell’Iliade di circa 1000 anni. Dato per scomparso per quasi 2 millenni, le undici tavolette di argilla sulle quali il poema era stato inciso furono ritrovate nel 1850 tra le rovine dell’antica Ninive, e il testo non venne completamente decifrato e tradotto se non entro la fine del secolo. Il poema epico è la storia del primo eroe della letteratura, il re della città di Uruk (l’attuale Iraq), e del suo viaggio alla scoperta di sé stesso. Gilgamesh dà voce al dolore e alla paura nei confronti della morte, ritrae l’amore e la vulnerabilità, e il combattimento disperato dell’essere umano nel riconoscimento della propria finitezza.
Intervistiamo il regista Simone Giustinelli, responsabile del progetto, per indagare il processo di creazione e di costruzione dello spettacolo “Extra” della rassegna teatrale di Dominio Pubblico 2018.
Ideazione e sviluppo del progetto teatrale di Gilgamesh
Il progetto GILGAMESH nasce all’interno della Middlesex University di Londra. Sto frequentando, grazie a un bando della regione Lazio realizzato con finanziamenti europei, un Master di un anno in Arti Teatrali in questa università. Prima delle vacanze di Natale sono andato dalla responsabile del nostro Dipartimento, per chiedere se l’università fosse interessata ad accogliere e sviluppare progetti che provenissero dagli studenti. La risposta è stata positiva e così ho immaginato un progetto che coinvolgesse gli studenti del corso triennale (BA nel sistema inglese) e del Master (MA) nella formazione di una compagnia internazionale e nella produzione di uno spettacolo.
Partnership Dominio Pubblico e Middlesex
L’intento del progetto era quello di lavorare in due direzioni che idealmente si incrociassero: la prima, all’interno dell’università, con studenti provenienti da contesti linguistici, culturali e artistici molto diversi tra loro, impegnati nell’ideazione e nello sviluppo autonomo di un progetto di spettacolo; la seconda, che tendesse a collegare il mondo accademico con quello professionale, provando a creare un tratto di continuità tra un percorso di studio e il mondo del lavoro.
Ho pensato che la soluzione migliore, per dare al progetto un respiro internazionale, e basandomi sulle mie esperienze negli anni precedenti, fosse quella di provare a includere l’Associazione Dominio Pubblico all’interno di questo progetto. Il Festival, che essa organizza e che arriva quest’anno alla sua quinta edizione, è stato per me negli ultimi anni un punto di riferimento costante e un osservatorio privilegiato dei movimenti più interessanti a livello giovanile. Pensavo fosse la situazione ideale per proporre un progetto di giovanissimi (l’età media, tra tutti i membri della compagnia, è di 22 anni), essendo il Festival un contesto protetto, accogliente, e al tempo stesso assolutamente professionale.
Tiziano Panici ha accolto con entusiasmo la mia proposta, e così negli ultimi mesi abbiamo sviluppato idee e gettato le basi per immaginare perfino una progettualità che possa durare nei prossimi anni. Il progetto è articolato in due fasi: la prima a Roma, con la performance di Gilgamesh e la tavola rotonda che si terrà al Teatro Valle; la seconda a Londra, a settembre, quando la Middlesex ospiterà una compagnia tra quelle andate in scena durante il Festival, e ci saranno due giorni di spettacoli, laboratori, master class e incontri, sempre all’insegna del grande tema che stiamo provando a sviluppare durante questo progetto: possibili forme di collaborazione internazionale in ambito accademico e professionale.
Gilgamesh: dai versi ai personaggi.
Gilgamesh è il primo testo letterario della storia dell’umanità. Precede di almeno 1000 anni la stesura dell’Iliade e in esso vi sono importanti nuclei tematici/letterari che saranno le basi dei più antichi racconti biblici. È la prima volta che l’essere umano ha riconosciuto il fatto di esistere e lo ha inciso sulla pietra. Anche questa considerazione credo sia degna di nota. Il testo, di epoca babilonese, venne letteralmente inciso, scavato, su tavole di pietra. Non è un caso se ogni parola è una sintesi perfetta e ha una densità materica, una consistenza per la quale ogni parola del testo è necessaria.
La restituzione scenica: scelte registiche e suggestioni artistiche
Mettendo al centro del processo un’idea di collaborazione, ho deciso di condividere la regia con Munotida Chinyanga, una mia collega di Master. La nostra idea sin dall’inizio è stata quella di provare a comprendere le strutture fondanti del poema epico e metterle poi in discussione. Ci siamo chiesti quali fossero le forme dell’epica contemporanea, da cosa siano riempiti, oggi, i vuoti lasciati da quell’assenza di narrazione.
Cast e maestranze multi culturali
Il cast è una Babilonia a tutti gli effetti. Abbiamo all’interno del nostro gruppo persone che vengono da India, Brasile, UK, Portogallo, Lituania, Zimbabwe, Polonia, Giappone e Italia. Abbiamo cercato di valorizzare questa comunità apolide, attraverso le forme del nostro lavoro e i risultati che tentiamo di portare in scena. Londra stessa obbliga a concepire i linguaggi della scena come forme attuali e universali allo stesso tempo. Credo che sia un’idea che abbia a che fare con un’orizzontalità nello spazio, più che nel tempo. Un obbligo ad aprirsi, a rendere l’esperienza collettiva il più inclusiva possibile.
I lavori di studio e di prove di Gilgamesh
Il lavoro è stato infinito e tutt’ora mi pare poco più che un punto di partenza. Mettere insieme così tante persone, così tante culture e vissuti era qualcosa che mai mi era capitato di sperimentare. Abbiamo provato a insistere sulla formulazione di una collaborazione reale, che desse spazio alle singole esperienze ed esigenze, piuttosto che a cristallizzare dei risultati. Il processo è stato complesso, una rivelazione e una messa in discussione continua.
Futuri sviluppi del progetto negli anni venturi
Spero che il progetto possa andare avanti e trovare persone e risorse necessarie a supportarlo. È stato un esperimento a tutti gli effetti, e come tutti gli esperimenti è servito anche a mettere in luce cosa può essere corretto, ricalibrato, aggiustato.
GILGAMESH
freely inspired by the book “Gilgamesh” translated by Stephen Mitchell
direction Munotida Chinyanga, Simone Giustinelli
lights Daniel Brennan, Geraldo Monteiro
scenes Justyna Zukovska
costumes Wiktor Nowicki
sounds Munotida Chinyanga, Magdalena Slabonova
with Jessica Victoria Bourne, Joshua Jaz Impey, Kenichiro Nakajima, Barbara Ramos Teixeira, Adeeb Abdul Razak, Justyna Zukovska
Il valore estatico dell’arte è un siero che da secoli si instilla e si insinua nelle pieghe della società sottoponendola a cambiamenti, decostruzioni e glorificazioni. Si tratta d’un rapimento, un sequestro d’anime che connette e immette artisti e fruitori in un cono di luce da cui si dipanano schegge di rivoluzionaria creatività.
“L’arte ai giovani!” è un grido che, in ogni epoca, si è levato dalle gole di chi ha riconosciuto nel potere relazionale ed estetico della cultura un fuoco inesauribile con le cui scintille tratteggiare i confini del mondo che popoliamo. Questi giovani, che d’arte si nutrono e che l’arte alimentano, non rappresentano la proiezione di un domani vacuo da riempire di speranze ma il sogno di una trasformazione incessante che nell’oggi vive il suo radicamento e la sua consapevolezza.
Il Festival Dominio Pubblico è un progetto che sposa quest’intento: sostenere la creatività under 25 per attenzionare e supportare, nel presente, la produzione e la circuitazione culturale della società del futuro. Dal 14 al 23 giugno scorso, il Festival, giunto alla sua VI edizione, ha investito la città con un’offerta multidisciplinare trovando, ancora una volta, nel Teatro India di Roma il suo fortino. Un luogo in cui mostrare gli esiti del proprio percorso artistico, in cui entrare in dialogo e mettersi in ascolto dell’altro.
Teatro, danza, musica, circo, cinema, arte figurativa, workshop e alta formazione
Ragazzi e ragazze di età compresa tra i 18 e i 25 anni, sotto l’egida di Tiziano Panici – capofila del progetto – hanno costituito l’organico della direzione artistica partecipata, fulcro del Festival Dominio Pubblico che da anni persegue una volontà di formazione del pubblico e di nuove figure professionali attive in ambito culturale.
Si tratta di un atto politico che, scevro da colori di bandiera, porta avanti il solo stendardo dell’arte in un contesto che diventa, per l’alto numero di spettatori raggiunto e per la vasta quantità di soggetti, organizzazioni e compagnie coinvolte, strumento d’analisi prezioso per indagare lo stato dell’arte nella società contemporanea.
Scesi dal palcoscenico, gli artisti sono stati invitati a più riprese a incontrarsi, a scambiarsi impressioni e informazioni, a condividere difficoltà e proposte.
In quest’ottica, fondamentale è stata la giornata del Festival dedicata alNetwork Risonanze!pensato per la diffusione e la tutela del teatro under 30. Diffusione e tutela del teatro che risultano possibili a una sola condizione: creare partenariato. Una collaborazione questa che ha fatto sì che Dominio Pubblico, insieme alle direzioni artistiche under 30 del Festival 20 30 di Bologna e del festival Direction Under 30 del Teatro Sociale di Gualtieri, desse vita a una rete nazionale in cui far circolare esperienze e attraverso cui creare un’intelligenza collettiva.
Direzione partecipata, diffusione dei prodotti culturali e Audience Development sono stati il motore propulsore di questa cooperazione, cui circa 60 operatori, provenienti da oltre 20 città d’Italia hanno dato il proprio contributo esperienziale. Attivazione territoriale e attivazione generazionale sono due concetti che hanno costituito un importante momento della trattazione. I giovani che nelle direzioni partecipate di molte pregevoli iniziative festivaliere, s’adoperano per risollevare la vita artistica, turistica e culturale di piccole cittadine poco conosciute o quasi dimenticate, sono gli stessi che per le poche opportunità professionali e di formazione offerte, rischiano di sottoporre la propria terra alla desertificazione. Delocalizzare i processi culturali è divenuta allora una risposta condivisa dalla collettività, per riattivare il territorio nazionale, arricchendolo e liberandolo dai lacci dell’annichilimento.
Cosa è emerso da questo meeting?
L’urgenza, per un movimento culturale fervido, com’è quello dei giovani teatranti italiani, di autodefinirsi. Non etichettarsi – autoescludersi per introdursi in generiche, molto spesso, asfissianti categorie – ma riconoscersi. Un riconoscimento che preme a tutti, artisticamente e socialmente: seppur frequenti, le iniziative di sostegno pubblico non sono in grado di contenere il dato emergenziale sollevatosi circa il senso di abbandono da parte delle istituzioni, che troppi artisti e operatori vivono quando professionalmente si approcciano al mondo del teatro.
Ancora una volta si è riusciti, insieme, a trovare una proposta collettiva, dal basso: creare alleanze, unirsi in nome di un bene comune inquantificabile, qual è la creazione culturale, per sostenersi e difendere l’operato e i diritti umani e salariali di tutti coloro che dell’arte, spinti dal movente passionale, hanno fatto una professione oltre che una missione di vita.
Dominio Pubblico, il Teatro di Roma e la Middlesex University di Londra
Il Festival Dominio Pubblico ha alzato quest’anno l’asticella, gettandosi ben oltre i confini nazionali, inserendo nel programma di questa VI edizione, due performances provenienti rispettivamente dalla Lituania e dalla Bulgaria e uno spettacolo creato dagli studenti e dalle studentesse della Middlesex University che si sono inoltre impegnati in una Masterclass internazionale, in collaborazione con il Teatro di Roma.
Simone Giustinelli è un regista, attivo come artista e organizzatore tra le fila di Dominio Pubblico, che dallo scorso anno grazie a “Torno Subito”, progetto di formazione promosso dalla Regione Lazio, ha avviato una partnership tra Dominio Pubblico e la Middlesex University di Londra. Nella capitale anglosassone, si è venuta così a creare una modalità di lavoro speculare a quella di Dominio Pubblico, in cui alcuni under 25 sono stati messi in condizione di impegnarsi, con finalità spettacolari, in una produzione totalmente pensata dagli studenti e dalle studentesse. Attraverso quest’esperienza, è andata intrecciandosi una rete di rapporti con partner internazionali, tale da innescare un processo di europeizzazione del Festival romano.
Questo disegno organizzativo ha il mirabile scopo di sviluppare e incoraggiare la creatività under 25, facendo di Roma il baricentro della progettualità spettacolare europea rivolta a giovani artisti.
Dei sorrisi, delle scoperte artistiche e dei percorsi gloriosi tracciati nei due week-end trascorsi presso il Teatro India di Roma, restano i riflessi sulle pareti ariose delle mongolfiere disegnate da Alessandra Carloni per rappresentare le migrazioni di bellezza avvenute in questo evento di trasversale operosità. Con esse, i giovani artisti che hanno intrattenuto e commosso attente e corpose platee, si sono sollevati leggeri sulla vita culturale della città, liberi dalla zavorra del fallimento.
Perché il fine ultimo e il merito primo del Festival Dominio Pubblico è di essere un caldo ventre di madre in cui abbandonarsi dopo essersi messi alla prova. Fallire, per crescere come uomini e donne, oltre che come artisti, consapevoli di poter osare in un contenitore spettacolare che con coloro che ospita si rialza e si rinnova, in attesa di un futuro più solido e dalla eco sempre più risonante.
Ornella Rosato è giornalista, autrice e progettista. Direttrice editoriale della testata giornalistica Theatron 2.0. Conduce corsi formativi di giornalismo culturale presso università, accademie, istituti scolastici e festival. Si occupa dell’ideazione e realizzazione di progetti volti alla promozione della cultura teatrale, in collaborazione con numerose realtà italiane.
03/07/2017 60 Festival dei 2 Mondi di Spoleto. Teatrino delle 6, Progetto Accademia, European Young Theatre 2017. Studi e Performance proposti da giovani attori e registi europei. Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico – Italia. Nella foto lo spettacolo Reparto Amleto di Lorenzo Collalti con Luca Carbone, Flavio Francucci, Cosimo Frascella, Lorenzo Parrotto
L’Amleto di Shakespeare, sebbene sia un’opera scritta nel 1600, è talmente imponente nella sua singolare grandezza, al punto che rimaneggiarla con un taglio di attualità, mediante trascrizioni o rifacimenti, risulterebbe in partenza un progetto arduo e altrettanto imprevedibile. Semplicemente perché è stato fatto e messo in scena quasi tutto, ma soprattutto perché le traversie umane, il dramma del giovane principe di Danimarca è una costruzione letteraria dotata di tracce feconde provenienti dalla civiltà greca che conferiscono ad essa la sua intrinseca immortalità. È già di suo la sintesi perfetta e universale dell’arte teatrale che si estende e incorpora in sé ogni livello e genere, dalla tragedia alla commedia.
L’Amleto è stato sperimentato, manipolato con i linguaggi del teatro, del cinema, dell’opera, della danza diffondendo affreschi più o meno riusciti dalle visioni oniriche alla pop-culture. Prezioso è stato il contributo del cinema, da Lawrence Olivier che vinse un Oscar per averne descritto la storia con la crudezza e il fascino del bianco e nero a Kenneth Branagh che la ambientò invece in un ipotetico novecento. Senza tralasciare un classico della Disney come il Re Leone che presenta delle similitudini con l’Amleto di Shakespeare, veicolato ai bambini mediante un film di animazione. L’attore sul palcoscenico dei teatri invece è stato più o meno plastico e duttile, con e senza il teschio in mano, a volte classico altre volte tecnologico, intimo o trasformista, parzialmente nudo o totally naked.
È facile supporre che Lorenzo Collalti fosse ben consapevole dall’impervio compito di spogliare il classico shakespeariano da ogni ricerca e da tutte le sovrastrutture che nel tempo sono state fatte. Ma questo non gli ha impedito di rinunciare a quella che è l’idea di ogni regista e, di conseguenza, anche la sua. Un cast di quattro attori: Luca Carbone nel ruolo di Amleto, i due portantini Cosimo Frascella e Flavio Francucci coordinati dal primario Lorenzo Parrotto. Il trono del principe ereditario è una carrozzella. Il salone reale è un reparto ospedaliero di psichiatria. Il pigiama e le pantofole in panno sono il suo nobile vestiario, un simbolo e un vessillo di umanità ritrovata o esaltata.
Collalti ha scritto e diretto “Reparto Amleto” riscuotendo una serie di successi e di riconoscimenti. È stato un anno prospero il 2017 in quanto “Reparto Amleto” ha vinto il primo premio della “Groups’ Competition”, il Premio SIAE alla miglior drammaturgia durante il Festival dei Due Mondi di Spoleto 2017 e, last but not least, il Premio Miglior Spettacolo della rassegna Dominio Pubblico. Nel gennaio del 2018 è andato in scena al Teatro India di Roma con il premio di produzione del Teatro di Roma e a Milano il 14 e il 15 marzo nello spazio No’hma. Nella Capitale è ritornato recentemente, presso il Teatro Biblioteca Quarticciolo, nelle due date del 26 e 27 maggio.
A seguito della replica del 27 maggio la compagnia ha incontrato il pubblico, gli irriducibili e i visionari rimasti sulle poltrone rosse. A loro si sono presentati con molta semplicità e in abiti comodi. Come cinque allegri ragazzi vivi. Lorenzo Collanti è il primo a descrivere il loro come un gruppo di amici che si è creato proprio nell’Accademia Silvio D’Amico, dove si sono diplomati. Il segreto del loro lavoro è la coesione. Come per una rock band o una squadra. Quella combinazione sistemica, efficiente come uno schema di gioco, che trasforma un’idea, il guizzo di un testo in una tecnica di sintesi, rielaborata artigianalmente e raffinata mediante il lavoro con le prove.
I quattro fuoriclasse di “Reparto Amleto” danno prova di grande ironia presentandosi come quello “bello” (Lorenzo Parrotto), quello “bravo” (Luca Carbone), quello “basso e corto” (Cosimo Frascella), quello “grasso e simpatico”, corretto da una ragazza del pubblico in “ex grasso”, (Flavio Francucci). Quasi all’unisono ripetono che realizzano il sogno di un gruppo di amici di voler intercettare un pubblico sempre più eterogeneo, non abituato al linguaggio del teatro, contemplando uno squarcio nella quotidianità. “Non vogliano cambiare il mondo, ma vogliamo apportare qualcosa di nostro. Il fatto di lavorare tanto, bene e in gruppo è una controtendenza così come quella di contenere la durata dei loro spettacoli. Il primo è un indirizzo di orientamento votato all’aggregazione anziché all’individualismo. La seconda è una scelta precisa: far andare via il pubblico “affamato”, diversamente da quello che avveniva negli anni ’70 quando gli spettatori bivaccavano nei teatri.
“Reparto Amleto” è nato da una intuizione di Lorenzo Collalti dopo aver esaminato le tante idee diverse, dopo aver letto saggi e critiche, visioni e interpretazioni contrastanti. L’illuminazione nasce a volte per gioco e in questo caso la scommessa è stata quella di mettere in scena gli aspetti più comici e folli. Facendo emergere il lato umano più nudo e riconoscibile di un giovane ragazzo, principe di Danimarca, che parla con il fantasma del padre e con due portantini di un ospedale che certamente non conoscono Schopenhauer e la filosofia. Che non è ancora pronto per la sfida di diventare uomo e adulto, ancor prima che sovrano. Decontestualizzato da un ambiente preciso di riferimento.
Un tramestio prolungato che rimbalza, insistente come un movimento di persone o cose. Collalti rivendica con un pizzico di orgoglio una certa predisposizione alla confusione che rimanda anche al nome della compagnia, un uomo di fumo che prende forma, mutabile però come ogni fenomeno dell’esistenza umana. E quando qualcuno gli chiede di parlare ancora del suo lavoro lui cita il regista Declan Donnellan: «Ci sono tre modi per distruggere un artista: si può parlar male del suo lavoro, ignorarlo, oppure chiedergli di teorizzare il suo pensiero. Appena riuscirà ad esprimere una tesi sarà completamente morto».
REPARTO AMLETO
scritto e diretto da Lorenzo Collalti conLuca Carbone, Flavio Francucci, Cosimo Frascella, Lorenzo Parrotto
Produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale in collaborazione con L’Uomo di Fumo – Compagnia Teatrale
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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