da Michela Ventre | 22 Nov 2017 | Uncategorized
Il Teatro è un gioco.
Mi sentirete battere spesso su questo tema.
Che tu, caro lettore, sia un attore professionista o un appassionato, un amatore o un semplicissimo curioso, devi ricordare che non si può “fare teatro” dimenticando la principale funzione che esso ha per l’uomo: dar corpo e voce all’immaginazione, che sia dell’autore, dell’attore o dello spettatore.
Un imbroglio, il teatro è un imbroglio. Un patto non scritto tra attore e spettatore in cui il secondo si accomoda su una sedia (una morbida poltrona, nella più fortunata delle ipotesi) col preciso intento di “farsi imbrogliare”, di fingere di credere che quel signore sulla scena (magari il figlio o il vicino di casa) sia Amleto. Un gioco di condivisa immaginazione tra le parti.
Un signore di nome Ulric Neisser, arguto psicologo statunitense di origine tedesca, ci aiuterà a definire questa capacità umana che è l’immaginazione.
Il suo primo volume, Cognitive psychology, pietra miliare nella storia del cognitivismo moderno, fornisce la prima ipotesi esplicita di come nei processi attenzionali siano implicati quelli di riconoscimento figurale. Più in generale, l’idea che vi sia coerenza tra i vari processi cognitivi che avvengono nelle diverse fasi di elaborazione delle informazioni permette a Neisser di sottolineare la presenza di un continuum tra processi quali la percezione, l’immaginazione e i processi mnestici.
Neisser si soffermò su un fenomeno che sarà sicuramente capitato ad ognuno di noi.
Se io immagino che la persona che ho di fronte sia, per esempio, un ladro o uno scippatore, sulla base di questa mia rappresentazione mentale la mia attenzione si focalizzerà sui segnali da lui prodotti che potrebbero confermare la mia ipotesi.
Incaponitosi su questo argomento tirò furi la sua tesi: ogni uomo possiede schemi mentali che usa come modulatori dei processi cognitivi (percezione, immaginazione, simbolizzazione, formazione di concetti, soluzione di problemi) grazie ai quali l’uomo acquisisce informazioni sull’ambiente e le elabora in funzione del proprio comportamento.
Tornando al nostro esempio si traduce nel fatto che la mia percezione (c’è un uomo di fronte a me) crea un’ipotesi immaginativa (quest’uomo è un ladro) la quale inevitabilmente modula e influenza le mie risposte (dunque vuole derubarmi) e quindi il mio comportamento (scappo).
Dunque l’attività reale è assolutamente modulata dall’immaginazione.
Ed ecco la realtà.
Quando Amleto ha affondato la spada nell’arazzo urlando “un topo, un topo” ha solo immaginato che lì dietro si nascondesse il Re, l’uomo che voleva realmente ammazzare, eppure la sua immaginazione ha guidato la sua azione. Non è andata molto bene per il caro Polonio, ma l’esempio rende bene l’idea di Neisser.
Ed ecco il teatro.
Ognuno individuo possiede questa fantastica capacità di creare rappresentazioni mentali interne. Immaginiamo sempre, continuamente, per fortuna!
Immaginate se non fosse così.
Ma perchè è così importante? Perché è così importante persino per un attore?
Perché alle rappresentazioni immaginative interne sono strettamente collegati gli schemi espressivi di cui ogni individuo è portatore. Se voglio esprimere qualcosa che non mi è ben chiara in testa non posso rappresentarla. Se non posso rappresentare qualcosa non posso farla comprendere a chi ho di fronte.
L’attore in questo senso è il mezzo di cui un autore si serve per rendere vivo, reale e visibile al pubblico il personaggio e tutto quello che quest’ultimo pensa e immagina. Ed ecco che le piccole cose invisibili rendono reali quelle visibili come la postura, la mimica e i movimenti di quel personaggio, l’atteggiamento corporeo, la voce.
L’attore sa che dietro l’arazzo non c’è il Re, bensì Polonio, ma Amleto non lo sa.
L’attore che interpreta Amleto deve immaginare come Amleto, deve convincersi che sta per uccidere lo zio e che vendetta sarà fatta. Deve crederci, con gli occhi di Amleto.
L’immaginazione è più importante della conoscenza. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione. [Albert Einstein]
Riferimenti bibliografici:
NEISSER U., Conoscenza e realtà, Bologna, Il Mulino, 1981.
RUGGIERI V., On the hypothesized correspondence between perceptual and imagery processes, Perceptual and Motor skills, 73, 827-830, 1991.
RUGGIERI V., Immaginazione e Percezione si incontrano nello sguardo, Realtà e Prospettive in
Psicofisiologia, n. 5-6, 119-131, 1993.
http://www.filosofico.net/
http://www.treccani.it/
da Michela Ventre | 11 Apr 2017 | Uncategorized
Esiste negli esseri umani una irresistibile attrazione per le storie.
Siamo sedotti dalla narrazione.
Dalle favole di bambini, ai libri sul comodino.
Andiamo al cinema e a teatro per sentire delle storie. Ed anche per altre motivazioni, certo, ma alla fine sono storie. Ci piace ascoltarle, ci piace raccontarle. È capitato senz’altro ad ognuno di noi di osservare le persone per strada e giocare ad indovinare chi fossero, quale fosse il loro mestiere, la loro età, come potesse essere il suono della loro voce, inventare la loro giornata. Creare una storia, appunto.
Se non vi è mai capitato, sono pazza perché io lo faccio spesso!
Il punto è: perché?
Gottschall nel suo libro “L’istinto di narrare. Come le storie ci hanno reso umani “ esplora l’intuizione che l’attività umana di significazione possa aprire un ambiente virtuale dentro l’ambiente fisico, definendo la narrazione come un vero e proprio habitat, una biosfera aumentata che costituisce una nicchia ecologica ideale per lo sviluppo della specie umana”. Parole difficilissime ma andando avanti diventa tutto più chiaro: “la capacità di inventare e raccontare storie ha rappresentato per la specie umana un vantaggio evolutivo decisivo, uno dei tratti che l’hanno definita rispetto agli altri esseri viventi”.
Le storie anche quelle che produciamo nei sogni – allucinazioni notturne che il cervello si racconta – sono un allenamento mentale, il laboratorio di costruzione dell’intelligenza emozionale e relazionale, simulatori dell’esistenza che permettono di esercitarci a vivere. E la mente è il dispositivo programmato per processare storie e consentire alle stesse storie di modellarlo.
Esiste una spiegazione fisiologica.
Quando raccontiamo, facciamo affidamento su un’estesa rete di aree cerebrali situate in tutti e due gli emisferi. Molte di queste aree, inoltre, sono le stesse deputate alla comprensione del linguaggio.
Sapete cos’è la capacità di rispecchiamento neuronale?
I neuroni specchio sono neuroni che si attivano rispettivamente sia quando compiamo un’azione sia quando osserviamo qualcuno compierla. La conoscenza del loro funzionamento può suggerire che il momento in cui si ascolta un racconto crea il desiderio di raccontare in maniera quasi contagiosa: le storie agiscono su chi le ascolta inducendo una partecipazione corporea e mentale, che riproduce tutti gli effetti fisici e psichici impliciti nella situazione narrata.
Inoltre il nostro cervello funziona da grande risolutore di problemi. È quindi umano trovare una spiegazione, unire i puntini. Ogni input deve avere il suo svolgimento, il motivo di esistere e l’obiettivo finale e tutto deve essere dotato di senso, e a volte (come ad esempio quando raccontiamo ciò che ricordiamo di un sogno fatto) inventiamo delle storie per far si che i simboli coesistano e abbiano un senso.
Questo aspetto è strettamente collegato anche alle nostra creatività. Come la definiva Poincaré, la creatività è la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili; il criterio intuitivo per riconoscere l’utilità della combinazione nuova è “che sia bella”. Ovviamente non in senso strettamente estetico, ma riferito all’eleganza, così come la intendono i matematici: armonia, economia dei segni, rispondenza funzionale allo scopo. E infatti, ancora, citando quel simpaticone di Einstein “imagination is more important than knowledge”: la fantasia, l’immaginazione, sono processi creativi della mente che trasportano il nostro pensiero al di là della razionalità e del conosciuto. Come si potrebbe scoprire qualcosa di nuovo se non si avesse la possibilità di andare oltre ciò che è già noto? Come si potrebbe allargare la conoscenza se non si avesse il coraggio di “osare” verso l’irrazionale? Nessuna scoperta sarebbe stata fatta senza lo stimolo dato dall’emozione dell’ignoto.
da Michela Ventre | 17 Dic 2016 | Uncategorized
Il motivo per cui ho accettato di scrivere questo blog, non è chiaro tutt’ora. Diciamo che scrivere non è arte mia, ma ero sicura che impegnarmi in un compito del genere mi avrebbe portato a conoscere, ad imparare, ad imparare a conoscere. E mi piace perché cerco, leggo, e mi informo grazie anche a questo mezzo fantastico che si chiama internet. Questa cosa accade soprattutto se l’argomento del blog non lo decido io. Come in questo caso! Vi spiego: un mio amico, che per comodità chiameremo Cesare, mi ha inviato un link. Cesare ha pensato che potrebbe essere interessante approfondire l’argomento protagonista di quel link. Cesare ha suggerito di condurre una ricerca su uno degli esponenti dell’argomento protagonista di quel link. Cesare poi ha detto: “fallo”. Tralasciando i miei più intimi pensieri che in quel momento si sono concentrati su Cesare. Bene, l’ho fatto!
Come spesso succede grazie a questi stimoli esterni sono venuta a conoscenza di una disciplina a me ancora sconosciuta che si chiama pedagogia dell’espressione. Una tecnica che parallelamente alle arti terapie, coniuga le dimensioni artistiche o sportive alla dimensione formativa, con lo scopo di migliorare la capacità di convivere con se stessi. Per essere più diretti la pedagogia dell’espressione nasce dall’emergenza educativa attuale nei contesti formativi. Gilberto Scaramuzzo ha condotto quest’anno la seconda edizione di un master in pedagogia dell’espressione rivolto ad insegnanti, educatori, artisti della parola e del movimento e a tutti coloro che sono interessati alla ricerca artistica, alla pedagogia e a svolgere un’azione educativa e artistica.
Ma chi è Gilberto Scaramuzzo?
Il professor Scaramuzzo è Ricercatore presso l’Università degli Studi Roma Tre e Coordinatore del “MimesisLab” – Laboratorio di Pedagogia dell’Espressione – pedagogista e regista teatrale, docente di Teorie Moderne dell’Educazione e Pedagogia dell’Espressione e di Teatro e Educazione.
È membro del Consiglio di amministrazione dell’Istituto di Studi Pirandelliani e sul Teatro Contemporaneo.
Ora, magari, i più incuriositi si staranno chiedendo: <<E la pedagogia, precisamente, cos’è? >>
I lettori più pazienti, che hanno deciso di dare fiducia a questa “simpatica blogger” –che sono io- si aspetteranno che lo scriva immediatamente.. e infatti!
Il termine pedagogia deriva dal greco e la traduzione fedele sarebbe generare bambini, più nello specifico paidos sarebbe bambino e ago guidare, condurre. E visto che siamo partiti dall’etimologia, vi racconto una breve storia.
C’era una volta, ai tempi dell’antica Grecia, un pedagogo. Lui era conosciuto come uno schiavo che accompagnava i bambini a scuola.
Poi un bel giorno i Romani decisero di conquistare la Grecia, fu allora che colui che rispondeva al nome di paedagogus, lo schiavo greco che accompagnava i bambini, divenne anche colui che insegnava loro la lingua greca. Col tempo il significato di paedagogus acquistò solennità, infatti in epoca medioevale il pedagogo era il servo del re che si occupava dell’istruzione dei giovani figli del re (i principi). Ma in quel tempo gli era permesso insegnare solo a leggere e scrivere. Ai giorni nostri invece, grazie al progresso, il pedagogo può finalmente insegnare anche la matematica, le scienze, e tanto altro.
Insomma la pedagogia è la scienza umana che si occupa dell’essere umano e del suo sviluppo nell’intero arco di vita, dall’infante all’anziano, si occupa della sua formazione, istruzione ed educazione.
Partiamo dal presupposto che il termine “educare” significa “tirar fuori” ciò che la persona ha dentro, valorizzare il mondo interiore delle persone e incoraggiarle a migliorarsi. Analizziamo poi gli ambiti formativi in cui le persone oggi dovrebbero imparare, esprimersi, crescere.
E’ facile allora pensare che un paedagogus possa operare con l’arte per mirare ai suoi obiettivi.
Finalmente finiti i preliminari, possiamo passare al punto: la pedagogia dell’espressione.
Riporto a questo punto le parole esatte del professore Scaramuzzo.
“La pedagogia dell’espressione si occupa dell’essere umano, di come un essere umano sviluppa la propria umanità e quindi studia nella profondità i dinamismi dell’espressione partendo dal presupposto che l’essere umano è un essere che si deve esprimere, ma soprattutto che deve esprimere “se“. Ed ognuno è diverso, per questo si ricerca la radice dell’espressione umana a prescindere della forma d’arte che questa prenderà, a prescindere da quale sia la patologia della persona.
Per esempio la pedagogia dell’ espressione in ambito didattico cercherà anche come un insegnante arriva ad esprimersi, a rendere vivo quello che ha in sé.
Come avviene il processo di apprendimento? Come si sviluppa l’umanità? Come si impara a leggere? Qual è il rapporto tra la parola ed il corpo? Come si impara a guardare? Ad esprimerci, a dirci?
Ciò si irradia in molteplici forme, in quello che noi chiamiamo arte ma che poi può rivelarsi nell’incontro tra due esseri umani, o nel modo in cui riusciamo a farci comprendere. Tema fondamentale della pedagogia dell’espressione è la comprensione: arrivare ad esprimere se stessi in maniera che l’altro ci comprenda e preoccuparsi di capire come noi comprendiamo l’altro, chiunque esso sia. Tutto questo, vivendo nell’ambito educativo, mira a costruire un’altra qualità della convivenza, cioè a costruire una convivenza fatta da persone che si esprimono e comprendono l’altro nella sua espressione. E’ un bisogno primario: noi se non ci esprimiamo non siamo felici, e non ci basta esprimerci, ma c’è bisogno che l’altro ci comprenda. L’espressione è fatta per dire qualcosa a qualcuno e quel qualcosa deve arrivare. Bisogna cogliere l’unicità di un singolo individuo e aiutarla a “dirsi”, approfondire il mistero dell’apprendere e del comprendere e trovare la forma per esprimersi! “
Per me il messaggio del “prof” è chiaro e ha ispirato il titolo di questo articolo: #ESPRIMIAMOCI!
Sono certa che almeno 1 persona su 10 sta pensando al mio amico Cesare, il restante numero pensa a quanto io sia ottimista a credere che 10 persone abbiano letto questo articolo.
Qualcun altro se dovesse essere interessato ad approfondire l’argomento può trovare un paio di link alla fine della pagina.
Come dicevo all’inizio dell’articolo, è vero che non so scrivere, non è arte mia, però ho imparato che per praticare un’arte, di qualsiasi forma essa sia, non serve saperlo fare, serve solo qualcosa da dire.
LINK:
http://www.masterpedagogiadellespressione.org/
http://host.uniroma3.it/laboratori/mimesislab/
https://www.facebook.com/mimesislab
da Michela Ventre | 17 Dic 2016 | Uncategorized
Dunque, il blog si chiama Teatral-Mente, e guarda un po’, in questo articolo leggerete di Teatro e di Mente.. tadaaa! Vorrei introdurre una quasi sconosciuta – come definirla? – “attività”, per molti professione, per altri fantascienza, per anni sottoposta ad interrogativi di vario genere.
Sto parlando della Teatroterapia, e in generale delle Arti terapie.
Le ho introdotte così perché almeno la metà delle persone con cui ne ho parlato reagisce in maniera disorientata. Molti dicono: “bello!” fingendo stupore; altri magari sono realmente interessati ma non ne hanno mai sentito parlare, altri semplicemente.. ridono!
In realtà ho voluto “fare la simpatica”, ma forse non tutti conoscono effettivamente di cosa stiamo parlando. E io avrò il piacere di dirvi – e lo scrivo in maiuscolo – che è stato SCIENTIFICAMENTE PROVATO CHE LE ARTI TERAPIE AIUTANO LE PERSONE:
Gli Egizi, alle persone affette da disturbi mentali facevano frequentare concerti e balletti;
I Greci inducevano la catarsi con il teatro e la musica;
La letteratura e la musica per i romani alleviavano la malinconia;
Nel Medioevo curavano tutto con “la magia” – ecco la fantascienza -;
Dal Rinascimento in poi l’artista viene concepito come una figura dotata di particolare sensibilità e l’opera d’arte viene vista come “una sorta di strumento terapeutico che permette l’espressione di una realtà fantastica, che altrimenti l’avrebbe potuto portare alla follia”;
Durante la Rivoluzione Industriale la “terapia morale” applicata nei rifugi di assistenza incoraggiava i pazienti con disturbi mentali a svolgere attività artistiche – Van Gogh passò gran parte della sua vita in uno di questi rifugi ;
Nel XX secolo l’opera artistica è concepita come l’espressione dell’inconscio e come un derivato del processo di sublimazione degli istinti di base (si sente che l’ha scritto Freud);
E OGGI?
Oggi definiamo Arti terapie quelle discipline che utilizzano le arti come gallerie espressive per creare una relazione d’aiuto, che è poi la terapia in se, formando la base del rapporto tra paziente, o gruppo di pazienti, e terapeuta. Questo non deve far pensare ad un approccio orientato esclusivamente o necessariamente alla cura, in quanto si tratta prima di tutto di un percorso attraverso la scoperta o il ritrovamento della propria creatività, che predilige, nella maggior parte dei casi, un tipo di comunicazione non verbale, istintivo, non guidato dalla razionalità ma basato sulle emozioni. Le arti terapie, infatti, sono utilizzate sia in quei contesti cosiddetti “sani” per indurre modificazioni comportamentali o il recupero di abilità, sia in casi patologici per intervenire sull’insorgere di comportamenti antisociali, o prevenirli, e facilitare la risocializzazione.

Esprimersi con le Arti vuol dire comunicare ciò che si ha dentro; vuol dire, dunque, dare voce al disagio delle persone: l’arte ha la capacità di tradurre un disagio, così come un bisogno, o un desiderio, nel linguaggio delle emozioni, un linguaggio universale che utilizza i suoni, il corpo e il movimento, l’immagine e i colori per creare un canale inconscio di comunicazione. Le arti costituiscono il mezzo con il quale qualsiasi uomo, seppure affetto da disturbi psicologici, esprime le proprie emozioni. In questo senso le Arti Terapie sono annoverate tra le Medicine Olistiche, collocazione in un panorama scientifico che consegna a questa metodologia di intervento le finalità di prevenzione, riabilitazione e terapia (anche a carattere psichiatrico).
Le arti terapie conosciute e applicate, praticamente in tutto il mondo, sono la musicoterapia, la danza movimento terapia, arte terapia e teatroterapia.
In una definizione di Rolando Benenzon la musicoterapia “è una disciplina paramedica che usa il suono , la musica ed il movimento per aprire canali di comunicazione che avviino il processo di preparazione o recupero dell’uomo nella società”. Dal punto di vista terapeutico diventa una vera e propria stimolazione multisensoriale, relazionale, emozionale e cognitiva, impiegata in diverse problematiche al fine di ottenere una maggiore integrazione sul piano intrapersonale ed interpersonale, un migliore equilibrio e armonia psico-fisica. Nella sindrome autistica, caratterizzata da isolamento da parte del paziente, il soggetto vive in un mondo fatto di riti, di ossessioni, di fobie, dietro i quali si rifugia trovandosi sempre nello stato di paura patologica. In questo caso il linguaggio sonoro può divenire strumento privilegiato per superare questo isolamento poiché contiene elementi suggestivi e suadenti che penetrano nel subconscio influenzando il corpo e la mente e rompendo così la censura che tratteneva le emozioni e la loro espressione.
Herns Duplan, fondatore del modello Expression Primitive di danzamovimento terapia, introduce una “danza antropologica” definendola “un tema di ricerca di ciò che è dentro di noi, di ciò che ci collega alla nascita; un processo di esplorazione di sé che attraversa 3 momenti: apparire, vivere e scomparire”. La prima applicazione della danzaterapia in ambito riabilitativo, e quindi la scoperta del valore riabilitativo di questa disciplina, si deve a Maria Fux che ha ricercato nella danza il senso personale che può avere per l’uomo come forma creativa ed espressiva, istintiva e necessaria.
L’arte terapia (plastico pittorica) permette, anche in assenza di competenze artistiche mirate, di puntare sulle proprie capacità creative al fine di realizzare interventi volti all’armonizzazione psichica e relazionale, al miglioramento di patologie in ambito psico-fisico (handicap, disturbi del comportamento e dell’apprendimento, psicosi etc..). Dare una forma visiva, concreta a sentimenti ed emozioni tramite il disegno o la scultura, permette di osservarli da fuori e riconoscerli come staccati dal sé, permettendo la ricerca di nuove modalità di relazione tra mondo interno ed esterno.
La dramma teatro terapia, è la più emergente delle arti terapie applicate in contesti sociali e sanitari. Questa metodologia di intervento si è però quasi da subito collocata sulla soglia tra scienza e arte in quanto si rifà sia alle psicoterapie attive, sia alle pratiche teatrali di confine (teatro educativo e sociale), elaborando modelli teorici autonomi ma anche strumenti diagnostici e terapeutici specifici.
Gli assunti base della dramma teatro terapia convergono nell’idea che la persona sia “intrinsecamente drammatica” sin dai primi mesi di vita. I metodi che vengono utilizzati includono il movimento, il mimo, giochi di ruolo, lavoro sulla voce, gioco drammatico, drammaturgia, maschere, miti e storie.
Tutte queste componenti vanno a costruire una disciplina trasversale che ha come obiettivo quello di aiutare la persona in un processo di consapevolezza del sé, della propria identità, dei propri limiti e dei propri confini che siano corporei, sociali o relazionali.
Il teatro, già per definizione, rappresenta il contenitore di emozioni che tramite prove e giochi, lascia la libertà di esprimersi senza il giudizio altrui, di mostrarsi come non ci si mostra in altri contesti, di improvvisare, o di entrare nei panni di qualcun altro, creando un tipo di comunicazione prima con se stessi, poi con gli altri; creare quindi una identità e metterla a disposizione di un gruppo. È prima di ogni cosa divertirsi, ascoltarsi, mettersi in contatto, perdersi, ritrovarsi.
“La Teatroterapia è un percorso attivo di cura e crescita personale basato sulla messa in scena dei propri vissuti, all’interno di un gruppo, con il supporto di alcuni principi di presenza scenica derivati dall’arte dell’attore. Essa implica l’educazione alla sensorialità e alla percezione del proprio movimento corporeo e del suono vocale; agisce attraverso l’interpretazione di personaggi principalmente improvvisati, ma implica un minuzioso training pre-espressivo, indispensabile alla creazione dell’altro da sé che rende possibile e consapevole la presa di coscienza dei processi inconsci.” (Federazione Italiana Teatroterapia)
Non indugerei oltre sul contenuto di questa citazione, che ho riportato dal sito della “Federazione Italiana Teatroterapia”, ma sul fatto che esista una Federazione Italiana di Teatroterapeuti! Vuol dire che esistono persone che fanno terapia col teatro! Professional-mente!
Non è fantascienza..Il teatro aiuta! Vera-mente.