Spazio Zut!: la ricerca nel cuore di Foligno. Intervista a Emiliano Pergolari e Michele Bandini

Spazio Zut!: la ricerca nel cuore di Foligno. Intervista a Emiliano Pergolari e Michele Bandini

Zut!
Spazio Zut!

Zut! è una realtà profondamente calata nel territorio di Foligno, uno spazio che nel mantenere saldo il legame con la comunità locale e con gli artisti e le artiste che sostiene, volge lo sguardo all’internazionalità e alla costituzione di una rete che si faccia amplificatore di possibilità di ricerca e di confronto. Dal Palazzo delle Logge, situato nel cuore della città, Emiliano Pergolari e Michele Bandini portano avanti la direzione artistica di Zut! dal 2014, promuovendo la realizzazione di progetti culturali e artistici, progetti di produzione legati al teatro, alla danza, la musica e le arti visive e performative. 

Dal 2018 lo spazio è entrato a far parte del progetto C.U.R.A., Centro di Residenze Umbre, affermandosi come centro di residenza artistica, con la volontà di istituire nuove pratiche per curare e favorire la crescita di identità creative e di nuove progettualità, in un percorso comunitario condiviso con altri spazi.

Il lockdown non ha interrotto l’attività artistica del collettivo che anima lo spazio che, in quel tempo sospeso, ha realizzato il radiodramma La Quarantena del Signor Zut e #IORESTOZOEGARAGE, due progetti artistici home edition inseriti nel programma del Festival Strabismi 2020. Intervistati, Michele Bandini ed Emiliano Pergolari hanno raccontato mission del progetto, prospettive future dello spazio e il percorso artistico mutato e ricostruito durante la pandemia.

A quali esigenze della scena artistica umbra ha risposto la creazione di Spazio Zut! e qual è la mission del progetto?

Emiliano Pergolari: crediamo che il nostro progetto sia rivolto a tutta la comunità e a tutto il territorio, a partire dagli artisti. Da questo punto di vista crediamo che in questi anni lo ZUT abbia rappresentato un punto di riferimento per la scena umbra e per i vari linguaggi, fermo restando che l’interdisciplinarietà e la mescolanza fra le varie arti rientra da sempre nella natura della nostra mission.

Ci siamo sempre posti l’obiettivo di dare delle possibilità e delle risposte adeguate ai percorsi specifici, alle volte accompagnando la crescita formativa di artisti in fieri, o emergenti, altre ancora offrendo la possibilità di mostrare il proprio lavoro, o di aprire un confronto con noi e con il pubblico.

Questa nostra natura di casa/scuola/vetrina appartiene sicuramente alla nostra mission che prevede uno spazio, non solo fisico, in cui sia possibile un incontro vero tra gli artisti, tra gli artisti e la comunità, tra le persone, cercando i modi per costruire e rigenerare le relazioni umane. Crediamo che in questo senso la cultura possa realmente rappresentare un valore aggiunto all’interno di una comunità e di un territorio.

A seguito della pandemia, il settore culturale ha subito una forte crisi che è ricaduta anche sugli spazi. Quanto sono cambiate, se sono cambiate, le vostre prospettive progettuali? Su cosa avete deciso di puntare per la ripartenza?

Michele Bandini: il lockdown è stato per noi, come per molti altri, un momento di sospensione che ci ha prepotentemente messo di fronte a un cambio di prospettiva. Da un pieno di vita e di attività a un vuoto che ci ha fatto mettere in discussione il nostro fare quotidiano e progettuale. Abbiamo risposto reattivamente, traducendo alcune attività on-line con l’intento di mantenere vivo il legame con la comunità a cui apparteniamo, ma ci siamo anche presi del tempo per riflettere internamente sul futuro. 

Abbiamo intrapreso un percorso collettivo di riorganizzazione interno allo spazio per reinventare un futuro prossimo in cui le attività possano essere il più fluide e malleabili possibili, progettando sempre con la consapevolezza della fragilità di lavorare a lungo termine in questo momento.

La prima azione di riapertura, in estate, è stata quella di ospitare una residenza artistica tecnica volta allo sviluppo di un’applicazione realizzata dalla compagnia Kokoschka Revival; la seconda è stata quella di ideare e promuovere, insieme al Centro di Residenze Umbre C.U.R.A., il bando Fase X, percorso formativo on line per 10 artisti che propone un’indagine e uno studio sul rapporto tra arti performative e dimensione digitale.

Una formazione a distanza strutturata secondo una formula che prevede il dialogo e lo scambio di pratiche, realizzata con il supporto di tutor e formatori nazionali e internazionali di alto livello. Da queste due operazioni emerge il nostro progetto a lungo termine: approfondire il tema dell’ibridazione dei linguaggi, la natura del rapporto tra arte performativa e dimensione digitale, tra presenza e assenza, esplorandone le potenzialità e le criticità. 

Questo itinerario progettuale prevede, da un lato, il mantenimento dei percorsi formativi per non professionisti e, dall’altro, ipotizzare un potenziamento dell’aspetto formativo in ambito professionale con una vocazione multidisciplinare.

Poi, ancora, ospitare residenze artistiche dei vari linguaggi favorendo la contaminazione delle arti; programmare all’interno delle nostre stagioni, progetti di teatro, musica, danza realizzati in rete con strutture e soggetti regionali, nazionali e internazionali per alimentare e sostenere la nostra vocazione di spazio di provincia, in stretta relazione con la comunità locale di riferimento ma anche in dialogo e scambio con una dimensione nazionale e transnazionale.

La Quarantena del Signor Zut è un progetto nato durante il lockdown, un radiodramma che racconta il confinamento attraverso la vicenda di un personaggio dei fumetti animato dalla voce di Michele Bandini e di altri artisti che hanno aderito all’iniziativa. In un tempo in cui la frenesia tecnologica ha finito per oscurare il predominio che la radio ha avuto nel secolo scorso, da dove deriva la scelta di realizzare un radiodramma?

MB: La Quarantena del Signor Zut è stata una delle nostre risposte al lockdown, con la volontà di tenere vivo un legame tra lo spazio e le persone che seguono le nostre attività. L’idea del radiodramma arriva da un mio precedente percorso artistico volto allo studio e alla ricerca del rapporto tra teatro e radio, tra scena ed elemento sonoro, tra voce e dispositivo microfonico.

Il radiodramma è stato realizzato grazie al facile accesso odierni alla tecnologia che permette di realizzare progetti sonori di buona qualità acustica, anche in una dimensione domestica. Il progetto è stato interamente realizzato in casa. Ho creato un piccolo studio di fortuna in cui registrare la mia voce e  paesaggi sonori, mentre i materiali che ho chiesto di registrare agli artisti coinvolti nel progetto sono stati condivisi tramite telefono. 

Penso che ad oggi ci sia un rinnovato interesse per la dimensione radiofonica, vista anche la proliferazione di podcast e webradio. Trovo che si sia attivato un processo estremamente fecondo, in cui poter immaginare lo sviluppo di percorsi artistici che possano re-inventare un modo nuovo di ascoltare il teatro alla radio, di creare teatro radiofonico e di immaginare un nuovo rapporto tra dimensione visiva e acustica.

Un rapporto, questo, capace di sondare in profondità il potere speculativo, immaginativo, visionario del rapporto tra dimensione sonora del reale e amplificazione, elaborazione, frammentazione dei segni sonori, dei contenuti di senso o di narrazione.

Nel rinnovato rapporto tra tecnologia e umanità, tra spazi digitali e reali, tra presenza e assenza, può nascere un rinnovato interesse per la dimensione dell‘ascolto, intesa al tempo stesso come esperienza intima e condivisa, privata e pubblica, individuale e collettiva, viste anche le infinite possibilità di costruzione e di fruizione delle creazioni sonore.

Durante la quarantena avete lavorato anche a #IORESTOZOEGARAGE, un progetto video di cui saranno presentati gli esiti in una conferenza al Festival Strabismi. Entrambe le proposte dimostrano la volontà di continuare a dedicarvi alla vostra attività artistica nonostante gli impedimenti sorti in era covid. Come vi ponete rispetto al dibattito sul teatro in video?

EP: Crediamo che il dibattito rientri nel più ampio quadro delle relazioni tra teatro, arti performative, tecnologia e digitale. Si tratta di una discussione sicuramente complessa e variegata. Certo è che, in una fase come quella che abbiamo attraversato, ognuno di noi ha avuto la possibilità di riconsiderare e rivalutare il proprio percorso e le proprie pratiche.

Questa pausa forzata dello spettacolo da vivo, delle prove, delle residenze, dei percorsi formativi, ha portato alla luce tutta una serie di proposte legate al digitale, ai social, alle varie piattaforme, che di fatto hanno costituito una seconda strada per gli artisti e per quanti hanno voluto esporsi in tal senso. Molte volte anche in maniera discutibile.

Se da un lato, questa non può essere una risposta sostitutiva della presenza in teatro o in un luogo di spettacolo, dall’altro lato crediamo che chiudersi completamente alle possibilità offerte dal digitale, più che una posizione politica o una reale esigenza, rappresenti un atteggiamento di rifiuto che sicuramente non crea le condizioni per un reale dibattito.

Da sempre, tra l’altro, l’attore, il regista, il performer, cercano di uscire dalla comfort zone, di provare nuove strade, magari meno chiare e meno battute. Forse, oggi, è proprio questa la vera sfida. Detto ciò, ovviamente, è  sano e normale che ogni artista scelga il proprio percorso e faccia le proprie scelte anche in questo senso.

Per quanto riguarda #IORESTOZOEGARAGE, si tratta di un piccolo esperimento di laboratorio nato nel momento in  cui  la stretta causata dal virus ci ha impedito di continuare i percorsi formativi dello Zut!, per l’appunto i laboratori ZoeGarage. #IORESTOZOEGARAGE è una rubrica settimanale in cui abbiamo raccontato come, nonostante tutto,  avessimo voglia di continuare  a incontrarci e di proseguire i nostri percorsi.

Lo consideriamo un progetto di laboratorio teatrale senza teatro, che prova a sperimentare e a reinventare parole, immagini, suoni all’interno di un processo creativo sicuramente inedito, rischioso e proprio per questo stimolante. Le restituzioni dei percorsi sono state varie, dal video sotto forma di promo alla mini serie video/teatrale, dal radiodramma alla videopoesia ispirata dalle parole di Mariangela Gualtieri.

Di intrecci mitologici e antiche tradizioni. L’Umbria in scena a Strabismi 2020

Di intrecci mitologici e antiche tradizioni. L’Umbria in scena a Strabismi 2020

Quella umbra è una storia fatta di intrecci mitologici e antiche tradizioni. Nel cuore dello stivale, il teatro vive nel lavoro di artiste e artisti che hanno fatto degli echi archetipici della Grande Madre Umbria, il solco nel quale far germogliare i rigogliosi semi dell’arte. Perché le leggendarie visioni che ne colorano il respiro terroso, non si disperdano nel bailamme del nuovo mondo che incede, assorbendo la memoria dei padri. La nostra memoria.

È su questa volontà che Strabismi Festival 2020 ha costruito la programmazione della VI edizione, affidando il palco del Teatro Thesorieri di Cannara ad artisti del territorio, che di questi luoghi narrano anima e leggende. Si inizia il 6 ottobre, con Maria Anna Stella in scena con Terrae Motus/Motus Animae, un’antologia di confessioni raccolte sul campo, rielaborate in uno spettacolo intimo e profondo sui risvolti psicologici della comunità nursina interessata dal terremoto del 2016.

Terrae Motus/Motus Animae – Maria Anna Stella

Terrae Motus/Motus Animae si origina da testimonianze audio/video raccolte a seguito del terremoto che ha interessato il territorio nursino nel 2016. Come hai lavorato sul materiale raccolto rispetto all’elaborazione drammaturgica, riuscendo a tenere fede alla profondità di un racconto tanto doloroso come quello che ti è stato affidato dalla comunità?

Maria Anna Stella: Il lavoro radiofonico Ora – Un anno col terremoto, andato in onda nel 2017 per Rai Radio Tre, è stata la prima occasione per conoscere nel profondo la terra dove sono nata, Norcia e le sue voci. Avevo appena vissuto il terremoto e assieme al mio amico Jonathan Zenti, con il quale avevamo già realizzato degli audiodocumentari, cominciai un lavoro sul campo, di ascolto, selezione e ricerca di ciò che stava accadendo a me e agli altri, dentro e fuori.

Le voci, i racconti, “le confessioni” come le ha giustamente chiamate il mio maestro Roberto Ruggieri del Centro Universitario Teatrale di Perugia, che ha curato la drammaturgia di Terrae Motus, sono emerse dopo un lungo lavoro di indagine che non ho mai più interrotto da quel momento. Dal 2017, infatti, parallelamente alle interviste che conducevo, ho elaborato e sviluppato il materiale raccolto con la necessità di restituirlo prima di tutto al territorio e alle persone. Le “confessioni” nascono da ore di ascolto reciproco, da un tempo che io e gli altri dedicavamo ai pensieri che tormentavano e ingombravano la nostra mente.

In Terrae Motus/Motus Animae sei corpo e voce delle “sismicità interiori” di un’intera comunità, di vivi e di morti. Qual è lo scopo di questo processo artistico e quanto il potere catartico del teatro può ancora essere utile alla costituzione di una memoria storica che si faccia elemento catalizzatore di una rinascita comunitaria?

MAS: Ho riflettuto molto sul senso di fare teatro per ricostruirsi dentro, insieme alla comunità. Che ruolo aveva il teatro in un momento particolare come quello che stavo vivendo? Ho pensato che fosse necessario un teatro che va dalle persone,  che le rende protagoniste del loro processo di cambiamento personale e collettivo, mettendone in risalto gli aspetti innovativi, propulsivi, reconditi che quella scossa aveva generato. Ecco, forse Terrae Motus è un esperienza che mi ha permesso di esorcizzare il dolore e trasformarlo in qualcos’altro.  Non è un lavoro sul terremoto del 2016, ma un viaggio attraverso i terremoti dell’anima.

In C’era una volta in Umbria, di e con Silvio Impegnoso, in anteprima a Strabismi Festival il 7 ottobre, protagonista è la leggenda folignate del Dottor Cavadenti. Un anarchico genio degli affari che da Foligno, “Lu centru de lu munno”, con mirabili visioni ci trasporta nel lontano Giappone creando un’inaspettata connessione tra antichissime tradizioni.

C’era una volta in Umbria – Silvio Impegnoso

C’era una volta in Umbria parte dalla ricostruzione filologica delle vicende che hanno interessato negli anni addietro alcuni abitanti di Foligno, in particolar modo quelle anarchiche e rocambolesche del Dottor Cavadenti. Nonostante il metodo di tessitura della drammaturgia parta dalla raccolta di testimonianze dirette, il risultato non vuole essere la creazione di una storia, bensì di una mitologia. Quand’è che la storia diventa leggenda e come questo racconto si fa eco della storia dell’intera Umbria?

Silvio Impegnoso: Fin da bambino sono entrato in contatto con storie che riguardavano la città di Foligno, nel periodo che va dal dopoguerra agli anni Novanta. Tutte venivano presentate come rigorosamente vere, e non mi è mai interessato scoprire se lo fossero o se mescolassero verità e menzogna in proporzioni variabili. Mi avvinceva piuttosto l’affresco coloratissimo che, complessivamente, andavano a dipingere. Ci sono entrato in contatto tramite gli amici di famiglia, i vicini di casa, i veri protagonisti di queste storie, andando a creare una sorta di “campionario di personaggi leggendari locali”.

Alcuni di questi personaggi ricorrevano spesso nei racconti dei folignati, ma solo due elementi sembravano essere onnipresenti: un luogo e una persona. Il luogo è il Caffè Sassovivo, storico bar del centro dove si ritrovava la bohème e in cui, al centro di un tavolo da biliardo, era custodito il piccolo birillo rosso considerato da tutti i folignati il centro dell’universo conosciuto e per il quale la città conserva ancora il suo soprannome: “Lu centru de lu munnu”.

La persona invece, era il Dottor Cavadenti, personaggio liberamente ispirato a un genio degli affari e dell’azzardo realmente vissuto a Foligno. Quando ho iniziato a scrivere C’era una volta in Umbria avevo bisogno di una chiave per entrare in quel mondo così variopinto di racconti e di una bussola per non perdermici. Cavadenti è stato quella bussola e quella chiave. 

Ho iniziato a raccogliere le testimonianze e, nello scoprire la sua parabola affaristica e umana, il termine mitologia è iniziato a sembrarmi sempre più appropriato. Non si tratta solo del destino individuale di un uomo, ma di una figura profondamente radicata nell’immaginario e nello spirito della città. Questa parabola non appartiene solo al territorio folignate, in tutta l’Umbria si trovano storie di mecenati, cultori delle lettere e delle belle arti.

Non mi sembra un caso: molta della nostra cultura locale ha le sue radici nel monachesimo e nei movimenti spirituali del medioevo. I monaci, in particolare quelli benedettini, sono stati i primi uomini di lettere a dedicarsi attivamente all’agricoltura e all’architettura, rifiutando un ideale unicamente contemplativo di vita spirituale e orientandosi verso una sorta di “filosofia pratica”, con l’obiettivo di migliorare il territorio in cui vivevano.

Il paesaggio umbro in cui si disloca la storia è rappresentato da un puzzle/mosaico che richiama la pittura giapponese. Un immaginario, quello nipponico, che si mescola a quello umbro, trovando un riverbero nella costruzione scenografica, gestuale e performativa dello spettacolo. In che modo l’iconografia giapponese ha guidato il lavoro e dove risiede il punto di giuntura tra queste tradizioni così lontane?

SI: La prima fase di scrittura di questo lavoro è stata una vera e propria indagine: ogni persona con cui parlavo apriva nuove piste da seguire. Il Giappone, con tutto il portato che ha per noi di ignoto e di incanto, è entrato nel lavoro proprio perché legato a doppio filo con la storia del Dottor Cavadenti. A un certo punto è saltata fuori una grande amicizia con un pittore giapponese trasferitosi in Italia. Con lui, Cavadenti decide di aprire un’associazione per la diffusione della cultura giapponese in Umbria senza alcuno scopo di lucro.

Nel contatto con il Giappone che deriva da questa amicizia, si rivela qualcosa di profondo della natura del Dottor Cavadenti: il suo più grande obiettivo non era la ricchezza economica ma l’incontro con la bellezza sconosciuta, con l’ignoto lontanissimo che riesce a riconoscere come simile e amico. Così, il Giappone è diventato in qualche modo l’”orizzonte poetico” di tutto il lavoro.

Da qui la scelta, maturata nel tempo insieme alla pittrice e artista Federica Terracina, di affiancare alla narrazione la costruzione in scena di un mosaico che si rivela essere un paesaggio umbro disegnato con uno stile astratto che ricorda la pittura giapponese, unendo così idealmente i due mondi e creando uno sfondo a tutto il racconto che non è tanto un paesaggio realistico quanto un “paesaggio dell’anima”, sul quale si stagliano le varie figure della storia, principali e non.

Inoltre, il contatto col Giappone riverbera anche in un momento di danza che richiama varie figure dell’iconografia giapponese, da Hokusai fino a Super Mario e Dragon Ball, oltre che nella scelta musicale. All’interno dello spettacolo, il Giappone assume un ulteriore significato: intitolare un lavoro “C’era una volta qualcosa” significa anche inserirlo all’interno di una tradizione cinematografica, quella che va da C’era una volta in America e Giù la testa (il cui titolo originale era C’era una volta la rivoluzione), a C’era una volta a Hollywood.

Tutti questi film hanno in comune il fatto di raccontare la storia di un’amicizia virile che cresce e si consolida, mentre il mondo in cui è nata sta giungendo al declino. Nel caso di C’era una volta in Umbria si tratta del micro-mondo della Foligno del dopoguerra e degli anni ‘70 ma la dinamica è simile.

La coppia di amici storica e inossidabile è rappresentata da Cavadenti e Slender, suo amico d’infanzia e compagno di scorribande per tutta la vita, sorta di “ronin” del Partito Comunista che al momento del declino di quest’ultimo si ritrova senza una causa per cui combattere. Yomi, e quindi il Giappone, rappresentano l’elemento altro, l’imprevisto che fa prendere una piega diversa alla vicenda e che ne offre al tempo stesso una chiave di lettura.

L’11 ottobre, a concludere il focus Umbria e a chiudere l’edizione 2020 di Strabismi Festival, lo spettacolo Gianni, di Caroline Baglioni e Michelangelo Bellani. Il ritrovamento di cassette contenenti le registrazioni della voce dello zio di Caroline Baglioni, si fanno, in questo monologo, schegge di memoria da cui si dipana l’universale sofferenza dell’uomo.

Umbria
Gianni – Baglioni/Bellani

Qual è stato il percorso di costruzione drammaturgica e scenica avviatosi con l’ascolto delle tracce audio registrate da Gianni? 

Caroline Baglioni: Le tre audiocassette incise da Gianni alla metà degli anni ‘80 contengono, una “materia” drammaturgica potente. Si entra in contatto con l’intimità di una persona realmente vissuta, il suo disagio, l’isolamento, una voglia smisurata di vivere e comunicare al mondo un profondo desiderio di ascolto.

Ma c’è anche molto altro: la voce di Gianni, le sue lucide analisi, la sua autoironia, la musica che ascolta, i libri che legge, i commenti sulle situazioni di vita o le critiche dei film, ci fanno sentire il respiro di un’epoca e i contrasti di un’intera generazione. L’epoca è quella dei favolosi anni ’80 ovvero la splendida  promessa di un gigantesco spettacolo che durerà per sempre. I contrasti sono quelli dell’individuo che non riesce ad aderire ai modelli dominanti del paese dei balocchi, al successo imposto dagli eroi della carta patinata e del telecomando.     

Michelangelo Bellani: Quando hai la grazia di trovare una storia di questa forza e intensità, non è facile immaginare il modo di “tradurla” senza farle violenza. Il percorso drammaturgico, infatti, non è stato così immediato come la certezza che quella di Gianni sarebbe stata una grande avventura teatrale. Dovevamo infrangere un certo numero di Tabù. Primo fra tutti quello che la voce di Gianni non poteva essere violata. All’inizio, infatti, per noi si trattava soltanto di darle una cornice e lasciarla all’ascolto.

Ben presto però ci siamo resi conto che nessuna cornice, per quanto suggestiva e rifinita, poteva frapporsi alla sua intraducibile autenticità. Per cui abbiamo deciso di, letteralmente, dargli corpo e fare in modo che Caroline non raccontasse la storia di Gianni come accadrebbe in una classica narrazione, ma che incarnasse direttamente la voce di Gianni. Abbiamo quindi cercato di reinventare lo spazio classico del monologo permettendo a Caroline di far vivere le parole di Gianni, con tutte le imperfezioni presenti nelle incisioni, gli intercalari, il dialetto, i colpi di tosse, le infinite sigarette fumate.

Gianni è racconto biografico della fragilità umana che, in scena, si fa universale. Qual è il trait d’union tra l’interiorità di Gianni e il mondo fuori che troppo a lungo non ha saputo ascoltarlo ma che, oggi, si riconosce in lui?

CB: Quando si racconta una storia così intima e personale il rischio è sempre altissimo. Poiché l’intensità che si avverte in vicinanza, non è detto che rispecchi integralmente chi quella storia la riceve da estraneo. Ma come accennavamo sopra, Gianni non riflette solo il sé di un disagio personale, racconta qualcosa di ancora aperto e irrisolto da un punto di vista esistenziale. Quelli che ci pone sono interrogativi fondamentali in cui, almeno una volta nella vita, tutti ci siamo finiti dentro.

Non si tratta dell’esito tragico della vita di Gianni, ma di quel bisogno di umanità che spesso ci costringe a giudicare la profondità dei nostri sentimenti, delle nostre scelte, o semplicemente un leale confronto con i nostri desideri. Per questo, Gianni riesce a parlare ancora a molti di noi. Il suo dolore che è il dolore dei tanti emarginati, esclusi delle nostre iper-società, ci parla anche di una follia collettiva sulla quale spesso non troviamo il tempo di soffermarci abbastanza. 

Cosa vorremmo davvero di tutto quanto accade nelle nostre giornate? C’è una solitudine che non riguarda solo i depressi, i malati di mente, ma si annida nelle nostre case, nelle nostre cose, negli oggetti che compriamo e in cui spesso ci nascondiamo. Sta nel modo in cui creiamo il mondo. 

Una tremenda vigliaccheria. Recensione del libro Andrea, mio figlio di Alfonso Russi

Una tremenda vigliaccheria. Recensione del libro Andrea, mio figlio di Alfonso Russi

Articolo a cura di Luca Schiavoni, prodotto in collaborazione con l’osservatorio Dodici/Decimi, progetto di Audience Development proposto da Strabismi Festival

Non immaginavo che in questi tiepidi giorni di fine estate avrei incontrato una storia come questa. Mi ritengo molto fortunato a essere lontano dalle dinamiche di ricatto e paura che uomini come Andrea devono affrontare.

Nella mia vita però mi sono trovato tantissime volte di fronte a ingiustizie di ogni genere. Mentre si cammina per strada se ne possono incontrare tante; da una madre che ingiustamente sgrida il figlio solo perché rivendica l’essere nato libero e vivace; un ragazzo che in un momento di debolezza cede alla più facile violenza con la sua compagna; gente che per le più svariate ragioni è frustrata e si sfoga con vicini innocenti.

Davanti a queste scene quali emozioni ho provato? Cosa mi ha spinto a non fare nulla?

Forse una tremenda vigliaccheria.

Leggendo la storia di Andrea mi sono sentito così: un inutile vigliacco.
Una densa rabbia si è fatta strada in me mentre sfogliavo le pagine di questa storia. Rabbia nei miei confronti per non essere stato abbastanza coraggioso con le piccole ingiustizie di cui sono stato testimone.
Non ho idea di come avrei reagito al posto suo; ma io, davanti le piccole ingiustizie che quotidianamente ho davanti, perché non faccio nulla? Che scusa ho?

La brillante narrazione di Alfonso Russi mi ha fatto immedesimare nel mondo ingiusto a cui Andrea ha detto basta. Ho sentito anch’io quel peso opprimente sulla bocca dello stomaco. Ho stretto anche io i pugni per essermi sentito impotente.

Ci vuole un coraggio sovrannaturale per ribellarsi ad un’organizzazione criminale che sembra controllare non solo tutti i punti nevralgici dell’economia di Sant’Andrea dello Ionio, ma anche e soprattutto le menti dei suoi abitanti. Ci vuole una resistenza interiore da eroe mitologico per farsi carico di tutto ciò che viene dopo una deposizione. Raccontare la verità è come illuminare le ombre di chi pretende per il solo fatto di usare la forza bruta e l’intimidazione.

È come se la sua forza e determinazione a denunciare avessero creato un’onda d’urto. Adesso mi lascio trasportare con piacere e inizierò a moltiplicare dentro di me quel coraggio nella speranza di trasmetterlo a mia volta. Un’ingiustizia è un’ingiustizia, grande o piccola che sia. Dopo questa storia non posso che fare ammenda e promettere a me stesso di non restare indifferente.


Nel momento in cui si ignora il Male se ne diventa complici.

Quale “atto d’amore a casaccio” dedicheresti al teatro? Intervista ad Alessandro Sesti direttore artistico di Strabismi Festival

Quale “atto d’amore a casaccio” dedicheresti al teatro? Intervista ad Alessandro Sesti direttore artistico di Strabismi Festival

Strabismi
Ph Stefano Preda

Atti d’amore a casaccio, titola così la VI edizione di Strabismi Festival che si terrà dal 4 all’11 ottobre a Cannara (PG). Una rassegna dedicata al teatro e alla danza che punta sulla territorialità e sul supporto alle artiste e agli artisti umbri, con uno sguardo attento alla scena teatrale Under 30. Un atto d’amore a casaccio è dislocare i processi culturali, permettendo all’arte di invadere quei luoghi che troppo spesso sono tenuti fuori dai circuiti ufficiali. Un atto d’amore a casaccio è dare al pubblico il teatro che merita. 

Strabismi 2020 si apre da quest’anno a una collaborazione con i giovani spettatori che compongono il gruppo dei Dodici/Decimi. Con loro, in vista della costituzione di una futura direzione partecipata, sono state effettuate le selezioni per Esotropia, la vetrina dedicata a giovani talenti che mostreranno gli esiti della propria ricerca sul palco del Teatro Thesorieri di Cannara. Il 6 ottobre, presso la Cantina Di Filippo, si terrà il secondo Meeting Nazionale del Network Risonanze!, specchio della volontà di Strabismi di unirsi alla rete di tutela del teatro Under 30. 

Il direttore artistico Alessandro Sesti, racconta Strabismi Festival 2020, approfondendo intenti e programmazione di un’edizione che porterà in scena la grande madre Umbria.

Ripartenza e sostegno agli artisti locali sono i due temi chiave della VI edizione di Strabismi  Festival 2020. In che modo verrà portato avanti questo focus all’interno della  programmazione?  

Alessandro Sesti: Parlare di ripartenza è forse azzardato, posso parlare sicuramente di segnali. Il nostro  obiettivo è riuscire a dare un segnale di speranza: non c’è niente di mistico in  quest’affermazione, voglio dire che intendiamo dimostrare che, nonostante tutte le difficoltà  concernenti l’emergenza sanitaria, le cose si possono fare e pure bene. Inoltre, anche  far capire che si può porre il focus sugli artisti umbri, non solo a parole, ma anche con i fatti. Indubbiamente negli ultimi anni si è venuta a creare una scena teatrale umbra di qualità e credo sia doveroso fungere da vetrina per questi artisti che altrimenti trovano appoggio e attenzione solo fuori regione. 

Atti d’amore a casaccio è il titolo dell’edizione di quest’anno. Di quali “atti d’amore” necessita  per te il teatro?  

AS: Un bell’atto d’amore potrebbe essere porre nuovamente al centro gli artisti. Ho come l’impressione che ormai si faccia solo un gran parlare di numeri, concorsi, premi, riconoscimenti  e poco dell’arte in sé. Allo stesso modo, il più grande atto d’amore potrebbe essere svecchiare finalmente le modalità fino ad ora tenute in piedi, tutte quelle meccaniche che fanno passare il teatro in secondo piano.

Mi riferisco alla grande incapacità di riferirci all’altro con rispetto: basta poco, ad esempio rispondere a una mail con la stessa dignità ed educazione sia che si tratti di una compagnia emergente, sia di un artista con trent’anni di carriera. Occorre riconoscerlo, senza la cura di oggi, non avremo nessuno cui rispondere con garbo in futuro. Eppure il panorama politico, sociale questa cosa ce la ricorda ogni giorno, ma noi come sempre, più ciechi fra i ciechi, non facciamo altro che guardare altrove.

Avremmo bisogno di un atto d’amore da parte degli operatori, che smettessero di pensare all’altro come concorrenza, cogliendo anzi quel messaggio che gli imprenditori sanno leggere già ai primi giorni di carriera: più offerta c’è, più saremo attraenti e sexy anche per gli spettatori. E allora, collaboriamo, sempre di più, costruiamo stagioni incrociate, sosteniamo insieme gli artisti e facciamoli circuitare nelle nostre zone, facciamoli conoscere nei nostri territori e facciamo diventare i nostri colleghi dei punti di forza, degli spunti. È possibile, ne sono certo.  

Facciamo un atto d’amore verso noi stessi: smettiamo di cercare di apparire, non chiamiamo più, non invitiamo più nessuno di quelli che vogliono sentirsi “invitati”. La bellezza è qua e, se vuoi, puoi goderne insieme agli altri. Dovremmo ripartire da un atto d’amore nei confronti degli attori, riconoscerli e tutelarli nel pieno rispetto del loro lavoro, ma facendolo per davvero e non scrivendolo e basta perché siamo bravi tutti a sentirci Che Guevara in assemblee e zoom call, per poi continuare ad applicare le medesime nocive dinamiche di sempre.  

Il vero atto d’amore però, maximo oserei dire, è quello verso lo spettatore. Iniziamo a parlare  a chi vuole ascoltarci. Non essere ascoltati è il primo trauma che viviamo da bambini, è qualcosa che ci spaventa da sempre. Quando qualcuno viene a vederci a teatro dovrebbe, prima di tutto, sentir ascoltato il proprio cuore, la propria anima, così, come per magia, che è quella che noi artisti dovremmo essere in grado di creare. Allora, mi chiedo, perché ancora oggi dobbiamo vedere sostenuto ciò che ci fa sentire inascoltati? Che ci fa uscire dal teatro, confusi, incompresi? Dobbiamo amare il pubblico e non tradirlo, proprio come faremmo con la nostra anima gemella.

Strabismi
Alessandro Sesti – Ph Stefano Preda

Quest’anno Strabismi Festival 2020 ospiterà il secondo Meeting Nazionale di Risonanze  Network. Che significato ha per voi supportare questo progetto di tutela e diffusione del  teatro under 30?

AS: Tutto è nato in maniera naturale. Eravamo al primo Meeting a Roma all’interno di Dominio Pubblico, realtà con cui collaboriamo già da due anni e, al termine della giornata, feci una proposta a Tiziano Panici, capofila del progetto. Se c’è un talento incredibile che Tiziano ha è quello di saper mettere in connessione le realtà artistiche. Da lì un anno di lavoro messo in difficoltà dal Covid. Ci siamo detti di non rinunciare, anzi di rilanciare e aprire a nuove realtà nazionali, valutando insieme una nuova progettualità. Personalmente credo sia  fondamentale dare ascolto e possibilità alle realtà Under 30 in quanto rappresentano il futuro.

Posso riassumere tutto con un semplice ragionamento: se oggi si investe solo sui nomi affermati, come potremo avere dei nomi affermati domani? Ci tengo a sottolineare che per “affermato” intendo semplicemente artisti che hanno avuto modo di approfondire la loro ricerca, di calcare centinaia di palcoscenici e poter definire un proprio percorso, un’idea teatrale chiara. Quindi ospitare il secondo meeting di Risonanze Network ci onora. Poi lo realizzeremo nella  Cantina Di Filippo che rimette in armonia le anime con l’universo.  

Esotropia è la vetrina dedicata a 6 compagnie under 30 che, dall’8 al 10 ottobre, porteranno in  scena i propri spettacoli. Le selezioni per Esotropia hanno visto la partecipazione dei Dodici/ Decimi, progetto di formazione del pubblico Under 30. Qual è l’obiettivo di questo incontro  tra giovani artisti e giovani spettatori?  

AS: Il progetto Dodici/Decimi nasce ispirandosi al lavoro che da anni Dominio Pubblico fa con i ragazzi Under 25. Chiaramente qui non siamo in una capitale, ma devo dire che la risposta è stata eccezionale per essere solo il primo anno. Il nostro obiettivo è quello di creare una direzione artistica giovane all’interno del Festival: come primo tentativo, hanno scelto uno spettacolo tra i sei selezionati, ma  dall’anno prossimo vogliamo incrementare sempre più, fino a far sì che Esotropia diventi una sezione interamente a cura dei Dodici/Decimi.

Sicuramente io e Silvio Impegnoso, da quest’anno co-direttore artistico del Festival, saremo sempre presenti come sponde e stimoli allo spirito critico, ma vogliamo che Strabismi sia anche figlio loro. Ci tengo a sottolineare che non era scontata una risposta così numerosa e soprattutto da ragazzi così  talentuosi e interessati al mondo dell’arte. Siamo fortunati, non c’è che dire. 

Oltre agli spettacoli, anche i dopofestival sono per lo più affidati a musicisti umbri. In questa intervista Puscibaua e Uppello Greasy Kingdom, che allieteranno le serate di Strabismi 2020, approfondiscono il proprio progetto musicale e il legame con la propria terra.

Il settore delle performing arts ha subito una pesante battuta d’arresto a seguito della diffusione  della pandemia. Una situazione che ha privato il teatro, così come la musica di un elemento  distintivo dell’atto performativo: la dimensione live. In che modo il rinnovato incontro con il  pubblico ha influito sulla vostra produzione musicale?  

Puscibaua: Per quello che mi riguarda, la pandemia sta ancora incidendo in modo molto  pesante sulla possibilità, specie per gli artisti emergenti, di esibirsi dal vivo. Le realtà che  propongono musica live, sempre più sofferenti già in epoca pre-Covid, hanno ricevuto il colpo di  grazia. Non si contano più, ad esempio, i locali che si sono trovati costretti a chiudere i battenti  negli ultimi anni, per motivi diversi ma spesso riconducibili a problematiche economiche,  burocratiche e culturali. Basti pensare alle realtà più piccole, per le quali, dovendo più che  dimezzare il numero massimo di spettatori, non è più sostenibile proporre eventi e provvedere al  pagamento dei musicisti, dei permessi SIAE, ecc. 

Uppello i Greasy Kingdom: Suonare di nuovo dal vivo dopo il lockdown ci ha permesso di pagare le spese di registrazione del nostro album e quindi ha influito non poco a livello  di produzione musicale. Per quanto riguarda invece la scrittura di nuovo materiale il lockdown, è stato un periodo molto creativo e stimolante seppur bislacco. Ancora non è chiaro quale sarà il futuro della dimensione live ma di sicuro non sarà facile farsi strada tra una quantità di tournée, concerti e festival annullati che probabilmente penalizzerà le varie realtà underground.

Oltre che per il valore artistico dei progetti musicali che proponete, la scelta di coinvolgervi in questo Festival è dipesa anche dalla volontà di puntare sulla territorialità, riservando grande spazio  ad artisti umbri. In che misura la vostra musica è connotata dal legame con l’Umbria?  

Puscibaua: L’Umbria è un micromondo, una sorta di isola al di fuori del (nostro) tempo. La sua natura, i suoi colori e le sue particolarità invitano alla riflessione e alla ricerca di verità più  profonde, se si è disposti a guardare e ad ascoltare con pazienza.  

Uppello i Greasy Kingdom: Ormai il connubio Greasy Kingdom – Strabismi è un must; vuoi per amicizia e rispetto artistico reciproco ma è un legame che si fa di anno in anno sempre più saldo. Le nostre canzoni sono nate in Umbria e, anche se l’album è stato registrato a Roma, l’atmosfera che lega tutti e 9 i brani del disco è permeata della nostra terra. Ancora bisogna trovare un nome all’album e chissà che venga fuori qualcosa di umbro.

“Atti d’amore a casaccio”: la VI° edizione di Strabismi Festival 2020

“Atti d’amore a casaccio”: la VI° edizione di Strabismi Festival 2020

Strabismi

“Atti d’amore a casaccio” è il titolo della VI° edizione di Strabismi Festival 2020, che si terrà a Cannara (PG) dal 4 all’11 Ottobre, con il patrocinio del Comune di Cannara e della Regione Umbria. Un titolo che trae ispirazione dalla celebre frase di Anne Herbert «Praticate gentilezza a casaccio e atti d’amore privi di senso», rifacendosi al significato che la stessa autrice attribuiva a quello che poi diventerà uno degli aforismi più famosi al mondo: la gentilezza può divenire contagiosa e generarne di nuova, esattamente come l’odio genera altro odio. 

Nel nuovo mondo che la pandemia ci ha costretto ad abitare – spiega Alessandro Sesti, direttore artistico del festival – non poteva che essere questo il nostro slogan: vogliamo che a diventare contagiosa sia la bellezza, non la paura. Come tutte le manifestazioni italiane, anche Strabismi Festival 2020 sta procedendo lentamente e nel pieno rispetto delle norme sanitarie ma, con pazienza, sta raggiungendo l’obiettivo prefissato. 

Durante lo stop forzato, si è fatto un gran parlare di ripartenza e di sostegno agli artisti locali. Per l’edizione di quest’anno, abbiamo sentito l’esigenza di occuparci di tali temi – prosegue Sesti – nella speranza che anche le strutture più consolidate prestino ascolto agli artisti del territorio, nel tentativo di dare vita a una vera ripartenza. Il programma, infatti, affida quasi interamente ad artiste e artisti umbri il racconto dell’unica “isola senza mare” d’Italia. Fanno eccezione Leviedelfool che inaugureranno il festival domenica 4 Ottobre con Requiem for Pinocchio, in scena alle ore 21:00 presso il Teatro Thesorieri di Cannara, ed Esotropia, la vetrina dedicata ad artisti under 30, cuore pulsante di Strabismi2020.

Il 6 Ottobre alle ore 21:30, ancora al Teatro Thesorieri di Cannara, in Terrae Motus, Motus Animae Maria Anna Stella racconterà gli effetti che il terremoto ha avuto sulla comunità nursina e non solo, delineando un’antologia di confessioni scaturita da materiali audio e video raccolti sul territorio tra il 2016 e il 2017, all’indomani del sisma. Inoltre, nella stessa giornata, si segnala il secondo Meeting Nazionale di Risonanze Network! progetto ideato da Dominio Pubblico, Direction Under 30 e Festival 20 30, per la diffusione e la tutela del teatro under 30, ospitato da Cantina Di Filippo, storico partner di Strabismi Festival. 

Il 7 Ottobre, il Teatro Thesorieri di Cannara ospiterà la presentazione di due anteprime nazionali: C’era una volta in Umbria, di e con Silvio Impegnoso, spettacolo ispirato alla storia della leggenda folignate Dottor Cavadenti. Attraverso la vita di quest’uomo, al confine tra reale e irreale, Impegnoso racconta quel periodo in cui in Italia «gli affari si chiudevano con una stretta di mano» e non era assurdo credere che un piccolo birillo rosso, posto nello storico Caffè Sassovivo, potesse indicare «Lu centru de lu munnu»; anteprima anche per Luca 4,24 di Sesti/Maiotti/Renzi che racconta la storia del più giovane testimone di giustizia d’Italia, Luca Arena, l’uomo che ha scoperchiato il terribile mercato delle ambulanze della morte nel Catanese. Un monologo diretto da Debora Renzi, accompagnato da Mattia Maiotti che, attraverso la danza, arriva dove le parole non possono per raccontare la solitudine di un eroe dei nostri giorni. 

L’11 Ottobre chiuderà il festival Gianni, della compagnia Bellani/Baglioni, spettacolo vincitore del Premio Scenario 2015, Inbox 2016 e Museo Cervi 2017. Ispirato alla voce di Gianni Pampanini, zio dell’attrice Caroline Baglioni, Gianni racconta, con parole ritrovate in vecchi nastri, il disagio di chi non trova posto nella società, di chi non riesce a raccontare ciò che sente e affoga nel fumo i suoi pensieri. 

Dall’8 al 10 Ottobre,  le porte del Teatro Thesorieri di Cannara si aprono a Esotropia, cuore di Strabismi Festival 2020, la vetrina dedicata a 6 compagnie under 30 che mostreranno i loro spettacoli ancora in costruzione. Un momento importante, rivolto all’incontro e alla crescita. Quest’anno, le selezioni delle compagnie, scelte tra oltre cento candidature attraverso incontri online, hanno visto la presenza dei Dodici/Decimi, il progetto di formazione del pubblico Under30, che nel tempo diverrà una vera e propria direzione artistica partecipata.

Si esibiranno ORTIKA/I Pesci con La Foresta, Manzoni/Paolini in Tartar, Alessandro Blasioli con L’avvocato di Matteotti, Irene Ferrara/Trio Tsaba in Marea, Associazione Oltre con IFakel’obsolescenza dell’odio e infine Gli insoliti con Amunì, giochiamo!.

Al termine degli spettacoli in programma, la musica allieterà i dopofestival, anch’essi affidati a gruppi e cantautori umbri: Puscibaua cantautore montefalchese, Federico Pedini chitarrista e compositore perugino e da Uppello i Greasy Kingdom

I giorni di Esotropia sono per noi il momento più importante, in quanto rappresentano ciò per cui abbiamo dato vita a questo festival: creare un’occasione di incontro e dialogo eludendo la competizione innescata dalla vittoria di un premio premio, per gettare solide basi per ascoltare e tessere nuovi rapporti. Questo è Strabismi, questo siamo noi.


L’appuntamento è dunque per domenica 4 Ottobre alle ore 17:00, presso il Museo della Città di Cannara, con l’inaugurazione della mostra WHO AM I? di Valeria Pierini, che darà ufficialmente il via alla VI° Edizione di Strabismi Festival.