Presso l’Auditorium di Spin Time Labsdi Roma, all’interno della programmazione artistica organizzata dal collettivo di Spin OFF,va in scena il 2 e il 3 Marzo Nessuno può tenere Baby in un angolo.
Secondo progetto della compagnia Amendola/Malorni, dopo il grande successo de L’uomo nel diluvio, lo spettacolo – come scrive Anna Barenghi di Rai Cultura – è uno di quei gialli in cui non è tanto importante trovare il colpevole, ma farci respirare l’odore della benzina, il buio di una stazione, l’emozione di poche battute scambiate con una cliente; una storia d’amore tutta in potenza, spenta prima di nascere.
L’autore Simone Amendola risponde ad alcune domande in merito alla creazione dello spettacolo e al relativo percorso produttivo al TAN di Napoli e a Carrozzerie N.O.T, e ai felici esiti scenici ottenuti in diverse oasi teatrali quali Attraversamenti Multipli, Short Theatre, Kilowatt e Todi Festival.
Un giallo. La colpa della normalità, non solo la ricerca dell’assassino.
Alla cronaca arrivano i fatti, ma la verità è sempre più complessa.
Gli indizi stringono su un solo uomo: uno che poteva fare tante cose e fa il benzinaio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Genesi creativa di Nessuno può tenere Baby in un angolo
Avevo letto un trafiletto di cronaca in cui scrivevano del ritrovamento di un corpo di una donna senza testa in una pompa di benzina sulla via Casilina di Roma. Questa notizia mi è rimasta in testa fluttuando, una cosa molto forte che mi ha segnato. Successivamente un attore mi ha chiesto un testo per una nuova produzione. Così un giorno senza pensarci troppo ho iniziato a scrivere questa storia. Ho immaginato la storia di un uomo che prima viveva una vita normale, a cui, poi, rovinano la vita incolpandolo di un omicidio brutale. Un uomo a cui, forse, danno anche la possibilità di guardarsi più a fondo.
Di base avevo un forte interesse personale nello scrivere questa storia in un periodo in cui mi ero avvicinato alla psicoterapia per migliorare il mio modo di stare al mondo e anche di amare. Quindi in qualche maniera quella è diventata una storia paradigmatica, non soltanto nella ricerca di un assassino ma per vedere come alla fine un uomo sta al mondo, come si rapporta con le donne o come le esperienze vissute all’apice della passione in adolescenza riescano a continuare a essere vive. Volevo provare a vedere in profondità attraverso il racconto di una storia, non attraverso delle riflessioni filosofiche.
Essendo il testo composto da tre atti, nel primo passaggio produttivo abbiamo messo in scena il I atto al festival Attraversamenti Multipli dove ci hanno invitato. Questo è stato un buon modo per costruire insieme a Valerio Malorni un nuovo immaginario rispetto all’idea precedente attraverso la creazione di una relazione coll’oggi e lavorando molto sul personaggio. Dopo ci sono state queste due residenze: prima a Napoli al Tan e a Start/Interno 5 e poi a Roma a Carrozzerie N.O.T.
Lo spettacolo è cresciuto piano, e poi, come succede spesso, continua a crescere. Abbiamo fatto un’anteprima a Short Theatre che aveva dei punti tematici messi a fuoco ma che durava 95′ minuti. Invece lo spettacolo di oggi si è ridotto. Nelle ultime repliche, Nessuno può tenere Baby in un angolo durava venti minuti di meno.
L’immagine ideale di toccare il fondo chiaramente è molto più a fuoco perché diventa una freccia non nei termini di velocità ma di intensità. Per quanto riguarda l’allestimento, molte delle idee sono venute stando nelle residenze. Come nel caso del I atto dello spettacolo, dove il protagonista sta su una sedia gigante, fuori misura rispetto a Malorni. A partire dalla relazione con questo elemento scenico, Valerio, nel tempo, ha preso sempre più confidenza col personaggio fino rendere labile il confine fra l’attore e il personaggio.
Era una sensazione che già avevamo, ma soltanto stare in un posto che ha un magazzino pieno di roba, ci ha fatto trovare ciò che cercavamo, inducendoci a fare le prove utilizzando una sedia molto grande: in effetti era l’oggetto scenico che rappresentava la nuova condizione in cui si trova il protagonista. Una persona normale in una situazione più grande di sé che lo costringerà a portarsi fino alla tomba il peso di un’accusa di omicidio.
Nessuno può tenere Baby in un angolo
Il lavoro registico e attoriale con Valerio Malorni
Valerio Malorni è cresciuto tanto dentro il personaggio portando molti elementi del teatro contemporaneo, attraverso il confronto con la storia reale di una persona che ha nome e cognome, studiando un modo di stare al mondo che attinge dalla realtà. In questo Malorni è riuscito a lavorare sul personaggio apportando tutta la sua qualità performativa, un lavoro attoriale che molti artisti, provenienti dalla scuola di prosa più classica e che sono abituati a lavorare con personaggi altri da sé, non riescono a fare. .
Questo testo è nato prima che l’attenzione mediatica sul femminicidio e sulla violenza delle donne si intensificasse. Nessuno può tenere Baby in un angolo nasce dall’esigenza di ragionare intorno a queste tematiche, andando anche a capire che uomo è colui che esercita la violenza sulle donne. Così, ne parliamo non attraverso la cronaca ma partendo dall’involuzione e anche dall’evoluzione spirituale di una persona.
Dal 2009 PartecipArte, compagnia di Teatro dell’Oppresso, lavora sul territorio nazionale e internazionale per promuovere attraverso le arti performative, con particolare attenzione al teatro, il cambiamento sociale e politico. La compagnia si avvale della competenza di Olivier Malcor, filosofo e artista, Claudia Signoretti, specialista delle convenzioni internazionali, Rosa Martino, psicologa e Lorenzo Macchi, specializzato nell’ambito della pedagogia e dell’istruzione.
Lo scorso 17 novembre, a SpinOff, centro abitativo e culturale di rilievo nella città di Roma, ha avuto luogo Forum Theater: l’immagine del cambiamento giornata di formazione promossa da PartecipArte e diretta da Hosni Almoukhlis, poeta e fondatore del Centro di Teatro dell’ Oppresso di Casablanca.
Teatro dell’Oppresso – PartecipArte
Il Metodo TdO
Il Teatro dell’Oppresso TdO è un metodo teatrale ispirato alla Pedagogia degli Oppressi di Paulo Freire, a cui il regista Augusto Boal attinge per sviluppare una forma radicale di attivismo artistico nel Brasile degli anni Sessanta del Novecento. Il Teatro dell’Oppresso ha come obiettivo l’identificazione e il superamento di situazioni di oppressione per mezzo dell’intelligentia collettiva. Le tecniche utilizzate (Teatro-Immagine, Teatro-Giornale, Teatro-Forum, Teatro-Invisibile, Teatro-Legislativo) nascono come risposta a una necessità obiettiva.
L’esperienza estetica costituisce il nesso tra la costruzione di mondi possibili e l’attuabilità di prospettive alternative e trasgressive nel contesto reale, attraverso azioni sociali concrete e continuative. Il teatro come metafora dell’esistenza si rifà al concetto di metaxis platonica, alla tensione tra una rete di polarità che struttura la condizione umana. Nello specifico della prassi scenica, consente la simultanea appartenenza a due autonome realtà al fine di sperimentare con efficacia la prova del cambiamento.
«Il desiderio permette l’utopia, la necessità esige strategia»
Nel 1973 in Perù, sulla spinta della proposta pedagogica di Paulo Freire, la necessità di alfabetizzare parte della popolazione del paese si concretizza nella proposta di un Programa de Alfabetizacao Integral – ALFIN. Il programma prevede il superamento della condizione di incomunicabilità attraverso forme e linguaggi espressivi che includono la pratica teatrale intesa come «espressione artistica che si costituisce e si dispiega in un fare politico». È in questo contesto che Augusto Boal inizia a sviluppare il Teatro-Immagine che, a partire dalla rappresentazione dell’immagine corporea, individuale e collettiva, indaga il senso e la funzione di micro azioni, verificandone l’efficacia comunicativa.
L’immagine assume una determinata forma-postura in relazione al vissuto esperienziale dell’individuo e si pone come veicolo di trasmissione di idee, emozioni, conflitti. Un linguaggio senza frontiere, condiviso dai componenti del gruppo e, simbolicamente, dalla società. Attraverso un lavoro di traduzione e decodifica, il Teatro-Immagine facilita la comunicazione creando un ponte tra il linguaggio corporeo e linguistico. Focalizza l’attenzione sulla componente corporea della struttura linguistica.
Teatro dell’Oppresso – PartecipArte
Creazione estetica dell’immagine
Il regista Hosni Almokhlis dirige l’ensamble di artisti e operatori culturali che hanno preso parte alla formazione, riportando subito l’attenzione sul valore pedagogico di giochi ed esercizi che sono la base della metodologia teatrale del TdO. I giochi consentono di instaurare un clima di fiducia e gioiosa collaborazione, coniugando disciplina e libertà. Il lavoro svolto in sala nega il principio di supremazia e subordinazione, si struttura in modo non gerarchico. A partire dalla consapevolezza di essere presenti a se stessi e agli altri, in un determinato luogo, per un fine specifico, ci muoviamo esplorando lo spazio. Il contatto visuale con l’altro determina l’occupazione di spazi altri, sincronizzando ritmicamente il movimento.
Il problema individuale di mantenersi in relazione costante con altre persone è suscettibile delle conseguenze di scelte altrui da cui siamo dinamicamente influenzati. Individuare il ritmo del gruppo è fondamentale per organizzare gli esercizi successivi che coinvolgeranno il corpo in relazione all’immagine corporea. Dalla parola significante, creo una postura-scultura esplicativa. Dall’immagine, riconosco e analizzo il significato. Il modo in cui introiettiamo e rappresentiamo un concetto, mette in luce meccanismi inibitori e stereotipi socialmente determinati che categorizzano la percezione.
A partire dalla tecnica del Teatro Immagine, Hosni Almoukhlis ha guidato l’equipe del TdO di Roma in direzione della creazione di un Teatro Forum. Nel forum, la rappresentazione scenica di un problema reale, con attori che vivono il problema stesso, mira alla ricerca di alternative per trasformare la realtà. Il processo trasformativo si attua nello spazio del dialogo tra partecipanti dell’evento teatrale. Lo scambio propositivo di visioni presuppone il superamento della quarta parete, un attraversamento di natura fisica e simbolica. Si scardina la convenzione teatrale che colloca attore e spettatore nel rispettivo ruolo di produttore e fruitore. Il dialogo diretto tra scena e platea è sollecitato dalla figura del Kuringa (facilitatore), il cui obiettivo è «stimolare la partecipazione impegnata per l’emancipazione».
La prova del cambiamento
Fondamentale è l’individuazione di un sistema di oppressione che a partire dalla percezione del conflitto da parte del singolo, si espande al macro contesto e alla macro struttura che lo determina. L’oppressione viene immaginata e collocata nella situazione sociale concreta di pertinenza, in cui solitamente ha luogo. Gli attori scelgono il personaggio con cui identificarsi, che agisce in quanto maschera (oppressore – oppresso/a – alleato dell’oppressore – alleato dell’oppresso/a – neutro) in riferimento al tema. L’elemento fisso della rappresentazione teatrale è “la maschera”, il ruolo che i vari personaggi assumono; l’elemento mobile è il personaggio stesso in relazione al contesto.
La tecnica dell’improvvisazione strutturata, che utilizza il proprio codice implicito in relazione al bagaglio esperienziale di ognuno, consente un’immediata restituzione dell’evento. Si agisce con chiarezza, l’ambiguità disincentiva una cosciente presa di posizione e ostacola la tempestività di un possibile intervento. Nella messa in scena, l’immagine iniziale proposta dagli artisti-spettatori è soggetta a modifiche da parte del pubblico-attore che interviene attivamente cambiando l’immagine per conformarla alla propria proposta alternativa.
Viene a crearsi, con il susseguirsi di riflessioni e interventi, un’immagine ideale che sarà l’immagine di riferimento per la trasformazione della realtà. I temi emersi nel corso della formazione (diritto all’abitazione, razzismo ed esclusione, violenza domestica, gerarchie di potere, cyber bullismo) sono stati analizzati e affrontati con rispetto dell’opinione altrui, con moderazione democratica e orizzontalità di sguardi. Come suggerisce Augusto Boal: «Nel trasformare le relazioni sociali e umane in una scena di teatro, ci si trasforma in un cittadino».
Dal sud del Marocco al Nord dell’Italia, l’accordo tra i cittadini del mondo è nel contatto visuale di una stretta di mano. Si fa teatro perché si crede nei valori fondamentali del diritto all’espressione e alla conoscenza. Etica e solidarietà, concetti fondanti e imprescindibili del metodo, realizzano l’integrazione valorizzando la differenza. Sono il fil rouge che ha permesso a una ventina di cittadini con provenienza, età, classe sociale e religione differenti, di incontrarsi e confrontarsi sulla responsabilità dell’agire in teatro e nella vita. Nonostante contesti culturali, storici e politici specifici, è stata tracciata una linea trasversale tra il teatro tradizionale del Marocco e il TdO del Brasile, che rende riconoscibili i principi comuni, pre-espressivi, propri dell’arte della rappresentazione.
Nata a Campobasso il 03/03/1994. Diplomata presso il Liceo Classico M. Pagano di Campobasso nel 2013. Si forma come danzatrice presso l’Accademia Arte Balletto e IALS (istituto addestramento lavoratori dello spettacolo). Dal 2018 segue le attività seminariali di A.E.P.C.I.S (Ass. Europ. Psicofisiologi Clinici per l’Integrazione Sociale ), dedicate all’arte dell’attore e del danzatore, a cura di Vezio Ruggieri. Laureata in Fondamenti di psicologia per l’arte, del corso di laurea in Arti e scienze dello spettacolo, della facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’Università di Roma Sapienza nel 2020. Frequenta attualmente il corso di Laurea Magistrale in Scritture e produzioni dello spettacolo e dei media, della facoltà di Lettere e Filosofia, presso l’ Università di Roma Sapienza.
È tutto pronto per “premere il pulsante” e dare ufficialmente inizio a Resistenze, un festival- evento in un’unica data. Il giorno dopo la festa nazionale della Liberazione dell’Italia, il 26 aprile. Un’unica parola il titolo, declinata al plurale. Segno dei tempi, di quelli che da sempre sono corsi e ricorsi storici. Significa forse che sono diventate tante le lotte, non più una sola. Ogni anno che passa diventa sempre più duro e difficile. Ecco allora che il contesto è quello in cui la deriva nazionale, europea, mondiale tende ad ingrossarsi, come il trend di un fenomeno sociale e di massa.
Spin time labs è lo spazio che ospiterà le attività e le persone coinvolte. In un circuito e in uno scambio di idee, u-topie ed espressioni artistiche. Una sede, quella di via Statilia a Roma, che vuole essere una realtà che “si sta trasformando in un luogo”. Vissuta, dalle persone coinvolte in questo progetto, come un laboratorio, un “cantiere di rigenerazione urbana”, una casa e una comunità. In palazzo occupato di cinque piani convivono 18 nazionalità diverse. Le abitazioni sono nei piani alti, mentre i livelli sotterranei vengono adibiti a dedicati a tutte le attività culturali. Molto è quello che viene fatto da un gruppo di sognatori che sentono ancora la necessità, l’urgenza e l’orgoglio di definirsi così.
Un collettivo di 25 persone circa, quello di Spin Off. Un nucleo efficiente e cooperativo, costituito da generazioni ed età differenti, dai 20 anni in su. L’auditorium di 180 posti è diventato un teatro, con un cartellone di spettacoli che è iniziato il 17 febbraio e proseguirà fino a giugno. L’intenzione che ha ispirato tutto ciò era quella di muovere e scuotere la realtà romana. Vengono Inoltre realizzati e sviluppati anche progetti di co-housing a cura della facoltà di Architettura di Roma3. È anche lì che ha la sede la redazione del giornale Scomodo.
Spin Time Labs è l’ambiente di riferimento da cui nasce Resistenze, la prima produzione di Spin Off, con un sottotitolo: Racconti in serie- Storie in parallelo. Saranno molti gli artisti che verranno coinvolti in diversi momenti della giornata. Si inizierà con la presentazione del libro di Simone AmendolaTeatro nel diluvio, Editoria & Spettacolo 2019. Il testo racconta l’esperienza e la “resistenza” teatrale di Amendola, vissuta insieme con Valerio Malorni. Interverranno con l’autore Il giornalista e critico Sergio Lo Gatto, il drammaturgo Giacomo Sette e l’operatrice culturale Floriana Pinto. Teatro nel diluvio è un libro composto da cinque testi che spaziano dalla vita della periferia urbana, dalla violenza maschile sulle donne, al sogno dell’Europa che muove i migranti, passando per argomenti universali come l’amore, lo stare al mondo.
“Sopra il livello del mare” è un’installazione a cura di Emiliano Valente e Roberto Andolfi per Spin Off. Mostra una buona parte di tutto quello a cui siamo inevitabilmente sottoposti. Un’altra forma di resistenza quotidiana, la contraddizione assurda dei nostri tempi. Aiutare chi soffre per alcuni è ancora un dovere morale, un valore e una traccia di umanità. Per molti altri, invece, è riprovevole è inaccettabile. Resistere agli slogan “Aiutiamoli a casa loro”, “La pacchia è finita”, “Prima gli italiani”è diventato un atto di coraggio o di eroismo quasi, nella consapevolezza che ad essere intollerabile è solo l’intolleranza verso ogni forma di discriminazione e di razzismo.
Giuseppe Fenoglio, detto Beppe, è stato uno scrittore, traduttore, drammaturgo e partigiano d’Italia. Alla sua opera letteraria si ispira lo spettacolo Milton, prodotto dalla compagnia Teatro Macondo. Fenoglio nacque nel cuore delle Langhe, in Piemonte, la regione che è stata la matrice, la cellula dell’Unità d’Italia. Dopo l’esperienza della lotta armata e della Liberazione, ritornò definitivamente nella sua amata città, Alba. Il suo esordio letterario, la sua prima pubblicazione risale al 1952 : “I ventitré giorni della città di Alba”. Il suo romanzo principale “Il partigiano Johnny”, vincitore del premio Prato nel 1968, è stato trovato nei manoscritti conservati nel Fondo Fenoglio e pubblicato postumo, dopo la sua morte.
Autore della drammaturgia di Milton è Emilio Barone, presente in scena insieme con Francesco Petti.Alessandra Chieli cura la regia. Il protagonista è un ragazzo ventenne che parte alla ricerca del suo amico Giorgio, partigiano come lui, e per scoprire tutto sui rapporti con la ragazza di cui sono entrambi innamorati, Fulvia. Quella verità, per quanto dolore possa arrecare, è il pretesto per un’indagine sul Sé, ben più consistente di quanto il ritrovamento di una persona fisica possa rappresentare. La ricerca di Fenoglio è caratterizzata dall’utilizzo di un linguaggio crudo che restituisce immagini nitide sulla vita dei Partigiani, sulle condizioni rilevabili di un ambiente rurale come quello delle Langhe. E ciò permette, a distanza di più di settant’anni, alle nuove generazioni soprattutto, un contatto senza retorica con quella esperienza letteraria e con quel periodo storico.
In chiusura ci sarà Giorgia Frisardi con un concerto per voce e organetto. Una combinazione originale tra ricerca sonora e performance poetica. Anche perché solo la musica può mettere insieme, unire definitivamente le identità con le provenienze. Le voci e i volti possono essere diversi, ma le emozioni sono universali. Tutti hanno conosciuto l’amore e il dolore. Il grido, i suoni e i silenzi rappresentano una condivisione che abbatte le differenze. In fondo è anche questo l’obiettivo di Emiliano Valente e dei venticinque sognatori di Spin Off. Non solo storie di partigiani e di memoria, ma continuare a resistere a tutte le nuove, incresciose forme di resistenze. Di assalto e di aggressione al bene più grande dell’umanità: la libertà.
Redattore editoriale presso diverse testate giornalistiche. Dal 2018 scrive per Theatron 2.0 realizzando articoli, interviste e speciali su teatro e danza contemporanea. Formazione continua e costante nell’ambito della scrittura autoriale ed esperienze di drammaturgia teatrale. Partecipazione a laboratori, corsi, workshop, eventi. Lunga esperienza come docente di scuola Primaria nell’ambito linguistico espressivo con realizzazione di laboratori creativi e teatrali.
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