#AnticipAzione: Aspettando Godot di Filippo Gili dal 24 Marzo al 2 Aprile

#AnticipAzione: Aspettando Godot di Filippo Gili dal 24 Marzo al 2 Aprile

A quasi un anno di distanza dall’ultima rappresentazione di “Zio Vanja” al Teatro Argot nell’ambito del progetto Sistema Cechov a cura di Uffici Teatrali il regista Filippo Gili torna sulla scena romana a dirigere portando nuovi slanci artistici agli scenari angusti delle rappresentazioni veteroteatrali dei classici della drammaturgia contemporanea con uno dei capisaldi della letteratura mondiale: quell’Aspettando Godot che Beckett scrisse tra il ’48 e il ’49 pur non avendo allora alcuna idea delle tendenze teatrali del tempo, ma considerando lo scrivere per il teatro un meraviglioso e liberatorio diversivo per distrarsi e riposarsi in una pausa di lavorazione alla Trilogia dei romanzi. Un testo rivoluzionario sia sul piano formale sia su quello concettuale che ha segnato le sorti della storia e della cultura antropologica ancor prima di quella teatrale rappresentando una cesura cartacea, lapidaria ma al contempo eterea, nell’immaginario contemporaneo fra ciò che è stato e ciò che ne sarà dell’umanità, di dio e del domani.

Così Filippo Gili, incontrato a ridosso del debutto, ha commentato il nuovo allestimento che avrà luogo presso lo Spazio Diamante dal 24 Marzo al 2 Aprile: “Se Beckett racconta la storia di vagabondi io invece ho cercato di limare questo aspetto perché un conto è rappresentare i vagabondi nel 1950 un altro è farlo oggi dando un vantaggio incredibile agli spettatori di ordine psico-classista. Intendo dire che oggi il contemporaneo post-ideologico tende molto nel suo correttismo buonista a inquadrare la classe inferiore all’interno di una valutazione sostanzialmente empatica, divertita, buffa e tenera ma sempre allineata nell’ambito dell’erranza e del vagabondismo – condizione ontologica di tutti quanti noi ormai disinnescati dalla nostra identità attraverso una una manipolazione tecnocratica che più che mai ci ha deindividualizzato. Da questo punto di vista la cosa che mi interessava è che il pubblico non avesse l’opportunità per mettere al personaggio una maschera distanziante ma trovasse in un’ambientazione non così diversificata e non così comodamente ruolistica, un gioco di ruolo per cui un meraviglioso clown, un barbone simpatico e divertente cui applaudo e che in fondo dice delle cose geniali resta un barbone; il fool che è la coscienza critica del re resta pur sempre un fool – il re lo usa perché è geniale perché in qualche modo è una specie di capro espiatorio, di esorcismo democratico. Ho cercato quindi una dimensione minima differenziale possibile da questa rappresentazione e quindi evitando anche una serie di didascalismi eccessivamente clowneristici mantenendo comunque fede al testo così come è scritto sia didascalicamente sia verbalmente però non per tutto. Ritengo che in Aspettando Godot l’ambientazione vagabondesca non sia una cosmesi fenomenologica ma sia una questione ontologica o noumenica: in tal senso c’era bisogno di levargli queste vesti e la cosa che ho immaginato era un post post-moderno, un magazzino di Trony o Euronics o un Apple Store del 2080 in disuso da 40 anni quindi un doppio futuro dove questi due antichi commessi uno più giovane e uno più anziano tornavano quotidianamente in quel luogo affetti da una sorta di orfanità della situazione perduta”.

Continua Gili in una parte dell’intervista che a breve pubblicheremo integralmente : “Come vagabondi erranti di un’identità che ci è sfuggita di mano completamente, un’identità che si confà giorno per giorno nella gioia dell’aggiornamento, nella chiave della miniaturizzazione dell’aspetto tecnologico, nel nostro sentirci fautori e vettori di questo progresso che in quanto concetto ormai infilatosi anche nelle classi più basse – rispetto a questo Pasolini urlava la sua tremenda e bellissima apostrofe – è quanto di meno ontologico ci possa essere.  L’immagine è quella di un Occidente decaduto dove si svela finalmente che il domani non esiste o che questo domani una volta inveratosi non ha lasciato niente. Un domani nudo anzi un domani invisibile. Il domani si è verificato perché un albero enorme per un colpo di vento è cascato su un magazzino l’ha distrutto; la tecnocrazia dell’Occidente è finita lasciando il posto a nulla. Questi due vecchi commessi tornano in questo luogo per una liturgia della tradizione biologica e biografica ma anche perché questo è il luogo da dove le promesse del domani, di un domani eternamente domani, non sono mai state mantenute. Aspettando Godot quindi anche per domandarsi perché il domani non è arrivato.Poi il gioco che faccio a pianta centrale è un’arma a doppio taglio che se non funziona è terribile però se funziona ti costringe a scivolare dentro la presentazione togliendo quel diaframma quarto parietale in qualche modo così identificativo del gioco del teatro ma così tremendamente coadiuvante con la capacità dello spettatore di eliminare il rischio della catarsi intesa nel senso più classico del termine”.

Giorgio Colangeli e Francesco Montanari nelle vesti di Vladimiro ed Estragone saranno affiancati da Riccardo De Filippis e Giancarlo Nicoletti che presteranno voce e corpo a Pozzo e Lucky per quello che si preannuncia uno degli eventi più significativi della stagione teatrale romana, da non perdere assolutamente.

 

 

Aspettando Godot

di Samuel Beckett – traduzione di Carlo Fruttero

con Giorgio Colangeli – Francesco Montanari – Riccardo De Filippis – Giancarlo Nicoletti

e con Pietro Marone

FOTO Luana Belli GRAFICA OverallsAdv
VIDEO David Melani SCENE Giulio Villaggio – Alessandra De Angelis
UFFICIO STAMPA Rocchina Ceglia DIRETTORE DI PRODUZIONE Sofia Grottoli
DISEGNO LUCI Daniele Manenti AIUTO REGIA Luca Di Capua – Luca Forte
DISTRIBUZIONE & PROMOZIONE Altra Scena Art Management
UNA PRODUZIONE Altra Scena Art Management e Viola Produzioni
per gentile concessione di Editions de Minuit

REGIA Filippo Gili

Spazio Diamante – Via Prenestina 230b – Roma

dal 24 Marzo al 02 Aprile 2017
Venerdì e Sabato 21.00 / Domenica 18.00
Info & Prenotazioni 06 – 80687231 / 393 – 0970018
Biglietti: Intero eur 20 + prevendita; ridotto eur 15 + prevendita

Lo Stronzo in scena a Spazio Diamante. Intervista ad Andrea Lupo

Lo Stronzo in scena a Spazio Diamante. Intervista ad Andrea Lupo

È la sera del decimo anniversario di matrimonio di Luca e Lilli. Ma una parola sbagliata, una reazione scomposta: lei si spaventa, si allontana, sbatte una porta. Ci si chiude dietro. E a nulla servono le imprecazioni e le preghiere per farla tornare.

In quanti modi e a quanti livelli può un uomo usare violenza nei confronti della donna che ama? Cosa fa di un uomo un uomo?

Si susseguono tre distinti piani narrativi: Luca che prova a farsi sentire da Lilli malgrado l’immensa porta chiusa; Luca che ci mostra, in una sorta di estremo riassunto, il proprio rapporto con il femminile in casa, sul lavoro e fra gli amici; Luca che cerca in se e nella propria storia famigliare quali esempi di maschile lo hanno portato ad essere quello che è diventato.

Luca esasperato dal silenzio e dall’assenza di Lilli infuriato contro di lei e contro la propria incapacità colmo di sensi di colpa e frustrato da una opprimente sensazione di inadeguatezza da alla fine sfogo a tutta la propria rabbia e trova nell’aggressività l’unica valvola di sfogo, l’unico modo per uscire da quella situazione per lui ormai insostenibile.

In occasione della replica de Lo Stronzo presso Spazio Diamante di Roma, intervistiamo l’attore e regista, Andrea Lupo – vincitore del Premio Ubu nel 2000, Fringe Festival 2017, Premio In Box 2018 – direttore artistico della compagnia Teatro delle Temperie.

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

Produzione dello spettacolo Lo Stronzo : qual è la chiave drammaturgica utilizzata per raccontare le turbolente – spesso cruente – relazioni fra uomo e donna?

Attraverso un lungo percorso di ricerca e documentazione ho cercato il luogo dove trova terreno fertile quella rabbia inspiegabile, quella violenza terrificante. Mi sono immaginato un uomo non aggressivo, tranquillo, un uomo comune. Ho cercato di costruire un personaggio senza alcuna specifica caratteristica che lo rendesse particolare. Senza alcun alibi e senza scuse! Poi l’ho inserito in un contesto lavorativo di successo e soddisfazione in modo che anche questo aspetto non potesse dare alcun appiglio o pretesto. Poi gli ho assegnato una lunga e felice storia d’amore con Lilli (la sua compagna di sempre). Quindi ho cercato di sperimentare, il più profondamente possibile, il suo essere maschio, uomo, marito.

In quanti modi e a quanti livelli può un uomo usare violenza nei confronti della donna che ama? Quanti atteggiamenti o comportamenti che vengono da chiunque riconosciuti come “normali” e non particolarmente violenti sono in realtà veri e propri soprusi? Ho poi messo Luca in una situazione stressante che lo portasse a scontrarsi con tutte le proprie certezze e le proprie forme culturali e mentali.

Ne è venuto fuori un viaggio massacrante in cui ogni caratteristica del maschile comunemente reiterata nella nostra cultura, viene smascherata fatta a pezzi, ridicolizzata, banalizzata. Messo alle strette da una moglie che se ne vuole andare Luca ha solo due possibilità: cercare di ricostruire un sé maschile differente e nuovo e personale, oppure richiudersi, irrigidirsi, rifiutare l’evoluzione e scacciare ogni dubbio e ogni possibilità di cambiamento e crescita, eliminare ciò che lo fa sentire così inadeguato e incapace, abbattere quella maledetta porta che lo separa dal femminile che non riesce a comprendere né a tollerare più. Luca sceglie la violenza, l’aggressività, sceglie di non capire.

Una sconfitta per ognuno di noi. Una vergogna per ogni uomo, uno spunto di riflessione spero perché mi piacerebbe che usciti da teatro gli uomini ripensassero a tutti quei piccoli gesti quotidiani in cui il loro essere e sentirsi uomini prevede in qualche modo l’umiliazione o l’oppressione dell’essere femmina; perché mi piacerebbe che le donne uscendo da teatro riconoscessero di essere ferite un poco ogni giorno e non lo permettessero più a nessuno.

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

Dal punto di vista visivo, la regia ha immaginato e creato un impianto scenografico di grande impatto. Qual è la relazione che si instaura fra gli oggetti scenici, il performer e la storia narrata?

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

Lo Stronzo di e con Andrea Lupo

In scena c’è al centro una enorme porta chiusa a simboleggiare il diaframma impenetrabile che separa Luca da sua moglie, ma per estensione anche il mondo maschile da quello femminile ed un cubo sul lato sinistro a indicare quanto spigolosa e monolitica sia la formazione culturale maschile di cui anche Luca è intriso.

Luca è bloccato da quella porta che si renderà conto di non essere in grado di aprire non perché Lilli l’abbia realmente chiusa ma perché è a lui che mancano i mezzi culturali ed emotivi per capirne i meccanismi e scardinarne l’impenetrabilità.

Luca non tocca mai la porta, mai cercherà di aprirla. Ne è terrorizzato in realtà, ne è sopraffatto.

In che modo, a partire dalle vicende di Luca e Lilli, la pratica teatrale può condurre a una riflessione sui temi della violenza psicologica e fisica, in ambito domestico?

Una delle più grandi soddisfazioni l’ho provata alla fine di una replica de Lo Stronzo durante la scorsa stagione. Uno spettatore sui sessant’anni mi ha raggiunto in camerino alla fine della rappresentazione. Era rimasto molto colpito dal personaggio di Luca e insisteva a più riprese a dirmi che lui ne conosceva tanti di uomini così come Luca. Ad un certo punto, si è bloccato ed una luce gli si è accesa negli occhi. Pausa: “Forse, sono così anch’io?!”. Mi ha stretto la mano, mi ha ringraziato e se n’è andato assorto nei suoi pensieri. Una enorme soddisfazione.

Questo è lo scopo dello spettacolo: far sì che ogni uomo di qualunque età possa riconoscere un pezzetto di se in Luca e questo lo possa portare ad una profonda riflessione sul suo rapporto prima di tutto con l’essere un uomo ed in seconda istanza lo faccia interrogare sul suo rapporto col femminile.

 

LO STRONZO

di e con Andrea Lupo
aiuto regia Giovanni Cordì
elementi di scena Matteo Soltanto realizzati nel laboratorio E.R.T. suoni e musiche originali D.A.A.D.
foto di scena Roberto Cerè

Produzione Teatro delle Temperie
Promozione e distribuzione: Theatron 2.0

Nerium Park, intervista al regista Mario Gelardi

Nerium Park, intervista al regista Mario Gelardi

Da giovedì 21 marzo a domenica 24 marzo Nerium Park, ultima produzione del Nuovo Teatro Sanità, sarà in scena allo Spazio Diamante di Roma.

“Nerium Park” è l’opera del catalano Joseph Maria Miró, il titolo richiama l’ambientazione della storia, che si svolge in uno di quei complessi abitativi che sorgono appena fuori città, circondati spesso da alti oleandri. Qui, una giovane coppia, Bruno e Marta, decide di acquistare, con mutuo trentennale, un prestigioso appartamento di nuova costruzione, che appare come un’oasi di felicità immersa tra i nerium, un arbusto con foglie sempreverdi lisce e larghe; produce fiori rosa o bianchi molto abbondanti e aromatici. La coppia è in un momento professionale e personale particolarmente fiorente, in cui tutto sembra procedere al meglio e la novità della casa non può che rafforzare il loro legame. Col passare dei mesi, però, i due si accorgono di essere gli unici abitanti del parco, nascosto all’ombra di quel fiore, che ora non appare più così incantevole, ma quasi ossessivo. Lo spettacolo racconta dodici mesi della vita della coppia, in cui i due non hanno modo di liberarsi di quella casa che nessuno vuole più. Intanto Bruno viene licenziato, il che rende i rapporti della coppia sempre più tesi. A creare una maggiore distanza è l’irruzione di una strana presenza, che alberga nel caseggiato abbandonato, come una sorta di fantasma della coscienza. Lo strano individuo ossessiona la vita di Bruno e Marta, facendo emergere tra loro profonde discrepanze emotive. Così, quella che sembrava una storia d’amore, allietata anche dalla notizia dell’arrivo di un figlio, si trasforma in un crescendo di tensioni e suspense.

Abbiamo intervistato il regista Mario Gelardi:

Come è nata l’idea di portare in scena Josep Maria Mirò e quale evoluzione artistica c’è stata successivamente al vostro incontro?

L’idea nasce proprio dall’incontro tra me e Josep, durante “Write” una residenza internazionale per drammaturghi curata da Tino Caspanello. Quello che ci ha spinto a collaborare è che abbiamo la stessa esigenza di raccontare, la stessa urgenza sui temi da affrontare.

Hai dichiarato di “aver lavorato sull’attesa che la vita cambi, che la persona amata torni a casa, l’attesa di un lavoro e quella di un figlio”. Ritieni che ogni attesa, ogni aspettativa umana possa comportare una condizione di frustrazione?

No, la frustrazione non è inevitabile. Nel caso di Nerium Park, parliamo dell’attesa soprattutto di un cambiamento, in questo caso l’uomo deve essere attivo, ma non sempre trova le forze per farlo. Nerium è anche un invito a prendere in mano la propria vita e a non farsi trasportare dagli eventi.

Quello che perdono Bruno e Marta, nel loro rapporto, è l’intimità dell’amore, la felicità o entrambe le cose? In questo senso, Bruno e Marta possono rappresentare il paradigma delle difficoltà di comunicazione della coppia moderna?

Bruno e Marta hanno tutto per essere felici, ma sarebbe troppo semplice. I due protagonisti prendono due strade diverse, fino a non riconoscersi più, fino a non capirsi più. É una caratteristica, purtroppo, di molti rapporti umani.

Sembra quasi che oggi abbiamo bisogno di qualcuno che ci guardi dall’esterno. Che osservi quello che facciamo. Una sorta di “finestra sul cortile” tecnologica. Senza nessuno che ci guardi sembra quasi che non esistiamo più. È così?

La presenza dell’altro più che materiale è virtuale. Nel caso dei nostri protagonisti non sappiamo se e quando si materializzerà, è questo uno dei motivi di suspance della storia.

Il tema della paura è ricorrente nell’opera drammaturgica di Mirò. In Nerium Park si aggira un personaggio misterioso: chi è il nostro nemico?

La paura dell’altro, dello sconosciuto, la paura del cambiamento, la paura di perdere i beni materiali della propria vita ma anche quelli che pensiamo siano i nostri affetti. Sono temi caratterizzanti della scrittura di Mirò. Il primo nostro nemico, siamo noi stessi, soprattutto quando ci arrendiamo, quando non vogliamo affrontare il cambiamento che spesso è una rivoluzione, anche se intima.

NERIUM PARK
DI JOSEP MARIA MIRÓ
TRADUZIONE DI ANGELO SAVELLI
CON CHIARA BAFFI E ALESSANDRO PALLADINO
MUSICHE TOMMY GRIECO
COSTUMI ALESSANDRA GAUDIOSO
SCENE MICHELE LUBRANO LAVADERA
LUCI ALESSANDRO MESSINA
AIUTO REGIA DAVIDE MERAVIGLIA
FOTO DI SCENA VINCENZO ANTONUCCI
GRAFICA LUCA MERCOGLIANO
ORGANIZZAZIONE ROBERTA DE PASQUALE E CHIARA PASTORE
UFFICIO STAMPA MILENA COZZOLINO E ANTONELLA D’ARCO
REGIA MARIO GELARDI
PRODUZIONE NUOVO TEATRO SANITÀ
Febbraio d’ossessioni e dipendenze. La gelosia, l’amore e gli istinti da Shakespeare agli anni ‘70

Febbraio d’ossessioni e dipendenze. La gelosia, l’amore e gli istinti da Shakespeare agli anni ‘70

Con un salto indietro nel passato, raccontando le storie di re, regine e cortigiani, i destini segnati dagli oracoli del dio Apollo, le stragi degli anni di piombo, le cellule terroristiche, i rapimenti di persona, lo sfondo nero dell’omicidio di Pasolini, si possono descrivere e interpretare il presente e l’attualità. Altrimenti si può rimanere tra le storie dei giorni nostri, in mezzo alle inquietudini di ragazzi quasi adulti.

M.C. Escher

M.C. Escher

Da sempre l’uomo si è chiesto il senso di un eterno fluire, di una cronologia che potrebbe sembrare un insieme casuale di eventi, tra i decenni e i secoli. È uno studio continuo, una lezione: tutto ha un inizio e una fine. Questo vale per le cose, le persone, gli animali. La vita inizia e termina, il resto è solo transitorio. José Mujica scrisse che: “La vita è questo, un minuto e se ne va. Abbiamo a disposizione l’eternità per non essere e solo un minuto per essere”.

Un concetto simile lo aveva espresso William Shakespeare, molto tempo prima dell’ex Presidente dell’Uruguay, nel celebre monologo di Amleto. Il racconto d’inverno di Shakespeare, andato in scena al Teatro India dal 7 al 10 febbraio, con la Compagnia dei Giovani del Teatro dell’Umbria, è una delle sue opere più complesse dal punto di vista narrativo, fa parte delle cosiddette “Romances”.

Scritta intorno al 1610, debuttò il 15 maggio 1611 al Lobe Theatre di Londra. Rappresenta l’ultima fase della produzione shakespeariana insieme a Pericle, Cimbellino e La Tempesta. Gli studiosi del Bardo ascrivono The winter’s tale – Il racconto d’inverno a un “tardo romanticismo” ma forse l’uomo, non il celebre drammaturgo di Stratford-upon-Avon, era sofferente. Shakespeare aveva pianto la morte del figlio Hamnet, avvenuta a soli 11 anni e questo è difficile non sentirlo vibrare ancora oggi.

Andrea Baracco ha curato l’allestimento, insieme a Maria Teresa Berardelli, e ha firmato la regia dell’opera che egli stesso definisce come una “favola nera” che inizia con “C’era una volta un uomo che abitava vicino a un cimitero”.

La storia ha per protagonista Leonte, re di Sicilia, grande amico del re di Boemia Polissene. Due fratelli, senza legame di sangue, definiti “agnelli gemelli”. Un’ossessione cieca, la gelosia, li dividerà per sempre. Sospettando una relazione tra l’amico e la moglie, la regina Ermione, Leonte distruggerà tutto ciò che ha di più caro. Perderà la moglie, vittima di un ingiusto processo e a nulla servirà il coraggioso appello della dama Paulina. La sposa innocente morirà in prigione, dopo aver partorito la loro figlia Perdita, la quale, ritenuta dal padre sovrano come il frutto di un adulterio, verrà scacciata, abbandonata nei boschi.

Morirà Mamilio, il figlio maschio, l’erede. La bambina si salverà e si innamorerà di Florizel, figlio di Polissene. L’epilogo avverrà in Sicilia tra melodramma e magia. Ermione, conservata come statua viene riportata in vita da Paulina, custode della sua memoria, si ricongiungerà con la figlia e il marito. Il peso dello spettacolo si regge su un gruppo coeso di attori: Mariasofia Alleva, Luisa Borini, Edoardo Chiabolotti, Jacopo Costantini, Carlo Dalla Costa, Giorgia Filippucci, Silvio Impegnoso, Daphne Morelli, Ludovico Röhl.

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

IL RACCONTO D’INVERNO di William Shakespeare, regia di Andrea Baracco

12 baci sono lunghi come 12 mesi, un anno immaginato e vissuto tra il 1974 e il 1975

Il tempo e gli eventi possono usurare gli affetti, le passioni, le relazioni. In un gorgo di sentimenti non sempre limpidi. È sempre possibile redimersi, rimediare ai propri errori, alla brutalità, anche quando non c’è rimedio? C’erano due fratelli, il loro legame era di sangue in questo caso. Vivevano in provincia, a Napoli, città che un tempo fu la capitale del Regno delle Due Sicilie. Erano gli anni ’70, periodo di disordini, di conflitti sociali e politici. Il 14 novembre 1974, il Corriere della sera pubblicava l’editoriale con il titolo “Che cos’è questo golpe?”. Un forte j’accuse, scritto da Pier Paolo Pasolini quel testo convergerà in Scritti corsari, pubblicato successivamente nel 1975

12 baci sulla bocca è lo spettacolo scritto da Mario Gelardi, con la regia di Giuseppe Miale di Mauro. È il secondo appuntamento, dopo “Gli Onesti Della Banda”, che il Teatro di Roma ha riservato alla Compagnia NEST di Napoli al Teatro India. Massimo (Andrea Vellotti) sta per prendere in sposa l’unica donna che ha avuto nella sua vita. Dovrebbe essere felice, invece sembra non esserci conforto al suo malessere interiore. Suo fratello Antonio (Stefano Meglio) è un uomo che sa stare in quel mondo, con un ruolo a metà tra il giustiziere e il criminale, un picchiatore fascista.

Tra i due fratelli si inserisce Emilio (Francesco Di Leva). Un giovane lavapiatti con l’obiettivo di essere promosso in sala, in quel ristorante a conduzione familiare, e il sogno di andare a vivere a Londra. La sua “colpa”, se così potrebbe definirsi, è di aver fatto emergere una passione latente, quella di Massimo nei suoi confronti. La loro è inizialmente un’attrazione fisica, una lotta erotica.

Successivamente inizia a diventare qualcosa di diverso, che è intrinsecamente eversivo, un atto rivoluzionario contro l’ordine eterosessuale e patriarcale. Andrà punito con la stessa condanna barbara che verrà emessa contro Pasolini. Un atto di verità il sentimento di Emilio, cancellato con il suo sangue, perché nessuno osi turbare gli equilibri di una società. E di due fratelli maschi che hanno fin dalla nascita il vincolo precostituito alla riproduzione della specie. L’amore può avere una forte connotazione politica quando implica il coraggio di una scelta, tra sapere e tacere, essere e non essere. L’emancipazione dalla sottomissione e dalla dipendenza.

E quel sangue deve essere mostrato ed esibito. È una traccia di memoria, una prova del delitto e di un candore che è andato perso. Di un silenzio che è complice e carnefice. C’è il dramma in 12 baci sulla bocca, passa attraverso la violenza, così come avviene nella fabbrica shakespeariana. C’è il senso della tragedia dell’animo umano, in una battuta finale di 12 baci sulla bocca: “Tutti tenimm’ dint’ nu mariuolo, nu fetente” (Teniamo tutti una carogna, un fetente dentro).

12 baci sulla bocca

12 baci sulla bocca

L’Operazione – lo spettacolo da vedere per forza!

C’è un gruppo, anzi, un collettivo di quattro attori di oggi. È come se vivessero e si ispirassero agli anni ’70. Quello scantinato dove provano e si confrontano, quello spazio sotterraneo è come se fosse una bolla spazio-temporale. Uno di loro è l’autore del testo che porteranno in scena e che ha come protagonisti una cellula di terroristi negli anni di piombo, ma c’è un’altra storia che si sviluppa parallelamente.

In scena fino al 3 marzo allo Spazio Diamante di Roma, lo spettacolo L’Operazione è stato scritto da Rosario Lisma ( potete ascoltare qui l’intervista radiofonica a Clusteradio ) il quale lo interpreta con Fabrizio Lombardo, Andrea Narsi, Alessio Piazza e con la partecipazione di Gianni Quillico. La produzione è a cura del Teatro Franco Parenti, con la collaborazione di Jacovacci e Busacca.

Parla di quel lavoro che gli uomini non nobilitano, soprattutto quando le tutele vengono a mancare. Racconta di quanta incertezza ci sia in un paese come l’Italia, dove “si è giovani finché non si svolta”. Anche fino ai quarant’anni. “E se non si è svoltato, si passa dall’essere giovani all’essere falliti”, come recitano i protagonisti in scena. Intrappolati nella morsa di un precariato permanente, in un sistema che non è fondato sulla meritocrazia. Dove gli attori dipendono dal giudizio di un critico teatrale che può determinare, con il suo potere, la felicità o l’oblio, la buona o la cattiva sorte. Una figura quella di Mezzasala che viene continuamente evocata e ricercata in modo ossessivo dai quattro personaggi-attori.

La riflessione contenuta tra i quadri de L’Operazione è un approfondimento, un’analisi, senza la presunzione dell’assolutezza, sulla tendenza a ricercare nuove forme espressive. Una corsa a volte audace, a volte sregolata. Sperimentare e reinventare l’arte rischia di trasformarsi così in un’ossessione. E tra una frenesia e l’altra, una celebre citazione di Eduardo De Filippo: “Chi cerca lo stile trova la morte, chi cerca la vita trova lo stile”, finisce nei dialoghi dei quattro protagonisti.

Alla fine della storia cercheranno di trasformarsi in brigatisti, nel disperato tentativo di recuperare un po’ di dignità, ma il loro atto finale durerà il tempo di un’improvvisazione teatrale. C’è bisogno di tanto carattere, non solo di studio dei personaggi, sembra che suggerisca questo Rosario Lisma, come autore del testo e come regista, affinché possa essere messo in atto fino in fondo un progetto sovvertitore dell’ordine delle cose. L’Operazione parla molto di questi nostri tempi in cui l’assuefazione è forte al punto che tutto sembra iniziare e finire nello stesso momento, come una storia di Instagram.

L'Operazione di Rosario Lisma

L’Operazione di Rosario Lisma

“Posso lasciare il mio spazzolino da te?”

È ancora la vita, con le sue difficoltà e con le sue due metà di tragedia e commedia che ispira l’ultima proposta teatrale che abbiamo inserito nel nostro piccolo racconto di febbraio. Il suo titolo è un riflesso di una quotidianità, mediante una semplice domanda che contiene una richiesta sottintesa. Di quelle che una ragazza qualunque può rivolgere al suo fidanzato: “Posso lasciare il mio spazzolino da te?”. In altri termini significa: possiamo dare una svolta al nostro rapporto?

Massimo Odierna è l’autore del testo Posso lasciare il mio spazzolino da te? e il regista dello spettacolo che dal 18 al 20 febbraio è andato in scena al Teatro de’ Servi di Roma e al Nuovo Teatro Sanità di Napoli, dal 23 al 24 febbraio. Il cast che ha interpretato quella che viene definita come una “black comedy” è costituito da Martina Galletta, Luca Mascolo, Alessandro Meringolo e Luca Pastore.

Tre ragazzi sono i protagonisti: “Lei”, una ragazza in cerca della giusta occasione come attrice che costringe “Lui” , il suo fidanzato un po’ succube, a giocare alle storie inventate da “Lei”. C’è anche “L’amico” cinico, il coinquilino che abusa di alcool e sostanze di vario genere. Storie di insoddisfazione, di frustrazione e di inquietudine. C’è, infine, una quarta presenza, la figura inquietante dello speziale. Il medico della peste, con il becco di uccello e un lungo pastrano nero, appare e svanisce di tanto in tanto. Quella maschera è come un segnale di pericolo che quando si accende indica un’istanza nascosta.

Bisogna correre il rischio, osare, è il messaggio che ci lascia Massimo Odierna. È necessario continuare a raccontare, a condividere le storie, i nostri sogni.

Posso lasciare il mio spazzolino da te?

Posso lasciare il mio spazzolino da te?

E allora ecco che tutta l’eternità che spendiamo per “non essere” davanti a un breve, intenso minuto di “essere” comporta la scelta tra vivere da morti o morire da vivi. Raymond Chandler ne “Il grande sonno” si chiede:

“Che importa dove si giace quando si è morti? In fondo a uno stagno melmoso o in un mausoleo di marmo alla sommità di una collina? (…) Si dorme il grande sonno senza preoccuparsi di essere morti male, di essere caduti nel letame”.

La seconda edizione del Festival inDivenire. Intervista a Giampiero Cicciò

La seconda edizione del Festival inDivenire. Intervista a Giampiero Cicciò

 

Il Teatro fatto dalle persone, per le persone, oggi più di ieri è uno strumento indispensabile per migliorare la nostra vita. Citare in parte Alessandro Longobardi, l’ideatore, insieme a Livia Clementi, del Festival inDivenire, progetto che chiama e riunisce una nuova generazione di talenti in un luogo “in crescita” come lo Spazio Diamante a Roma, è doveroso per comprendere l’urgenza, la mission di tale iniziativa.

C’è una mente lucida e fervida, ma c’è anche un cuore pulsante, rappresentato simbolicamente dalla direzione artistica curata da Giampiero Cicciò, il quale è un uomo di teatro, attore e regista, un addetto ai lavori che conosce bene quel mare magnum dove anch’egli pratica la nobile arte della recitazione. Difficile è stabilire, però, dove inizia, dove finisce, come e quando la ragione incontra e si connette con la passione e il sentimento.

La seconda edizione del festival inDivenire si è conclusa domenica 14 ottobre; per la sezione Prosa hanno consegnato i premi Anna Bonaiuto, Giuseppe Manfridi, Peppino Mazzotta e Lorenzo Gioielli. La giuria era invece composta da Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Alessandro Machìa, Rossella Marchi, Giuseppe Marini e Luciano Melchionna.

Il Premio inDivenire 2018 è andato a Indra, di Ilenia D’Avenia e Francesco Governa. Il premio migliore attrice è stato assegnato, ex aequo, a Lucia Bianchi e Serena Borelli per Crave di Sarah Kane, mentre il premio al miglior attore, sempre ex aequo, è andato a Davide Logrieco e Paolo Camilli per Crave di Sarah Kane.

La miglior regia è stata quella di Ilenia D’Avenia e Francesco Governa per Indra, mentre il premio alla migliore drammaturgia è stato riconosciuto ad Attesa (da un’idea di Elena Oliva), autore Dino Lopardo.

La giuria ha espresso una menzione speciale a Giulio Guarino, autore di Waffandisney e una ad Alessandro Lenzi autore e regista di Apocalisse. La Giuria Popolare del Festival InDivenire 2018 ha decretato vincitore Il Mostro di Luca Buongiorno, regia Martin Loberto con Yuri Napoli, Luca Buongiorno, Laura Schettino.

Qualche giorno prima, giovedì 10 ottobre, sono stati assegnati i premi e la menzione speciale per la sezione danza ed è stata una serata ricca di eventi: la presentazione del libro Luciana Savignano. L’eleganza interiore dell’autore Emanuele Burrafato e l’omaggio del Balletto Di Roma alla famosa étoile. La stessa Luciana Savignano, ha consegnato il premio al Miglior Progetto di Danza a Equilibrio Dinamico Dance Company per Simple Love, con la coreografia di Roberta Ferrara, alla presenza della giuria formata da Marco Angelilli, Emanuele Burrafato, Giampiero Cicciò, Aurelio Gatti, Gloria Pomardi Zurcher, Monica Vannucchi.

A Gennaro Maione è stata riconosciuta la menzione speciale della giuria per Sex-thing Chapter Two dell’associazione culturale Korper. L’altra menzione speciale è andata alla Compagnia Progetto S per Vincere! Vincere! Vincere? con la coreografia Mario Coccetti. Danzatori Rocco Suma e Salvatore Sciancalepore.

Il premio al miglior danzatore è stato riconosciuto a Nicola De Pascale per “Simple Love” di Equilibrio Dinamico Dance Company e a Tonia Laterza è andato il premio come miglior danzatrice per il medesimo spettacolo.

Quella che segue è una breve intervista a caldo a Giampiero Cicciò, volta a raccogliere le sue riflessioni e le sue sensazioni:

Al termine della seconda edizione di Indivenire, quali sono state le tue emozioni e le difficoltà incontrate? Più in generale, qual è la tua esperienza e la cronaca dei momenti più significativi osservati attraverso la grande lente del tuo osservatorio ?

Sono felice che a prescindere da chi ha vinto, attraverso questo premio tanti progetti chiusi in un cassetto abbiano comunque avuto la possibilità di andare in scena e quindi di avere una vetrina. E tutte le nostre compagnie adesso hanno un lavoro tra le mani, anche se solo in work in progress, che grazie al festival hanno potuto approfondire e che potranno sviluppare in futuro. Le difficoltà, inevitabili, le ho già dimenticate visto che le cose belle sono tante di più. Tra i momenti più significativi, durante le due premiazioni delle sezioni danza e prosa, ci sono gli abbracci sinceri di tutti i partecipanti con i vincitori.

Una considerazione sul “work in progress” in scena, lo studio che rende bello ciò che è imperfetto.

L’andare verso è già bellezza, spesso più dell’approdo. Uno vero studio è vivo anche se incompleto. E le imperfezioni sono il nostro sprone per progredire.

Da attore, regista, direttore artistico, quali sono e quali “imperfezioni” percepisci nel teatro del nostro tempo presente?

Un certo naturalismo che offende il palcoscenico. Una recitazione televisiva che non arriva nemmeno in terza fila. La mancanza di veri maestri che sono perlopiù purtroppo morti. E l’incultura di molti giovani registi che credono di fare sperimentazione e, l’ho scoperto con mia somma meraviglia, non sanno nemmeno che è esistito Tadeusz Kantor.

Un’anticipazione sui tuoi prossimi progetti e su cosa muove la tua curiosità ed “emergenza artistica”.

Farò uno spettacolo con Maurizio Marchetti e con le musiche di Giovanni Renzo dal titolo “Da dove vieni? – Terraferma, Terrachiusa”. Oggi più che mai dobbiamo parlare di razzismo, di paura immotivata dell’altro, del “diverso” impropriamente detto, e dell’ottuso attribuire a chi vive ai margini colpe che non ha, questa è la mia emergenza. Poi riprendo “I miei occhi cambieranno” di Celeste Brancato con in scena Federica De Cola, spettacolo al quale sono molto legato. E a gennaio inizio una tournée di tre mesi con il bellissimo “Ragazzi di vita” di Pasolini diretto da Massimo Popolizio prodotto dal Teatro di Roma.

Il mondo è ovunque, tutto il mondo è un teatro e tutti gli uomini e le donne non sono che attori, il mondo è nostro. Quale passaggio è mancato in questa evoluzione (o involuzione) umana?

L’evoluzione dell’uomo è sempre in atto. Persino l’ombra nera del Nazismo e questo nuovo neofascismo in Europa sono e saranno spazzati via. Se a Lodi tolgono un piatto di pasta a dei bambini, ci si ribella e si fa una colletta. Se c’è Hitler, ci sono di contro Bartali, Schindler, De Sica… e una marea di uomini che nasconderanno un altro uomo per salvargli la vita. Io ho fiducia nell’evoluzione.
A volte avviene anche in modo violento purtroppo, vedi Piazzale Loreto, dittatori bruciati vivi, vedi le ghigliottine per chi ha affamato e preso in giro le persone, ma avviene. Servirà molto tempo ma l’unione tra i popoli è scritta nella Storia. Basta saperla leggere.

I talenti da difendere, i sogni nel cassetto… la speranza da promuovere?

Sono esattamente il fine mio e di Alessandro Longobardi, che ha avuto l’idea di realizzare questo festival che io amo molto fare.

Giampiero Cicciò e Alessandro Longobardi

Giampiero Cicciò confessa un po’ di comprensibile stanchezza, ma anche tanta soddisfazione per l’evoluzione della seconda edizione di inDivenire. Lo sguardo è proiettato verso il futuro, verso l’orizzonte che definisce la superficie di quel mare, oceano, da navigare con le sue infinite possibilità. Le compagnie di danza e teatrali, gli autori, i registi, i coreografi sono stati e si sono distinti come audaci naviganti in un viaggio durato tre settimane. Il cartellone, con un programma che ha messo insieme circa trenta spettacoli e più di duecento artisti, è come una mappa del viaggio. L’unico spettacolo ospite del Festival inDivenire è stato dedicato a Mimmo Lucano, sindaco di Riace.

Un progetto di Luigi Saravo, ideatore e regista di Exodus, che vede la collaborazione di Matemù e la presenza in scena di attori italiani e artisti africani rifugiati. In parallelo ci sono stati momenti di grande interesse come la presentazione di libri, di opere di pittura e di scultura in una collettiva caratterizzata dalla mixture di stili e culture. Su quella nave e in quel viaggio, una bussola immaginaria ha orientato ogni spostamento nello spazio esteso che guarda a nord e a sud, allungandosi verso il Tiburtino e, al suo opposto, il Casilino e che, da est a ovest, si allarga lungo tutta la Prenestina, dalla Togliatti al Pigneto. Ogni artista ha svolto anche un compito di responsabilità; le idee, la visione di quel viaggio si rivelano mediante una sorta di transubstanziazione raggiunta consacrando sul palco il lavoro concreto, lo studio, la dedizione.

Solo così l’arte, con una profusione di bellezza, salverà ancora il mondo e l’umanità da ogni aggressione fisica o verbale, da tutti i recinti, i lager e le frontiere. Non è una casualità né una coincidenza che l’apertura verso le periferie urbane vuole essere uno sconfinamento sul mondo, in un contesto micro e macro, armonizzando le differenze, il valore più intrinsecamente autentico della specie umana e della sua evoluzione.