THEATROPEDIA #2 – Le radici del teatro: Eschilo, Sofocle, Euripide
Atene, 522 a.c., all’incirca il 21 marzo di quell’anno: siamo in un agorà di Atene, si parla tra amici e si discute di chissà chi sarà ad aggiudicarsi il concorso delle Grandi Dionisie, la festa di inizio primavera. Scherni, boccacce, urla e risate sono il segno passionale che fanno intendere che davvero, a quella gara, le dieci tribù dell’Attica ci tengono molto. In cosa consiste il concorso? È un concorso “teatrale”, vince il rappresentante di una delle dieci tribù che meglio esegue un inno ditirambico scritto da sé, è una gara tra i poeti tragici. In questi anni però l’evoluzione “artistica” delle interpretazioni ditirambiche ha portato cambiamenti tecnico-strutturali evidenti, come l’aggiunta di un attore che si staglia dal coro, grazie all’intuizione di Tespi. Ed è per questo che il dibattito si fa più avvincente: si discute, infatti, di Tespi, Cherilo, Pratina, Frinico, cioè di veri e propri drammaturghi riconosciuti per il loro ruolo sia di poeta che d’attore mascherato. Al concorso è l’autore a parteciparvi con tre tragedie più o meno collegate tra loro, tragedie spesso basate su trame mitologiche, anche perché discendenti dirette del mito di Dioniso.
Il teatro, quindi, grazie alle Grandi Dionisie accresce il suo fascino e il suo interesse. E le esigenze intorno all’evento si distaccano sempre da più da quelle sacre legate a Dioniso, per interessarsi anche della vera e propria spettacolarizzazione. Così nel 501 a.c. gli organizzatori, interessandosi all’autore Pratina, aggiungono alle tre tragedie partecipanti, un nuovo genere di sua creazione: il dramma satiresco, perlopiù una parodia comica e dissacrante dei miti.
Al concorso “teatrale” di questa festa primaverile parteciparono anche i tre drammaturghi più noti della tragedia greca, grazie ai quali gli studiosi del teatro sono riusciti a basare la loro conoscenza di quest’ultimo: Eschilo, Sofocle e Euripide. Anche se bisogna dire che le opere ritrovate dei tre sono solo un campione delle oltre mille tragedie scritte in quel secolo da tanti altri autori mai conosciuti.
Figuriamoci ora di essere lì, sul declivio d’un colle, seduti sul theatron (una gradinata di legno) a guardare una rappresentazione tragica di Eschilo, saremmo coinvolti dalla monumentale spettacolarità fatta di doppi cori, personaggi mitologici, terrificanti, bighe tirate da cavalli e danze movimentate; insomma, un flusso continuo di spettacolarizzazione. Questo ci stupirebbe tenendo conto di quel che eravamo abituati a vedere, ovvero un solo attore mascherato che si cambiava continuamente di ruolo e controbatteva le sue battute con il coro. Difatti, Eschilo, apporta davvero delle grandi innovazioni alla rappresentazione, non ultima quella dell’aggiunta di un secondo attore, elemento che rende la trama più fruibile e credibile. Una novità che segna un punto di non ritorno, un’utile regola drammaturgica da rispettare a beneficio della propria opera.
Dopo la rappresentazione tragica di Eschilo, il pubblico attico rimane stupito, conscio che quello che ha visto rivoluzionerà il modo di intendere quella forma di teatro che sembra sempre di meno un ditirambo. Se Eschilo da una parte magnifica il teatro, poco dopo Sofocle lo drammatizzerà psicologicamente, facendo attenzione alla caratterizzazione dei personaggi (che diventano molto più complessi), aggiungendo un terzo attore e riducendo l’importanza del coro, che da qui in poi sarà escluso dall’azione tragica e interpreterà più il ruolo di spettatore giudicante che di attore agente della trama.
Ma arriviamo al 468 a.c., marzo. Il popolo ateniese non sa che di lì a poco sarà partecipe di una sfida epocale: al concorso drammatico delle Grande Dionisie parteciperanno Eschilo e Sofocle, per la prima volta sfidanti. Lo spettacolare contro il drammatico, l’incantevole contro l’umano. Uno scontro tra titani, padri del teatro classico, fondamenta di tutto il teatro moderno. Ansia, stupore, senso di giustizia, pianti, tutto questo si ode all’interno della cavea. Sofocle vince il primo scontro tra i due grazie alle sue innovazioni ma, in realtà, a vincere è quel pubblico che nemmeno immagina chi ha di fronte.
Tra gli spettatori di quell’edizione così particolare, quasi sicuramente, era presente un ventitreenne molto interessato, Euripide. Un giovane molto attento al teatro, tanto da analizzarlo fino a fondo e trovare in esso qualcosa che turbava il suo acerbo impeto drammaturgico. Ed infatti, di lì a poco Euripide sarà considerato il ribelle del teatro dell’epoca. L’autore ateniese sperimenta molto con la sua drammaturgia. I suoi testi, i suoi spettacoli fecero grande scalpore, perché in essi i personaggi acquisirono un’espressività molto più realistica e quotidiana e questo era considerato come irrispettoso e poco adatto per la tragedia. Per giunta i suoi personaggi osavano criticare spesso il senso di giustizia degli dei, attribuendone la causa delle miserie umane. Euripide, forse inconsapevolmente, stava operando un distacco netto tra la tragedia e i ditirambi di origine sacra. La sua struttura drammaturgica, spesso confusionaria, sciolta, poneva le basi per la sperimentazione futura di nuovi generi teatrali, che sfoceranno nella tragicommedia e nel melodramma. Euripide dimostrò che era possibile una drammaturgia avulsa dagli eventi mitologici, che il caso fosse una forza più potente di quella divina nell’intreccio della trama, che anche i miti minori o storie inventate di sana pianta potessero avere una propria dignità drammatica. Questa silenziosa rivoluzione drammaturgica fu, ovviamente, un successo per Euripide che riscosse molto interesse negli anni e questo spiega il numero relativamente ampio delle sue opere rimaste ai posteri, diciassette a differenza delle sette degli altri due tragediografi.
Eschilo, Sofocle ed Euripide, sono per questo l’origine della drammaturgia. Essi, in un ipotetico albero genealogico del teatro, supponendo che vi sia già la terra fertile della sua origine, del mito e del rito, s’impiantano come le radici di tutto quello che sarà il teatro negli anni a venire ed il fatto che ancora oggi ad Atene, Siracusa, negli anfiteatri greci, nei teatri classici, risuonino le parole dei tre è segno che il cordone ombelicale con la loro tradizione è indissolubile.